A Toys Orchestra – Midnight Talks

…a toys orchestra

Di band in Italia più che meritevoli c’è ne sono in quantità, è trovarle il casino. Se sei fortunato riesci ad ascoltarle alla sagra del tartufo, se hai i giusti contatti magari te li spari nelle orecchie direttamente dal loro blog o su SoundCloud, ma di certo non ne sentirai parlare in radio o in TV, e la critica musicale nostrane un po’ per pregiudizio un po’ per fatica li rilega agli articolisti di seconda mano, con recensioni di trenta o sessanta parole in tutto.

Fino a dieci anni fa era tutto un po’ più semplice, e band come i Verdena, i Linea 77 e i Subsonica raggiunsero una notorietà eccezionale considerando la cultura musicale media in Italia (senza scomodare i Bluvertigo, i Tre Allegri Ragazzi Morti e così via), ma era comunque un’ondata commerciale (per dirla come un quattordicenne nel forum di Ondarock). Oggi nel marasma di internet se ti autoproduci e difficile finire nelle prime pagine di Google.

Gli a Toys Orchestra sono una delle realtà musicali più interessanti, a livello mondiale. E non sto esagerando, anche se è facile pensarlo perché… beh, perché sono italiani, dico bene? La band capitanata da Enzo Moretto sta facendo grande musica, e la fa più o meno da quando sono nati. Non sconvolgetevi, niente di trascendentale, il loro è un ottimo pop rock senza pretese, scanzonato e romantico e dal retrogusto amarognolo della scena indie, ma comunque mille volte meglio di certo brit pop che imperversa in tutte le riviste “rock” di questi tempi.

Gli a Toys Orchestra si formano nel 1998 e dopo una gavetta tosta nel 2001 pubblicano il loro esordio discografico. Quando si parla di “Job” (2001) si parla spesso, troppo spesso, di indie rock. Di certo la prima comunità musicale ad apprezzare la band campana fu proprio quella indie, ma da loro a band come i The Underground Youth o i Yeah Yeah Yeahs ci passa il mare. C’è l’indie, come ci sono gli Smiths, i Radiohead e tanto altro, c’è anche la musica italiana pop con le sue melodie agrodolci. In “Job” l’anima e il sound della band sono intuibili, anche se ancora non nella condizione di poter uscire fuori con tutta la loro complessità. L’album non è di certo un exploit, ma lascia intravedere qualche qualità.

Nel 2004 grazie ad una etichetta fiorentina specializzata in indie rock (che poterà ancora di più a categorizzare la band nella ristretta cerchia dell’indie), la Urtovox, possono pubblicare “Cuckoo Boohoo“. L’album è un gran passo avanti in confronto a “Job”, una maturazione forse inaspettata. La complessità musicale viene sottovalutata praticamente da qualsiasi recensore o critico italiano, il quale di certo si rende conto di essere di fronte ad un lavoro ben al di sopra della media, ma allunga comunque le mani. Eppure “Cuckoo Boohoo” per quanto non un capolavoro, è un album forte della sua umiltà e leggerezza. Grazie ad un fortunato singolo Peter Pan Syndrome molte porte cominceranno ad aprirsi per la band. Sono diversi i pezzi orecchiabili, da Hengie: Queen Of The Border Line (con tanto di citazione a Angie dei Rolling Stones) a Elephant Man e Asteroid, le idee melodiche sono anche il nucleo attorno al quale le canzoni girano, senza mai prendersi il lusso di cercare qualcos’altro.

Il terzo disco degli a Toys Orchestra esce soltanto nel 2007, ed è finora di gran lunga il loro migliore: “Technicolor Dreams”. Le voci di Enzo e di Ilaria D’Angelis si amalgamo in cori melanconici, il ritmo a tratti diventa leggermente più frenetico e nervoso del lavoro precedente. L’eleganza, dettata da una asciuttezza del suono ben calibrata, tende a deflagrare in alcune tracce in barocchismi totali che lasciano stupefatti. Il diverso approccio è evidente in Panic Attack #3, continuo ideale di Panic Attack #1 e Panic Attack #2  nel disco del 2004, sebbene l’urgenza di non staccarsi dal discorso melodico si cerca di sfruttare distorsioni e mezzi elettronici per sostenere il crescendo della canzone. I testi, anche se fin qui non ne avevo parlato, sono uno dei punti forti della band, ed in questo disco trovano una evoluzione poetica non indifferente anche se ancora lontani dall’unione tematica ideale nel quarto disco (che è quello che mi appresto a recensire), poi purtroppo persa nel quinto “Midnight (R)Evolution” (che affronta malamente tematiche sociali, ma senza la poesia e lo stile decadente che di solito caratterizzano la produzione lirica della band). L’inserimento di elementi derivanti dell’elettronica è perfettamente gestito. Notevole Technicolor Dreams, finita insieme ad altre canzoni del gruppo nel bruttissimo film Remeber The Daze ; l’album secondo me presenta meno tracce eccellenti del precedente, ma acquista una maggiore armonia tra i pezzi risultando un lavoro perfettamente omogeneo.

Dopo una collaborazione con una influente realtà musicale italiana, gli Afterhours, e qualche altra collaborazione cinematografica di pessimo gusto, arriva il 2010, e con lui “Midnight Talks”.

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Quando l’album uscì lo comprai sulla fiducia, convinto che il gruppo valesse venti euro senza neanche la prova d’ascolto (cosa che mi rimangerò con il disco successivo).

La copertina mi fece un po’ effetto e la cosa mi piacque.

Mentre metto il cd nello stereo guardo meglio la confezione, ‘na roba da stereotipo indie-a-bestia (la Urtovox non si fa riconoscere insomma). Mi ricorda un po’ quella di “Requiem” dei Verdena, e fa saltare in mente anche quella ancora più scarna di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” degli Arctic Monkeys.

Il disco inizia con Sunny Days e la prima cosa che subito l’orecchio nota è la profondità. Il suono del piano è molto più caldo che nei lavori precedenti, la produzione mette in scena le migliori qualità della band così come i suoi limiti ma finalmente con una cornice da produzione pop che più gli si confà. Dopo a mala pena due minuti il pezzo accelera di punto in bianco, si passa a Red Alert così, senza aver il tempo di orientarsi i Toys mostrano come la loro abilità compositiva si sia raffinata così come il desiderio di dare una certa forza narrativa all’album.

Mystical Mistake si apre con un attacco decisamente più rock che pop, ripetitiva ma orecchiabile.

The Day Of The Bluff ci calma e ci fa riflettere. Il disco racconta di quelle personalità che si aggirano la notte, tenta di comunicarci l’incomunicabilità della società contemporanea; la difficoltà di una reale comunicazione sfocia nella depressione, nelle perversioni, nella malinconia (Mark Fisher intensifies).

Celentano è un tributo al vecchio Adriano, decisamente dimenticabile.

