Dire che Bowie è un musicista è come dire che Nerone era un suonatore di lira (fatto tecnicamente vero, ma fuorviante).
Piero Scaruffi, dalla scheda critica su David Bowie
L’idea di Piero Scaruffi era semplice: mettere online una banca dati liberamente scaricabile via ftp che fosse una sorta di archivio digitale delle sue recensioni e dei suoi pensieri su cinema, poesia, letteratura, eccetera. Ci aveva pensato nel 1986 e ben nove anni dopo nacque http://www.scaruffi.com, diventato in poco tempo il sito più imitato della storia recente dell’internet. Ciò che però ha reso celebre Scaruffi non è solo il suo essere stato una vera avanguardia nell’ambito della divulgazione digitale, ma i suoi giudizi tagliati con l’accetta su qualsiasi artista o band abbastanza popolare o non sufficientemente sperimentale.
In un’epoca in cui la critica musicale è stata ampiamente sostituita dalla barra dei consigli di YouTube o dalle Playlist settimanali dei vari servizi di streaming musicale, sembra incredibile che si possa ancora parlare del giudizio di un critico e addirittura ritrovarsi a discutere su di esso. Il valore del lavoro di Scaruffi, a prescindere dalle contestazioni su quante schede abbia effettivamente scritto da solo, è di aver archiviato una memoria storica di certo rock da veri hardcore listener, con particolare attenzione agli anni ‘90. Nel sito di Scaruffi sono presenti migliaia di artisti, più di 8.000 parrebbe, molti dei quali fanno parte di scene underground sconosciute dal fruitore occasionale, una ragnatela composta di link e biografie, roba che nel 2021 ancora nessuna rivista italiana ha tentato di fare con i propri archivi.
Prima di scagliarmi contro il metodo critico di Scaruffi vi faccio notare che buona parte dei colleghi che attaccano il critico italo-americano sulla qualità delle sue schede, spesso cadenzate da errori di battitura e di date, non battono ciglio di fronte ad alcune delle più ignobili operazioni editoriali di questo paese, quelle schifezze alla “I mejo 100 album del new wave punk inglese”, dove si buttano in faccia al lettore un centinaio schede senza un criterio di selezione né un adeguato apparato storico, o peggio ancora quei fascicoli spacciati per libri con descrizioni degli album che non superano i 300 caratteri, senza dimenticarci delle “Enciclopedie del rock” di Arcana, lacunosi Bignami da 65.000 lire cadauno. Il prodotto di Scaruffi non sarà un granché (e non lo è, è zeppo di bias e di errori) ma almeno cerca di spingersi verso una direzione di storicizzazione più completa per quanto delle volte dilettantesca, e con le solite gravissime mancanze in sede di approfondimento e di contestualizzazione. Ricordo ai gentili lettori che nelle nostre librerie è tutt’ora in vendita sconcezze come “La storia del rock” di Ezio Guaitamacchi – segue un minuto di silenzio per il portafoglio.
Agli albori del 2000 Scaruffi divenne, in un davvero breve lasso di tempo, la rockstar più discussa d’Italia. Fino a qualche anno fa non c’era forum di appassionati o di riviste online in cui non venisse citato per sfotterlo o adorarlo. Da ragazzo ricordo che mi capitava di finire sul sito di Scaruffi quasi se non esclusivamente per i link che trovavo a giro, ed era assolutamente ilare constatare quanta gente s’incazzasse per quello che Scaruffi scriveva, manco gli stesse offendendo la mamma invece che i Queen. Ai tempi di Splinder, e anche poco dopo la sua chiusura nel 2012, non era raro incontrare blog quasi interamente pensati per postare delle contro-schede a quelle di Scaruffi. Le reazioni più esilaranti erano proprio quelle di chi si sentiva insultato intimamente dalle opinioni di Scaruffi, e così scriveva lunghissime disamine per smontarne il pensiero, come se a chiunque gliene potesse fregare davvero qualcosa. Anch’io non amavo Scaruffi, ma non per i giudizi in sé, non ho mai seguito un critico sulla base dei voti che dà, quanto per il metodo di analisi applicato, e quello del pierone (inter)nazionale è improntato sull’idea che la “buona musica” sia solo quella innovativa e di rottura.