Plastic Romance e Plastic Romance (part Two) sono l’apice di questo album.  La prima parte è a ritmo di marcia, una marcia vittoriosa che che però stride con la tragica storia di un amore impossibile e perverso tra un ragazzo e una bambola di plastica. Nella seconda parte la ferocia collassa nella melanconia pop.

Pills On My Bill è una ballad di tutto rispetto, mica quella schifezza di Haunted dei Deep Purple recentemente recensita (ho ancora i conati di vomito). Anche la parte orchestrale risulta assai meno tamarra del previsto (si sa come va a finire di solito con le ballad).

Frankie Pyroman è il secondo diretto sulla stomaco dopo Mystical Mistake. Stavolta però la sezione ritmica si sposa in modo particolarmente pregiato con la melodia, producendosi in un groove rock ben confezionato per quanto prevedibile.

Backbone Blues è il modo di fare blues della band. Passabile.

Look In Your Eyes scopre subito le carte con una linea melodica che ci ricorda tantissimo le cose migliori sentite in “Cuckoo Boohoo”. L’evoluzione tecnica e di produzione permette però ai Toys di fare l’ennesimo salto di qualità.

Con Summer non ci stupiamo più della qualità nella ricercatezza di un sound pulito ma non freddo. La pecca maggiore di Summer è la sua lunghezza, il pezzo è semplice, perché annacquarlo inutilmente con almeno un minuto abbondantemente in più?

The Golden Calf è la traccia che ha meno da dire di tutto il disco.Un riempitivo di cui non se ne sentiva il bisogno e che allunga il brodo inutilmente.

Somebody Else è un finale banale ma efficace. Riassume deliziosamente la poetica di questo album, travolge nella sua malinconia per poi esplodere nel suo grido di disperazione finale, evoluzione definitiva da quello isterico di Panic Attack, ora gli a Toys Orchestra sanno a chi urlare, ed è proprio a noi che è indirizzato quell’urlo di meravigliosa angoscia.

Non recensirò “Midnight (R)Evolution” il disco uscito sull’onda di “Midnight Talks”, perché è il risultato di una triste operazione commerciale. Ci sono degli spunti interessanti ma non è un lavoro ben ponderato come di solito è quello dei Toys.

  • Pro: un pop rock meno banale del solito.
  • Contro: gli a Toys Orchestra sono una band esageratemente caratterizzata, ed è possibile che il sound non vi piaccia per niente inficiando così ogni ascolto futuro.
  • Pezzo Consigliato: come per “Superunknown” qualche recensione fa, non posso che consigliarvi di ascoltarvi tutto il disco tutto d’un fiato.
  • Voto: 6,5/10

Deep Purple – Bananas

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So che per questo post sarò pestato in strada da qualche fan dei Deep Purple, ma è giusto così. I motivi per cui “Bananas” è secondo me uno degli Album Più Brutti Di Tutti I Tempi non sono da ricondursi all’album in sé quanto alla storia dei Purple.

Che i Deep Purple abbiano fatto la storia del rock più hard non sono di certo io che lo dico, è un dato oggettivo. Dischi come “In Rock” ti fanno QUANTOMENO balzare dalla sedia ad ogni fottuto riff, potenza pura, un botto di virtuosismo (troppo per i miei gusti), ogni elemento della band interpretava al meglio il suo strumento. Ma non è sempre stato così.

La band inglese è tra le più incasinate di sempre, raramente gli stessi elementi stavano assieme per più di due album e i membri più longevi sono quelli che hanno saputo mettersi da parte durante le feroci liti che seguivano ad ogni tour o ad ogni registrazione. Di certo i più focosi furono Ritchie Blackmore e Ian Gillian i quali ci hanno lasciato un mastodontico campionario di insulti più o meno velati; si va dal «Non ho mai sopportato gli atteggiamenti da padre-padrone di Ritchie» di Gillian ad un più colorito Blackmore «Ian Gillian? Ha perso la voce nel 1973 e ancora non se ne è accorto.» [citazioni da JAM, num. 119 del 2005]

Il sound della band trova una sua definizione esaustiva proprio con “In Rock”, nel lontano 1970. Tra alti e bassi i Deep Purple arrivano al 1975 con “Stormbringer” ancora più che in forma, ma lasciando Blackmore sul ciglio della strada in pieno agosto, perdendo insomma il membro certamente più creativo e caratterizzante del gruppo. Dal 1975 in poi i Deep Purple sono ascoltabili solo come una forma estrema di masochismo.

Nel ’84 Blackmore decide che i Rainbow non sono più cosa adatta a lui (grave errore, poiché potenzialmente erano uno sviluppo creativo certamente migliore di una reunion di ottuagenari) e cerca di portare agli antichi fasti i Purple. Quello che uscì fu “Perfect Strangers“, tutt’altro che perfetto ma sicuramente qualcosa di a me straniero.

Quando nel ’93 si ritrovarono di nuovo assieme Gillian e Blackmore (ormai inaciditi anche dall’età) furono subito insulti in quantità e dischi davvero deprimenti nella loro incapacità di proporre qualcosa di nuovo ed interessante. Blackmore se ne va sbattendo la porta e rifugiandosi nei suoi Blackmore’s Night.

Inizia così l’epoca di egemonia di Steve Morse, il quale di certo non manca di tecnica, peccato che in quanto songwriting abbia voluto sperimentare tutti i suoi limiti con il grande pubblico.  Subito dopo arrivò anche Don Airey a sostituire il mai abbastanza compianto John Lord. Airey è riconosciuto (giustamente, direi!) come uno dei migliori interpreti della tastiera tra i pensionati e gli ARCI di tutto il mondo, anche se il suono del suo hammond nei lavori con i Purple non sempre sembra in armonia con il resto dell’ensemble.

Da questo immondo pandemonio resta da capire cosa siano i Deep Purple. Secondo Gillian sono «un’idea», ma sinceramente parlare di una band come di un concetto che trascende i suoi componenti mi pare alquanto imbecille come ragionamento. È come dire che i Soft Machine sono un concetto quindi anche Gary Glitter a seguito della band di paese può suonarli a loro nome alla Festa del Porcino.

Comunque l’idea Gillian non poteva mica tenersela per sé, così nel 2003 i Deep Purple compiono un atto davvero inconcepibile visto la palese mancanza di idee appurata in “Abadon (1998, disco essenzialmente di rivisitazione dei lavori passati, una roba agghiacciante), fanno un nuovo disco, tutto, tutto, tutto sbagliato: “Bananas“.

Bananas

Uscito per la famosissima EMI questo affronto al decoro acustico fu prodotto da Michael Bradford che guarda caso scriverà anche gran parte dei pezzi di questo album. Bassista, produttore famoso ed ingegnere prestatosi a tante personalità come Run D.M.C., Kula Shaker, Madonna New Radicals ma solo una volta a testa (gatta ci cova), Bradford viene ancora oggi menzionato per il suo lavoro con i Purple da “Bananas” a “Rapture Of The Deep” da schiere di fan incalliti. Inoltre “Bananas” vanta certamente il primato come copertina più brutta della storia del rock e forse di qualunque genere musicale conosciuto, ideata, credo, dal loro fruttivendolo di fiducia.
Ma cominciamo pure con l’ascolto.

Il disco si apre con House Of Pain, composizionedegna della miglior band del vostro liceo (suonata però da dei professionisti). Il pezzo non esprime alcunché se non una serie indefinita di cliché, ci sono dei discreti musicisti che a tratti ricordano qualcosa dei Deep Purple ma anche dei Bad Company e degli Aerosmith. Peccato che nell’atroce copertina del disco ci sia scritto Deep Purple e così, innocentemente, mi immaginavo un nuovo disco della band che ha fatto la storia del rock e non la loro cover band attempata. Inutile. Mi viene da pensare male sul titolo della canzone.

In Sun Goes Down l’unica nota decente è Airey che ogni tanto dà qualche sferzata di classe sui tasti. In generale si tenta di dare un tono epico ad una traccia che dimostra ancora volta che sanno suonare ma nient’altro. Paziento fino alla fine del pezzo, perché io ho speso dei soldi per un disco dei Deep Purple e voglio continuare ad ascoltare anche se le orecchie sanguinano.

Di Haunted sapevo che era una della ballad meglio riuscite dei Purple. Beh, sappiate che non è così, anzi. Gillian non canta, si lamenta (e pure male) mentre Morse fa addirittura il verso a Brian May. L’aulico testo di Tormentato ci ricorda che quando le liriche dei Deep Purple non significavano un tubo (vedi Black Night) ma almeno la musica era spettacolare, ora che sono addirittura al limite della decenza la musica sembra uscita fuori da un karaoke. Dire che è una delle ballad più riuscite è un affronto a Soldier Of Fortune mica da ridere.

Ammetto che in Razzle Dazzle per un attimo la tastiera usata da Airey mi è sembrata giocattolo. Gillian si ridicolizza oltremodo, il pezzo non è né buono né cattivo ed è la cosa peggiore per una canzone come per un album, la totale assenza di creatività crea situazioni davvero imbarazzanti. Ad un certo punto c’è pure il gatto di Airey che salta su una pianola (mi rifiuto di pensare che la stia suonando da sobrio).

Silver Tongue si presenta con un riffone bestiale, ed insieme a lui la speranza che “Bananas” riservi forse qualche soddisfazione. Come non detto. Il pezzo è scritto col culo, ad un certo punto parte una fuga condotta da Morse di carattere prog, poi diventa metal, infine arriva Airey vestito da John Lord e ricomincia d’accapo, tutto questo accompagnato da un Gillian pronto per il karaoke in riva al mare con gli amici. Confusione totale.

I primi ed eterei suoni che ci introducono Walk On ci richiamano alle atmosfere dei Caravan, spiazzandoci effettivamente un po’. Spunta così una struttura da blues rock non da buttare via (visto quanto sentito finora). Gillian si prodiga al Canta Tu col solito impegno e notiamo una cosa dalle nostre casse Indiana Line: gli effetti. Roba da sigla delle Winx, ma che cacchio c’entrano? Che si stava fumando Bradford durante le registrazioni? Il pezzo comunque risulta troppo lungo e il finale è un pasticcio noioso senza motivo di esistere. La frustrazione aumenta notevolmente.

Picture Of Innocence riprende a tratti le cose sentite in “Abadon”, un blues rock frizzante ma che non sa di un cazzo (perdonatemi le parolacce, ma siamo già a mezz’ora d’ascolto e questo aborto con i solchi mi sta facendo innervosire). Airey tira fuori qualche bella idea, il finale però risulta oltremodo tamarro.

I Got Your Number sembra un pezzo dei Foreigner. E non è un complimento. C’è un bell’assolo sempre del prodigo Airey, stroncato troppo presto da un riff abominevole di Morse, Gillian a tratti ricorda Kyle Gass. 

Con Never A Word mi sembra di esser stato catapultato di nuovo in un disco dei Caravan, ma smetto di fare paragoni perché li ho insultati una volta di troppo. Ma… la traccia è bella (o forse solo decente, ma ormai sono in pieno effetto allucinatorio)! La linea melodica è molto delicata, appena accennata, la voce sembra perfetta (sono in estasi), tutto sembra al posto giusto, l’emozione inizia a commuovermi e… e… finisce di punto in bianco?!? Ma come? Sviluppi una bella linea melodica, e poi sul più bello la tronchi così? Senza un senso? Dio, come odio questo album!

Bananas non può che cominciare nel peggiore dei modi. Un casino insensato di generi, di idee (?), Gillian/Canta Tu, l’hammond buttato lì senza motivo, assoli di armonica che non lasciano scampo. Follia. Comunque anche stavolta i membri della band dimostrano le loro grandi abilità tecniche (peccato per la musica di merda). Gli ultimi secondi del pezzo rimandano alle atmosfere di Morricone nei vecchi ’60, confondendoci ed irritandoci ancora di più.

Doing It Tonight è qualcosa di atroce. Una roba tipo latino-americana con chitarra, tastiera, basso e batteria, cantata dal fratello scemo di Paul Rodgers. Rockeggiante quanto basta per farci rimpiangere anche gli ultimi lavori di Santana. Più simile a Heavy Samba che a Santana comunque.

Il tutto si conclude con Contact Lost (col cervello, aggiungo io) dedicata agli astronauti morti nell’incidente dello Space Shuttle Columbia. Sull’attacco di questo pezzo strumentale mi sono messo le mani nei capelli. Che-razza-di-disco-dei-Deep-Purple-è-mai-questo? Come si fa a dire che è buono, che è decente, con che coraggio? Il pezzo non è terribile, poco più di un minuto strumentale per Morse essenzialmente, ma che senso ha? E perché gli effetti sonori che riempiono questo album sembrano quelli di Bim bum bam?

Se Gillian avesse avuto la decenza di chiamare la sua band in un altro modo questo era solo l’ennesimo disco ben suonato ma che non sa di un tubo della storia (Steve Vai ne sa qualcosa), ed invece si è trasformato in un affronto diretto alla storia del rock stesso, macchiando il buon nome dell’hard rock. Una band con tante banane ma poca musica che abbia qualcosa da dire.

Se il disco non ha avuto una vera e propria stroncatura dalla critica (e da alcuni fan) è per il solito problema della critica musicale italiana, e di come si parla spesso di musica. L’aspetto tecnico predomina ancora oggi a discapito di quello creativo, laddove per creatività si possono intendere tante cose, dall’approccio al genere fino a certe scelte particolari di arrangiamento, ma di certo non ‘sta sbobba. I Deep Purple negli anni ’70 hanno incattivito il rock, l’hanno reso più pesante, alcune loro intuizioni hanno plasmato il genere e fomentato epigoni in tutto il mondo. Quello che invece i Deep Purple fanno con “Bananas” è far cassa su un nome, il che inficia assolutamente nel giudizio finale su questo album.