Scaruffi non è un unicum, il tipo di critica che esprime era già stata contestata profondamente da John Dewey nella prima metà degli anni ’30 del novecento. Dewey è stato uno dei più autorevoli pensatori pragmatisti della scuola di William James, e in uno dei suoi saggi più illuminanti ed incredibilmente contemporanei, “Arte come esperienza”, esamina diverse degenerazioni della critica ancora oggi attualissime. Una di queste è la “critica giudiziale”. La critica giudiziale è quella che pensa che «il suo compito sia non la spiegazione del contenuto di un oggetto nei termini di sostanza e forma, ma un processo di assoluzione o condanna in base a meriti e demeriti.» Questa è una critica che ambisce all’autorevolezza, che agisce tramite precisi percorsi estetici e a volte ideologici. Scrive Dewey:
«È impossibile leggere per esteso le uscite di questa scuola di critica senza notare che sono in gran parte di tipo compensativo – fatto che ha dato origine al modo beffardo di considerare i critici come persone che non sono state capaci di creare. […] La percezione è ostacolata e interrotta perché ci si richiama a una regola influente e al posto dell’esperienza diretta si pone qualcosa di precedente e prestigioso. Il desiderio di una posizione autorevole spinge il critico a parlare come se fosse l’avvocato di principi consolidati dotati di indiscussa sovranità.»
Dewey scrive della percezione che le persone hanno del critico come un noioso accademico che dall’alto del suo trono giudica senza riguardo, giudica per invidia. Non è forse una delle chiavi di lettura più popolari ai nostri giorni, a prescindere da Scaruffi? Non credo esista un solo ambito analizzato dalla critica che riesca a sfuggire da questo pregiudizio, sopratutto oggi che attraverso i social tutti possono avere accesso alla materia prima artistica e farne esperienza, e così anche discernere di quella esperienza con altri utenti. Accade quindi che il critico sia spesso visto come il bastian contrario avverso ai gusti della gente, la sua autorevolezza è identificata come il retaggio di una tradizione ormai vetusta mentre il suo ruolo è stato pienamente destituito dagli indici di gradevolezza dei vari siti contenitori che si affidano al polso degli spettatori-fruitori. Ma se da una parte questo atteggiamento è ingiusto, perché guarda caso il critico che giudica per invidia è sempre quello che ha i gusti opposti ai nostri (pensa te!), dall’altro è vero che esiste una propensione di certa critica, cresciuta nelle colonne dei giornali e nelle riviste specializzate, ad una forma di esclusività sia nel linguaggio che nei giudizi. L’eccesso di autorità porta il critico costantemente a polarizzare le sue opinioni, i suoi modelli di riferimento diventano il Giusto e il Vero, e ciò che non li rispecchia assume tutti i contorni dello Sbagliato o persino dell’Eretico. In questo senso lo “scaruffismo” ha fatto parecchi proseliti sul web italiano – basta farsi un giro su OndaRock per constatare l’entità del danno.
Ad esempio di come si esprime questo tipo di critica Dewey cita il controverso “Discourses on Art” (1778) di Sir Joshua Reynolds, che a chi studiava arte «consigliava di attenersi alle forme artistiche dei pittori umbri e romani e, mettendoli in guardia contro altri, diceva che le trovate del Tintoretto erano “capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto, che ha lavorato a caso, senza disegno”.» Questo tipo di animosità è classica di certe stroncature di una critica che ha preso un po’ troppo seriamente il suo mestiere, creando trincee e alzando muri segnati dai punti programmatici di quello o di quest’altro manifesto. La degenerazione finale è quando il critico giudiziale inizia a pontificare su cosa sia “la Vera Arte”. Ciò accade quanto i modelli di riferimento del critico, quello che potremmo definire il suo bagaglio statico di esperienze, diventano talmente preponderanti nei confronti dell’immediatezza dell’esperienza che ne offuscano ogni proprietà dinamica. Il critico così diventa impermeabile alle novità, riconosce come arte solo quella che l’ha ispirato da giovane e che ha imparato a criticare da adulto, tutto ciò che non rispecchia quei canoni diventa alla meglio scarto, alla peggio “eresia”.