  • Pro: è un ottimo porta vivande in stile vintage.
  • Contro: è un pessimo frisbee e un disco di merda.
  • Pezzo consigliato: ho speso venti euro per questa merda, e vi giuro su Dio che rimpiango The Wanderer! Ma quale pezzo consigliato…
  • Voto: 2/10

Serj Tankian – Harakiri

Tankian

“Harakiri”, l’ultima fatica di Serj Tankian, è l’ennesima prova che la critica musicale serve unicamente come lettura mentre si è al cesso. Nessuno ha voluto stroncare definitivamente l’ex-cantante dei System Of A Down perché ci credono, dentro di loro ci credono: prima o poi tirerà fuori il capolavoro.

Mah.

Dal 1994 ad oggi Tankian ne ha fatta di strada. Mettersi qui e lasciar scorrere i nomi degli album dei SOAD mi sembrerebbe davvero un’ingiustizia, meriterebbero di essere approfonditi in un’altra recensione, o nell’occasione di un nuovo album (anche se sono tra quelli che sperano che non esca mai).

La band in sé riuscì a mio avviso a fare qualcosa di incredibile: non si fece categorizzare. Non esiste una vera e propria casella nella quale inserire il lavoro dei SOAD, di solito inutilmente trascinati nello scompartimento del nu-metal, ma la verità è che sono pochissimi gli album d’esordio come “System Of A Down (1998) che mostrano una così prominente personalità, un sound straordinariamente già calibrato ed innovativo, un disco in cui si fa fatica a scoprirne le influenze più prominenti a parte quella conclamata dei Dead Kennedys.

Quello che ha fatto la fortuna dei SOAD è stato proprio quel sound, risultato di una amalgama di artisti così diversi tra di loro che hanno trovato fino al 2005 un’armonia (musicale) impressionante.

Tankian stupiva per quella voce; i suoi barocchismi hanno caratterizzato tutta la produzione dei SOAD e trovava la sua perfetta controparte negli agghiaccianti striduli del deus-ex-machina della band Daron Malakian.

Lo scioglimento dei SOAD arriva in un momento molto contorto della loro discografia, l’anno successivo l’uscita nel 2005 di “Mezmerise” e “Hypnotize“. I due lavori divideranno i fan, tra chi reputò questi due dischi una semplice trovata commerciale per vendere il doppio e chi invece invocò la definitiva maturazione della band.

Sciolti i System Malakian e Tankian, le due anime della band, cominceranno due percorsi slegati, il primo fondando gli Scars On Broadway, mentre Tankian si getterà su dei lavori da solista, concentrando la sua attenzione nel far sentire a tutti quanto è bravo a cantare.

L’uscita di “Elect The Dead“, il disco d’esordio del nostro cantante d’origini armene, non lascia molti dubbi su chi fosse la mente del gruppo, anche se va detto che l’avventura di Malakian finora non ha prodotto alcunché di rivelante. Nel 2007 veniamo tartassati dalle uscite dei singoli da “Elect The Dead”, uno più inutile dell’altro. Sebbene siano più che ascoltabili pezzi come The Unthinking Majority o Lie Lie Lie, resta comunque un fatto inappuntabile che il disco non trasmetti niente, se non un triste riciclo di uno dei cantanti più apprezzati del momento.

Ma la cazzata Tankian la fa con “Imperfect Harmonies“, in cui rivisita in chiave orchestrale “Elect The Dead”. Sebbene l’album, e ancora di più la live, siano apprezzabili per l’accostamento dell’orchestra alle doti vocali di Serj, non si può non leggere questo disco come un chiaro esempio di mossa commerciale a causa di una evidente mancanza di idee.

Il 21 dicembre 2012 sarà fine del mondo dicono ma non per Tankian chiaramente, il quale ha già annunciato il suo nuovo lavoro: “Orca“, in uscita il prossimo anno. Cosa? Cosa? Ma neanche il tempo di ascoltare “Harakiri” e già annunci un nuovo disco? La vena creativa ha ripreso a funzionare? Oltretutto “Orca” secondo alcuni rumors dovrebbe essere una sinfonia. In meno di anno Tankian pare aver ritrovato un po’ troppo, obiettivamente.

Ma ascoltiamoci “Harakiri”.

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Il disco è uscito quest’anno sotto la Serjical Strike Records, etichetta ovviamente del prode Tankian, che oltre a se stesso produce band di dubbio gusto. A primo ascolto “Harakiri” non sa di niente. Undici tracce che scorrono bene, senza problemi, ma anche senza attirare l’attenzione.

Cornucopia ci ricorda quanto bravo sia Tankian a cantare. Bene. Grazie. Me l’ero dimenticato. Il ritornello lascia troppe perplessità, in generale il pezzo appare un po’ piatto. C’è in tutto il disco, almeno a mio avviso, un serio problema di produzione. Un altro problema… ma quando cacchio finisce la traccia? Quattro e passa minuti per Cornucopia sembrano alquanto esagerati, senza contare che ad ogni cambio di ritmo c’è una dilatazione temporale un pochetto esasperata.

Figure It Out è un pezzo che se prodotto da persone competenti poteva anche essere un bel pezzo. Così è una serie di riff che si susseguono, come dei loop, un pezzo da garageband.

Ching Chime è qualcosa di tristissimo. Il solito giochetto di parole che piaceva a Tankian dai tempi dei SOAD, stavolta si va dalla imitazione del suono delle monetine ai riferimenti alla Cina, nei System di solito venivano fuori cose allucinanti e divertenti stavolta viene sù un pezzo appena sufficiente, ripetitivo perché troppo lungo. L’ennesima buona prova vocale di Tankian, un po’ più colorata delle precedenti.

Butterfly parte bene, ti carica subito con un bel riffone con i coglioni (finalmente) e i primi cambi ci fanno sognare che speranza c’è. Niente di eccezionale, ma ascoltabile, purtroppo ancora una volta i quattro minuti sembrano troppo per quello che la canzone ha da dire.

Da Harakiri ci si aspetta qualcosa di più, perché è comunque il pezzo che dà il nome al disco, quindi… quindi… ma che succede? Una moltitudine di idee ci vengono sparate tutte assieme, quando il pezzo si calma e ci lascia ancora un po’ confusi sull’inizio a palla, diventa una sorta una melodia strappa-lacrime, senza un passaggio decente dall’una all’altra parte. A mio avviso sintetizza benissimo il disco di Tankian, indecisione, confusione, non si mai cosa vuole trasmetterci esattamente. Ben suonato, ben cantato, ma senza niente da dire.

Occupied Tears arriva alla sufficienza, ma anche stavolta non è comunque un pezzo degno di nota, rientra in una mediocrità dilagante. Ormai la struttura portata avanti da Tankian comincia a ripetersi in modo troppo lampante per non annoiarsi.

Deafening Silence mi fa davvero incazzare. Qualche suono elettronico a mò di: senti come sono moderno, buttati lì senza un motivo, ancora una volta una canzone troppo da garageband. La melodia è apprezzabile, Tankian canta bene (non so più che dire, è così evidente?), un pezzo che comunque ancora una volta non ha niente da dire e al terzo minuto inizia seriamente a rompere le palle.

Forget Me Knot appena comincia mi sembra una canzone di Sinead O’Connor. Giuro. Poi per fortuna canta Tankian. Lo schema ripetitivo non si denuncia in modo troppo chiaro stavolta, comunque secondo me non raggiunge la sufficienza, ok che ha un sound molto più appetibile, come se in cabina mixaggio si fossero svegliati ad un certo punto, ma quattro minuti e mezzo sono troppi, troppi, troppi, per dei pezzi così. E qui mi rendo conto che l’idee erano davvero troppo poche e così ogni pezzo dura il doppio di quanto gli sarebbe normalmente concesso. Ondate di tristezza colpiscono il mio animo e il mio portafoglio.

Reality TV è un pezzo riflessivo sulla TV come già Tankian ne ha fatti. Di certo il peggiore di sempre.

Uneducated Democracy è una botta di vita inaspettata! Ok, un po’ confuso a tratti, ma più che apprezzabile nella sua vivacità, si scorre velocemente tra impressioni musicali veramente ispirate, il miglior singolo di tutta la carriera solista del povero Serj (anche se un minuto glielo avrei levato, così, tanto per).

Il disco si chiude con Weave On, traccia piatta che cerca di coinvolgerci, ma stanca, perlomeno c’è un librettista d’eccezione come Steven Sater.

Temi che vanno dall’ambiente alla TV, Tankian tenta di toccare tutte le corde, e a livello di lyrics c’è, peccato per la musica. Complice una produzione che non riesce ad esaltare alcuni pezzi che potevano dare di più (come Ching Chime, Occupied Tears e Uneducated Democracy) e complice anche una vena creativa alquanto smorta il disco non può superare la sufficienza. L’aria d’innovatività che la critica italiana ha voluto vedere in questo album è del tutto frutto di una allucinazione collettiva. I pochi suoni nuovi che vengono proposti sembrano lì per puro caso, per il resto c’è una involuzione dal disco precedente. Sebbene l’album nel suo complesso sembri superiore, và detto che in “Elect The Dead” Tankian sperimenta molti più ritmi, ha molte più idee, cerca di spiazzare l’ascoltatore (ma non ci riesce), qui invece c’è una linea netta che viene perseguita traccia per traccia, omogeneizzando il disco in unica melassa appiccicosa. Altro che evoluzione.

  • Pro: Tankian canta bene.
  • Contro: una cosa è rendere il disco ascoltabile nella sua interezza, una cosa è fare un disco di copia-incolla da quattro minuti ciascuno.
  • Pezzo Consigliato: Uneducated Democracy è un pezzo con un senso, che si fa amare nella sua ecletticità. Un’eccezione dal 2006 ad oggi nella produzione di Tankian.
  • Voto: 3/10

I Muse copiano i Radiohead

La questione “i Muse copiano i Radiohead” è una delle poche diatribe degli ultimi anni ad aver resistito all’ossidazione.

A nessuno gliene frega più niente dei paragoni allucinanti tra Beatles e Oasis, o della rivalità tra quest’ultimi e i The Verve, gran parte delle inimicizie che hanno segnato confini invalicabili nei gusti di molti sono andate perdute, anche le più storiche ormai al di sopra delle possibilità dei protagonisti stessi, vedi quella tra Peter Gabriel e Phil Collins (di cui un giorno ci occuperemo, probabilmente con sei o otto post) o la Storia Infinita tra Roger Waters e il resto dei Pink Floyd (leggasi anche: David Gilmour).

Quello che accomuna prima di tutto Muse e Radiohead è che sono due gruppi ancora super-attivi e che sono entrambi amatissimi.

Ma i Muse copiano i Radiohead?
Secondo me no, ed è anche semplice capire il perché.

I disco che fu per primo incriminato fu chiaramente “Showbiz” dei Muse, disco d’esordio del 1999, bollato come copia-incolla del ben più famoso “The Bends” dei Radiohead del 1995, uscito la bellezza di quattro anni prima.

Che un gruppo degli anni ’90, giovane, con ottimi gusti musicali, ascoltasse e assimilasse i Radiohead ci può stare. Definire però “Showbiz” solo alla luce di questo sarebbe riduttivo, oppure sarebbe addirittura un errore di sopravvalutazione del prodotto. Riduttivo perché di tutto si può incolpare la band di Bellamy tranne che di spudorata copia! Le influenze che caratterizzano “Showbiz”, come tutte quelle che caratterizzano i dischi d’esordio, sono figlie del loro tempo, i rimandi a tutto il rock alternativo sono tanti, di certo non aiuta la voce di Bellamy stesso (simile a quella di Yorke) ma non credo si sia fatto operare le corde vocali per entrare in una cover band dei Radiohead. La sopravvalutazione scatta nel momento in cui ci rendiamo conto che “The Bends” è un lavoro dove i Radiohead dimostrano di aver già le idee molto chiare, al contrario “Showbiz” è un album ancora pieno di ingenuità.

È davvero difficile trovare dischi d’esordio senza impronte musicali derivate direttamente dai gusti della band, compreso il disco d’esordio dei Radiohead: “Pablo Honey”. In questo album i Radiohead affrontano tanta roba alternativa, gli Smiths, i Talking Heads, addirittura gli U2, e se qualcuno suggerisce pure i Krafwerk non deve certo vergognarsi. Non solo le influenze ci sono ma sopratutto si sentono! La differenza è che i Radiohead sì sono sensibili ai movimenti alternativi e anche al grunge, ma protendono inconsapevolmente verso lo sperimentalismo, anche se mai a livelli memorabili, che può essere sia sviluppo che negazione di questi stessi generi musicali (come poi sarà).

Esempi di dischi d’esordio quasi senza legami col passato più vicino sono eccezioni molto particolari, come può essere se vogliamo proprio fare un esempio “Irrlicht” di Klaus Schulze, ma l’originalità è da ravvedersi solo sotto certi aspetti tecnici.

Ancora più difficile trovare in “Showbiz” dei veri e propri copia-incolla con “The Bends”, i quali oltretutto risulterebbero alquanto anacronistici nel momento in cui già nel ’97 i Radiohead compivano una svolta epocale per la musica commerciale con il successo mondiale di “Ok Computer”, mentre nel ’99 i Muse stavano ancora plasmando la loro musica basandosi sugli ultimi Sonic Youth e non avevano ancora assimilato del tutto le ripercussioni storiche di “The Bends”.

Inoltre col passare degli anni le scelte fatte da questi due gruppi sono semplicemente inconciliabili, sia per quello che concerne la tecnica e il sound, che più profondamente un approccio concettuale alla mondo musicale a 360°, che ha contraddistinto nettamente il lavoro dei Radiohead rispetto ad una maggiore superficialità dei Muse, sempre più relegati nell’etichetta di band-spettacolo.

Prendiamo in esame l’anno di svolta dei Muse, il 2003, quando pubblicano “Absolution” e varcano la soglia definitiva del successo mondiale, in quello stesso anno i Radiohead tireranno fuori dal cappello un disco di cui si è molto parlato come “Hail To The Thief“.