Scaruffi è parte di questa scuola di pensiero, ma immaginare che sia il solo è francamente da fessi. Questo tipo di critica nella musica rock esisteva già nelle sue origni ideologiche, ed è tornato in parte durante il passaggio tra gli ’80 e i ’90, riviste come Rockerilla e poi la fondazione nel ’95 di Blow Up, furono capisaldi (almeno in alcune loro firme) di una critica detentrice di verità assolute. Ormai questa forma di pensiero critico sta passando di moda, e la botta definitiva probabilmente coincide con l’uscita di “Rip It Up and Start Again: Postpunk 1978–1984” di Simon Reynolds, il quale tornerà davvero alle origini di certa critica ideologica, riportando la vecchia dialettica marxista al centro della riflessione storica scavalcando il filtro della “oggettività” della critica giudiziale. Francamente tra Scaruffi e Reynolds faccio fatica a capire chi abbia fatto più danni, ma ciò non toglie che entrambe le scuole di pensiero a discapito dei loro rispettivi bias abbiano comunque portato degli elementi positivi a vantaggio dei lettori. La critica giudiziale ha nutrito la riscoperta di artisti di secondo piano a livello commerciale, preferendo la contaminazione ai generi puristi, provocando i lettori con dischi abrasivi ma (delle volte) significativi, abituandoli alla scoperta della novità. La critica dialettica invece ci ha fatto riflettere più antropologicamente e socialmente sulle scene musicali, mettendo in risaldo il DIY e la lotta contro l’egemonia delle major, promuovendo la musica dal basso e le scene indipendenti.
Il punto chiaramente non è capire se “Trout Mask Replica” sia il miglior disco di tutti i tempi (concetto di per sé infantile) o se i Beatles siano la più grande truffa ai danni del rock ’n’ roll (quello è Gary Glitter), ogni critico ha la sua personale visione e alla fine anche chi se ne frega, il punto è: ha senso il modo di fare critica di Scaruffi? Perché oltre a tutti i difetti tipici della critica giudiziale Scaruffi ci ha messo pure il carico da novanta con il suo pallino per l’innovazione. Ma la musica sperimentale non è di per sé buona musica, né possiede virtù a priori che la mette al di sopra del resto della produzione artistica. I Ramones senza avere alcunché di sperimentale sono stati tra i gruppi di punta della rivoluzione punk, i Rake, pur facendo dischi assurdi che metti sul piatto solo quando devi scacciare i ladri, non hanno influenzato neanche la scena del loro condominio. Ovviamente neanche l’influenza è un elemento esaustivo per un’analisi critica, così come non lo è la presenza o meno di una melodia, la qualità dell’intreccio armonico, le soluzioni della sezione ritmica, la cura nella timbrica, sono tutti elementi che hanno senso assieme o che in alcuni casi non hanno valore alcuno, dipende da artista ad artista se non delle volte da album ad album. Giudicare una band esclusivamente sulle loro mancanze non è oggettivo, così come non lo è nemmeno prendendo come metro esclusivo il successo o l’influenza, inventandosi che loro melodie siano irripetibili e i loro giri di chitarra i più rivoluzionari di tutti i tempi.
Se la critica è giudizio al tempo stesso questa è anche servizio.