Proviamo a contestualizzare i Muse del 2003: ben due anni dopo l’ultimo lavoro la band sforna un disco ben lontano da qualunque infiltrazione dei vicini album dei Radiohead, anzi trovano finalmente una loro dimensione sonora. Magari l’ossessiva ricerca di wall of sound bestiali per spaventare la gente nelle live e le spinte prog (molto semplificate) non sono obiettivamente il massimo (oddio, concordo con Onda Rock! Vi prego lapidatemi!), ma alla fin fine il disco suona bene e appare come un lavoro ben pensato, organico e tutt’altro che scontato. Il tema è quello dell’apocalisse e più in generale della morte. La presenza di parti orchestrali potrebbe stupire, se non pensiamo però al fatto che i Muse devono tanto alla musica classica e devono ancora di più alla musica per film (con cui riempiranno di citazioni dischi e live successive fino ad oggi). I testi sono una summa del peggior complottismo made in U.S.A., tragici.

Nel 2003 i Radiohead si scontrano per la prima volta con la realtà informatica, a causa di una fuga incontrollata di mp3 provenienti proprio dalla lavorazione di “Hail To The Thief”. Secondo molti il sesto disco della band non è esattamente l’apice del loro lavoro, anzi: è una brutta copia di “Ok Computer”. Chiaramente non è così semplice, il disco esce con qualche problema è vero, ma di certo non si può dire che sia una sorta di riempitivo in un momento di vuoto creativo. La critica portata avanti da Yorke e company in “Hail To The Thief” è fortemente politica, con continui richiami alla situazione americana, un rigurgito della più famosa band inglese contemporanea che di certo non era facile da tradurre in pezzi sperimentali alla “Amnesiac” o alla “Kid A”. Questo disco ha quindi un valore concettuale prima ancora che musicale, concetti che vengono comunque tradotti in una musica decente, molto più consapevole di quella in “Ok Computer” e molto più diretta nell’esplicazione di un malessere materiale e tragicamente contemporaneo.

È dunque chiaro che sia gli intenti che l’approccio al rock nelle due band siano palesemente incompatibili e i loro sviluppi successivi lo confermano sempre di più.

Insomma: una questione assolutamente inesistente, dovuta principalmente alla feroce schiera di fan che contraddistingue i due complessi rock più seguiti (e forse sopravvalutati) al mondo.

Almeno per ora.

Gary Glitter – Glitter

Quello che recensirò oggi è molto probabilmente uno dei maggiori affronti mai fatti al rock and roll. Un album che non ha proprio motivo di esistere, eppure c’è e miete ancora vittime, non ultimo il sottoscritto, eccovi a voi “Glitter”.

Di Gary Glitter perlopiù conosciamo le vicende giuridiche ma dato che non stiamo giudicando l’uomo ma l’artista non ne parleremo, e difatti la questione la chiudo qui.

Gary Glitter è uno dei figli prediletti del glam rock, quel genere che ancora oggi divide tantissimi appassionati di rock&roll. Nell’immaginario collettivo dei mitici settanta l’idea del rocker era piuttosto chiara: libero, mal vestito, puzzolente, amante del jeans e della canapa, ubriacone e donnaiolo. Col glam le cose cambiarono non poco, dato l’arrivo piuttosto consistente di tizi pallidi, secchi, pieni di paillette colorate, sciarpe, calze a rete e pelle ovunque.

Il genere glam oltretutto presentava diverse differenze col rock tradizionale, non c’era rabbia ma piuttosto goliardia, non c’erano assoli lunghi trenta minuti ma piuttosto riff appena accennati, tutto si semplificava e dava spazio alla dimensione spettacolare che i concerti stavano prendendo con l’inizio dei grandi tour negli stadi.

Chiaramente ci passava il mare tra i tristissimi laser verdi dei Led Zeppelin e le performance spumeggianti degli The Spiders From Mars. Se i primi erano trasgressivi per le giacche orientaleggianti di Page e la voce da film porno di Plant, i secondi lo erano per gli atteggiamenti alquanto ambigui nelle live, passando buona metà dell’esibizione a mimare senza troppa pudicizia penetrazioni e masturbazioni con i loro strumenti musicali.

Fatto sta che il glam cambierà non poco tutto il rock, eliminando di fatto i barocchismi che lo distinguevano e svelandone una faccia più trasognata, festaiola, ma non per questa anche più intimista e se vogliamo complessa.

Ok, ma Gary Glitter che c’entra?

Beh, c’entra eccome essendo uno dei pionieri di questo genere. Purtroppo.

A prima vista questo musicista inglese è tutto tranne un vero glam rocker. Una pancia prominente e un volto da leghista sono le prime cose che saltano all’occhio, il ciuffo alla Little Tony e i suoi vestiti spesso (troppo spesso) aderenti fanno il resto. Trash oltre ogni immaginazione, per molti Glitter è invece un personaggio, un tipo simpatico, o peggio ancora un mito.

Si farà conoscere con una serie di fulminanti successi, uno più tamarro dell’altro, tra cui una terribile cover di Here Comes The Sun. Appena il glam diventa realtà lascia il suo vero nome, Paul Francis Gadd, per aggiornarsi al nuovo trend come Gary Glitter, sintomo chiaramente di qualche genere di disturbo psicotico.

La sua carriera è costellata di greatest hits (una ventina, se contiamo anche le collaborazioni) e un po’ meno di dischi veri e propri (sette, ma risicati di brutto). Fonderà anche una band: la The Glitter Band (su questo potete piangere se volete, ma prima sappiate anche che erano conosciuti anche col nome di Glittermen, tanto per non farci mancare niente), gruppo noto più che altro per un cameo in Remeber Me This Way, ovvero un film di neanche un ora sulla vita di Gary Glitter uscito nel ’74, vi dico solo che all’epoca Glitter aveva all’attivo soltanto due dischi!

…Sì, amici miei: è tutto vero.

Per quanto l’esistenza di Glitter sia già di per sé un insulto a chi nel rock ci mette passione, studio e tempo, bisogna riconoscergli una perfetta mercificazione di se stesso; sostenuto da una etichetta effimera e da poche conoscenze Gary Glitter riesce a ritagliarsi un posto nel mondo della musica con una intelligenza e una voracità che lasciano spazio a poche critiche, se non a quella sulla scarsezza di contenuti.

Il disco d’esordio venne prodotto dalla americana Bell Records, di certo non una delle case di produzione più famose e longeve, anche se nella sua schiera abbiamo gente tipo Al Green, Suzi Quatro e Barry Manilow (protagonista fra l’altro di uno di quei casi che diventeranno sempre più frequenti negli ultimi settanta e nei primi ottanta di artista one-shot: una canzone di successo in mezzo ad una discografia alquanto vomitevole).