Il critico non scrive per sé, scrive per un lettore interessato a conoscere il suo parere per acquisire maggiore consapevolezza durante l’ascolto. Il critico non è quindi messo là a giudicare cosa il lettore dovrebbe ascoltare, ma a proporre un’analisi frutto di studi e approfondimenti che non sono richiesti al lettore dato che di lavoro fa altro dal critico. Eppure buttando uno sguardo in edicola la situazione non pare proprio messa in questi termini. La maggior parte delle recensioni sono brevissime sintesi di un pensiero prematuro, spesso tradotto in una ridicola sequela di sotto-categorie (tipo: post-grunge-electro-synth-tarantella) nel tentativo di dare un’idea al lettore di cosa ci sia dentro il disco, quando a questo basta che clicchi sul profilo Bandcamp della band e metta «play». Oggi il lettore non ha bisogno della lista della spesa per sapere di che genere sia l’ultimo album di Kenji Kariu, dunque a cosa servono ancora quel tipo di recensioni? Così come anche le analisi di artisti pop alla Lady Gaga che ti parlano del disco sviscerandolo manco fosse Aleksandr Skrjabin, quando la chiave di lettura del loro personaggio (e dunque della proposta musicale) si cela nel suo modo d’intercalare la propria icona nel contesto socio-politico contemporaneo. Non dai autorevolezza a Gaga ascoltando il disco come faresti con Nick Cave, sono due approcci alla musica diversi che necessitano di ascolti diversi.
Lo sapevo che alla fine sarei finito a parlare di critica in senso lato, questo anche perché Scaruffi l’ho letto da giovane, quando trovare una recensione decente sui Red Krayola era impossibile se non recuperando su eBay qualche vecchio numero di Rockerilla. Non solo, per quanto io apprezzassi con assoluto trasporto la struttura del sito, ho sempre mal sopportato le schede in sé, troppo brevi e sintetiche, alle quali ho continuato a prefere i pipponi lunghissimi e scassacoglioni alla Simon Frith e alla Chuck Klosterman, o le analisi storiche e sociali di Ed Ward (il quale fra l’altro ha fatto uscire il secondo volume della sua Storia del Rock, ovviamente inedita in Italia). Ma l’influenza di Scaruffi nel panorama critico italiano è stata impressionante, pensate solo a siti come Storia della Musica, Rockit o il già citato OndaRock, quanto debbano all’approccio scaruffiano. Anche le classifiche di Scaruffi, costruite a tavolino per prendere a schiaffi il lettore e fargli venir voglia di ascoltare roba diversa dal suo solito giro, oggi sono uno standard abbastanza comune (vedi lo stile di Pitchfork). Io non sopporto le classifiche, non per gli album che ci sono o non ci sono, ma per l’idea che si possa effettivamente definire cosa sia meglio di qualcos’altro sulla base di dati critici oggettivi basati su decimali o robe simili. Questo però è decisamente un problema mio, la critica infatti è innanzi tutto giudizio, e una classifica è la sintesi ultima di un giudizio. Meglio averne allora diecimila diverse, composte anche da gruppi che hanno ascoltato solamente in sei persone in tutto l’anno, che averne diecimila tutte uguali basate sui dati di vendita di Billboard.
Tutto ‘sto gran discorsone un po’ confuso non vuole essere una difesa d’ufficio o un attacco frontale, criticare il critico è legittimo e fa pure bene, perché porta a riflettere sulle proprie convinzioni e metterle in confronto con quelle di altri. Ma il fatto che Scaruffi abbia toccato tanti nervi scoperti del giornalismo musicale italiano mi ha sempre tremendamente incuriosito e divertito. La polarizzazione è ancora talmente palpabile che quasi ci sbatti il muso contro, ad oggi sono ancora pochissime le firme autorevoli del cartaceo passate sul web, quasi come se quello fosse un territorio ormai irrimediabilmente traviato dai cultori scaruffiani. Più però che un merito critico, quello di Scaruffi è un merito nel metodo di archiviazione, l’uso delle schede e i continui link tra le band citate, il donare lo stesso spazio ai gruppi famosi e quelli meno famosi, sono tutti elementi che oggi si ritrovano in gran parte dei contenitori di critica musicale, ma che ha visto in http://www.scaruffi.com il loro predecessore. Sarebbe un sogno sapere che le firme di Blow Up o del vecchio Mucchio si riunissero in un progetto simile ma autorevole, ben scritto, con approfondimenti degni di un sito di critica musicale, però questa speranza temo rimarrà tale per ancora molto, molto, molto tempo.