Il disco si apre e si chiude simulando una sorta di suite (brrrr!), i due pezzi in questione fra l’altro sono ancora oggi il maggior successo dell’uomo glitterato: Rock and Roll part 1, Rock and Roll part 2. È qui già pare chiara dunque la strategia di Glitter, che di certo non punta su una qualsiasi spinta creativa o originale. Glitter sintetizza, minimizza il glam rock appena nascituro, e di certo lo fa con una consapevolezza che stupisce per la sua precocità, di conseguenza il suo altrimenti inspiegabile successo. Il risultato resta comunque demoralizzante (quando non fastidioso).

Rock and Roll part 1 è una marcia glam con testo che si aggira tra il tragico e la parodia, i momenti più poetici recitano: Times have changed in the past but we won’t forget/though the age has passed they’ll be rockin’ yet.

Baby Please Don’t Go è una delle tante cover del glitterato, che conferma così la sua eccezionale capacità creativa. Quello che ne esce fuori da questa cover di uno dei pezzi blues per antonomasia è una tragedia che Euripide meglio non la poteva neanche immaginare. Qualunque genere musicale tra le mani di Glitter si trasforma inevitabilmente in una marcia a carattere glam. Così infatti accade anche a Baby Please Don’t Go, tripudio di note di chitarra appena abbozzate, fiati che compaiono occasionalmente a rimarcare una chiara linea ritmica e la voce di Gary a chiudere il cerchio magico. Il pezzo rende benissimo l’idea di un glam fine a se stesso, che gioca con i suoi suoni nuovi e sbrilluccicanti, una nuova forma di vita esaltata e che esalta (chi, non lo so, però ebbe tanto successo ‘sta cover).

The Wanderer, l’errante, chiama in questione un piano e dei coristi appena licenziati da una band di boogie-woogie. Il sound è quasi piacevole, se non fosse che Glitter mentre pronuncia caledoscopicamente around around around assomiglia chiaramente ad un caprone imbizzarrito.

I Din’t Know I Loved You (Till I Saw You Rock And Roll), è uno dei pezzi pregiati nati dalla creatività di Gary Glitter, e in effetti nessun altro avrebbe mai potuta scriverla. Giù di marcia, come piace a noi glitteromani, anche qui abbiamo qualche Hey Hey (verso preferito da Glitter, come capiremo in The Hey Song) buttato qua e là e un testo che renderebbe incapace di intendere e di volere Umberto Eco se lo leggesse per sbaglio. Vai così Glitter, vai così. Facci male.

Con Ain’t That A Shame torniamo ad un rock and roll più classico, anche se con la solita staticità  metrica. Glitter non si stanca di rendersi ridicolo simulando un cantate che non beve, non fuma e non va a minorenni nei weekend.

Eccoci all’ultima traccia del lato A, si chiude questa prima trance con una cover del povero Chuck Berry, a cui va il nostro pensiero con infinita tristezza. Alla fin fine insieme a Ain’t That A Shame anche School Day riesce a salvarsi dalla glammizzazione forzata di Glitter, e ospita addirittura un assolo.

Quello che notiamo alla fine dell’ascolto del lato A è la tragica semplificazione perpetuata da Glitter ai capisaldi del rock classico. Quasi una versione schematizzata di quel rock che fu, mischiata ad una dose spesso nauseante di glam rock.

Affrontiamo il lato B.

Si comincia con Rock On, dove Glitter mi stupisce dimostrando di riuscire a fare una canzone di ben 3 minuti e 33 secondi, e riesce a mescolare gli elementi del Lato A in un pezzo più organico e certamente più dinamico dei precedenti. I ritmi incalzanti della batteria cominciano però a diventare un po’ pedanti.

La caduta definitiva arriva con uno smacco straordinario. Glitter decide che è il momento di coverizzare anche il mai abbastanza compianto Richie Valens, una delle voci più interessanti degli anni ’50, un grande che si spense appena maggiorenne. Donna sono 4 minuti che saresti ben più felice di passarli martellandoti i gioielli di famiglia.

Con The Famous Instigator Glitter inizia davvero a giocare con il fuoco. Praticamente ci ricicla senza vergogna alcune delle canzoni presenti nel lato A, il ritmo è un po’ meno robotico magari, ci mette qualche strano verso e qualche pausa, ma la mancanza di idee è davvero lampante.

The Clapping Song non ci smentisce cominciando con un Glitter tutto fogato che ci invita a far baldoria con lui: Everybody Clap!, l’invito però ci lascia però freddi e distanti, seduti sulla nostra sedia pensando che quel disco l’abbiamo comprato davvero. Dio mio. Sembrerebbe essere un pezzo per festaioli, o roba del genere, personalmente ho riscontrato delle difficoltà mica da poco a lasciarlo scorrere sul piatto aspettando che finisse, mi ero quasi convinto di concludere la recensione qua, ma mi sono fatto coraggio.

Shaky Sue ha come grande pregio quello di essere la penultima traccia di questo martirio. Glitter ci dimostra come con una serie di ritornelli piuttosto già sentiti e mal cantati ci puoi fare tranquillamente un disco, e ci acchiappi pure un sacco di soldi. Comunque ci sta pure il tempo per un assolo di chitarra, anche se il buon Glitter a suo dire li ripudia.

Rock and Roll part 2 è conosciuta anche come The Hey Song, poiché il testo si esaurisce nel belare su ritmo di marcia un bel “Hey” ogni tanto, direi che chiude degnamente il disco.

Cosa ci rimane di questa esperienza? Che esiste giustizia a questo mondo perché Glitter se ne ritorna in galera (per la seconda volta) e se siamo fortunati stavolta non ci esce più.

  • Pro: stiamo scherzando, vero?
  • Contro: Gary Glitter.
  • Pezzo Consigliato: Baby Please Don’t Go dice tutto. Anche troppo.
  • Voto: 1/10

Delirium – Dolce Acqua

Nello scorso post avevamo chiacchierato dei Soundgarden, stavolta cambiamo decisamente direzione.

I Delirium furono tutto, ma proprio tutto, tranne che un gruppo di successo. Tutte le beghe della prima band di Ivano Fossati furono strettamente legati all’inusuale metodo di promozione dei loro lavori. Prima pubblicano un disco che non caga nessuno, anni dopo pubblicano singoli di successo, l’anno dopo ancora tirano fuori l’ennesimo disco senza seguito, e poi pubblicano singoli che ricalcano pari pari quelli vecchi e quindi non se li fila più nessuno. Beh, il loro destino si concluse nell’arco di ben tre album.

Chiaramente rivalutati e recentemente riorganizzati, i Delirium sono un pezzo di prog italiano ormai stra-conosciuto, ma come tutto il prog non vengono quasi mai contestualizzati in modo decente.

Prima di tutto sono figli dei ’60 e si sono presi il ’68 in faccia senza concedersi troppi spazi di riflessione. Un cultura musicale (e non soltanto) in pieno cambiamento, che sperimenta veramente di tutto comprendendo nel migliore dei casi il 30% di quello che facevano. Piano piano di artisti auto-consapevoli ne escono fuori e la loro lunga gavetta servirà per fondare gruppi che entreranno nella leggenda (Le Orme, Il Balletto Di Bronzo, la P.F.M. e moltissimi altri), i Delirium di gavetta non ne fanno tantissima dato che già ad un anno dalla loro nascita (conosciuti allora come I Sagittari) diventano famosi in tutta Italia vincendo concorsi qua e là.