Riflessioni post-post
Non ho voluto analizzare il sito di Scaruffi oltre le schede sui gruppi rock perché francamente non mi interessa. Scaruffi si è occupato un po’ di tutto nella vita, ultimamente Twitter mi ha fatto notare che è stato intervistato da Huawei in merito all’influenza delle Intelligenze Artificiali nel nostro quotidiano futuro:
Is #AI revolutionizing our lives for the better? Watch in-depth insights from Dr. Piero Scaruffi, author of A History of Silicon Valley, who reiterates key points made in #Huawei Deputy Chairman @KenHu_Huawei’s speech at The #DavosAgenda. #TrustInTech pic.twitter.com/xhq2QwWdgg
— Huawei (@Huawei) February 10, 2021
https://platform.twitter.com/widgets.js
Ho scoperto che in certi ambienti accademici è conosciuto sopratutto per questo genere di cose. Il punto però è che questa personalità poliedrica e giganteggiante ha attirato a sé davvero un sacco di interesse e di rabbia, vera, feroce, come solo internet sa donare. Ormai ci siamo abituati a questo, le personalità spesso non necessitano neanche di essere particolarmente polarizzanti, le shitstorm sono continue e irreprensibili, ma Scaruffi è pure una testa calda, e questo non lo ha aiutato nel trovare voci amichevoli nel panorama critico italiano.
Ho sempre trovato puerili le critiche al suo ego, scritte spesso non da utenti su un forum ma da critici veri e propri, i quali vengono pagati per sbobinare ogni giorno gente con un ego che farebbe impallidire quello di Scaruffi. Avete mai avuto il brivido di intervistare un rocker? Gran parte di chi lavora in un ambito artistico qualsiasi si crede un genio incompreso, sempre ai bordi delle scene perché “scomodo” o “fuori dal sistema”. Provo una forma molto amara di pietà verso coloro che scrivono mossi dall’invidia degli altri colleghi, magari dei risultati da loro ottenuti, denigrandoli come fossero macchiette in cerca di attenzioni. Ci sono ovviamente colleghi più o meno simpatici, così come ci sono quelli raccomandati, gli inetti, gli incopetenti o i leccaculo e via discorrendo, però sarebbe bello, almeno in sede pubblica, che ci si scannasse (anche duramente, per carità, siamo adulti) per la qualità dei contenuti senza dover continuamente fare riferimenti personalistici alla Scanzi.
Con questo non voglio dire che Scaruffi sia un genio, non avrò letto neanche l’5% della sua produzione totale e non ho idea francamente del valore delle sue pubblicazioni scientifiche. Però mi lascia attonito questo imposto marchio del reietto, figlia di quelle guerre ideologiche che le riviste anni ’80 e primi ’90 si portano dietro, come il Mucchio o Rumore, robe che dovevi guardarti attorno quando uscivi dall’edicola con la rivista arrotolata sotto il braccio sperando di non incontrare un fanatico di Max Stefani. Io da ragazzo divoravo tutto, ho ancora diversi numeri di Rolling Stone e di riviste molto commerciali, ma che mi fregava? A chi dovevo dimostrare qualcosa? C’è troppa serietà in certi ambiti, serietà che sfocia irrimediabilmente nell’estremismo ideologico. Parlare di rock diventa una continua guerra composta da insulti e persino minacce legali, come se a Iggy Pop gli togliesse il sonno la recensione negativa a “Ready To Die” del blogger Gibe_de_pusi_b0ss.
Trovo ridicoli i commenti di critici che ridimensionano maestri come Lester Bangs perché «c’aveva visto male sui Blèk Sabbatt!», un critico non è la somma dei suoi giudizi bensì del suo pensiero. L’analisi della musica dei Sabbath di Bangs è ancora oggi incredibilmente interessante e valida, completa un quadro che altrimenti sarebbe solo un colore piatto di elogi incondizionati, quando è anche richiesto al critico mettere in crisi i paletti e le certezze, proporre punti di vista alternativi che facciano riflettere. La qualità delle riflessioni non si valuta sulla base della sola influenza sul nostro gusto, chi se ne frega del gusto, la critica è fatta anche di domande ben poste, che lasciano però spazio al fruitore di poter dare la sua di risposta, assolutamente personale ma più completa ed informata.
Un critico andrebbe criticato per il metodo, non per le idee.
Insultami anche tu!