Il 1971 seguiva ad un anno per la musica meno incasinato di quanto si pensi. Sebbene la rivoluzione in ambito concettuale portata prima da Beefheart con “Trout Mask Replica (1969) e in ambito artistico più ampio con “Desert Shore (1970) di Nico, il rock non seguirà di certo quella direzione, e il 1971 sfornerà capolavori come “3” dei Soft Machine e sarà figlio della tragicità di “The End Of The Game“, il disco che sancì l’uscita dai Fleetwood Mac di Peter Green. Il contesto musicale internazionale stava prendendo delle direzioni ben precise, in Italia invece si stava instaurando il regime del prog.

Nel 1971 esce “Dolce Acqua” sotto l’etichetta storica della Fonit Cetra (New Trolls, Osanna e Renzo Arbore tanto per citarne alcuni), però in questo disco d’esordio dei Delirium le premesse non sono delle migliori. La band propone sulla carta un miscuglio si può dire delirante di jazz, prog, rock e blues, un po’ di Jethro Tull, un po’ di King Crimson. E invece…

“Dolce Acqua” sorprende prima di tutto per la straordinaria eterogeneità dei pezzi. Come avrete capito se avete letto il mio post precedente, sono piuttosto fissato sul sound di un disco, sul rapporto tra una traccia e l’altra di un album e la sua riuscita in un ascolto  completo. “Dolce Acqua” in questo senso è una delle cose migliori mai uscite in Italia.

L’idea, piuttosto ingenua in realtà, è quella tanto in voga del concept album. Se facevi prog dovevi fare almeno un concept album se no non eri nessuno. Ne sono uscite di schifezze mica male, ma per fortuna controbilanciate da capolavori inestimabili. “Dolce Acqua” ha una narrazione veramente debole che si rifà ad un retaggio spiritualista-naturalista che tirava parecchio tra i giovani sessantottini. Le tracce sono titolate in modo evocativo pseudo-intellettuale, il tutto contornato da una cover a metà tra un graffito e un dipinto che dovrebbe riassumere i contenuti del presunto concept album. Vi lascio trarre le vostre conclusioni da soli.

Si comincia più che bene:

Preludio (Paura), e notare subito l’uso di un linguaggio tipico della musica classica in un ambito che però fa un po’ a botte (altre band sapranno invece far tesoro dei loro studi, e doneranno un po’ di filologicità a queste scelte), è un inizio davvero di un certo spessore. Un pezzo tra il beat e il rock acustico, le sonorità del flauto sono tra le più evocative e belle di sempre, di meglio si trova qualcosa soltanto nel terzo e ultimo disco proprio dei Delirium, “III (Viaggi Negli Arcipelaghi Del Tempo)“. Inoltre è una delle poche vette evocative di tutto il disco.

Movimento I (Egoismo) e il Movimento II (Dubbio) sono due pezzi strumentali che già complicano inutilmente delle belle idee. Un viaggio psichedelico tra la tecnica pura, tra l’altro non così eccelsa, e misti fritti di generi diversi. La cosa più incredibile è che non ledono in alcun modo all’orecchio, personalmente mi piacciono parecchio anche se con i loro limiti. To Satchmo, Bird and Other Unforgettable Friends (Dolore) riconferma le impressioni precedenti, anche se il dialogo tra gli strumenti in questo caso mi pare più efficace.

Sequenza I e II (Ipocrisia – Verità) continua il trend, portandolo però alla noia. Chiara la decisione di fare della musica a tratti quasi descrittiva, la scelta di un concept vuole essere rispettata in qualche modo, però se mancano le idee è inutile buttar lì riempitivi.

Johnnie Sayre (II perdono) prende il testo da una delle più celebri poesie della antologia di Spoon River, peccato per la musica, alquanto piatta e anonima. Il sound è comunque più che piacevole, di certo non vi metterete a pestare i piedi per terra ascoltandolo, però la piacevolezza lascia presto spazio alla ripetitività.

Favola o storia del lago di Kriss (Libertà) è il mio pezzo preferito di tutto l’album. In realtà non ha nulla di speciale, ma credo sia prima di tutto uno specchio fedele degli intenti della band e del loro contesto storico e sociale. Il testo conferma senza ulteriori dubbi la matrice ambientalista: sotto forma di favola si presenta l’angoscia di questo lago che vorrebbe conoscere cosa c’è nel resto del mondo, finché non compare questa sorta di spirito, presentato come un vento animato, che gli spiega quanto esso sia invece fortunato ad essere così lontano dal degrado umano e dalle sue immonde costruzioni. Lasciando da parte il testo sentite come la melodia, il ritmo, la voce, si mescolano tutte assieme e trovano un loro perfetto equilibrio. In un momento morto del disco (siamo nel lato b), quando la testa divaga tra tutti quegli spunti lasciati a metà nelle “fughe” strumentali, ecco un raccordo perfetto tra di essi e la futura presa di coscienza della band.

Il gran finale spetta a Dolce Acqua (Speranza), un gran bel pezzo prog, tra i più belli in assoluto, commistione ideale di tutti i sound presenti nell’album.

Che dire di più? Un disco da avere assolutamente per comprendere un periodo storico davvero esaltante per la musica italiana.

  • Pro: eterogeneità tra le tracce dell’album, alcuni brani sono tra i più rappresentativi del prog italiano.
  • Contro: ogni tanto momenti di noia.
  • Pezzo Consigliato: Favola o storia del lago di Kriss (Libertà), sintetizza temi, suoni, idee di un anno straordinario.
  • Voto: 7/10

Soundgarden – Superunknown

[Questa è la mia prima recensione, ci sono un sacco di errori e banalità, prima o poi ne farò una nuova versione totalmente diversa (anche nel giudizio), ma mi piace che resti qua, con tutti i suoi difetti e le cazzate.]

Chiariamo: questo blog parla di musica ovviamente, ma non più seriamente di come voi parlereste, in una bella serata tra a amici, dell’ultimo film di Sylvester Stallone. Chiaro? Bene.

Come saprete è uscito l’ultimo disco dei Soundgarden “King Animal“, non ho ancora avuto il tempo per ascoltarlo se non per l’unico singolo uscito (Been Away Too Long), ma per l’occasione ho deciso di battezzare questo blog chiacchierando con voi del loro maggior successo: “Superunknown“.

Un paio di premesse: fanno heavy metal, abbastanza tosto. Negli anni ’90 c’è stato un po’ di casino nel rock, sia nella sua accezione diciamo “classic” che nella sua accezione “heavy”. La progressiva disgregazione in generi e sotto-generi ha trovato il suo culmine proprio nei ’90, ma in realtà la questione è piuttosto semplice perché a parte i residui di alcune correnti storiche (come il progressive) possiamo ridurre il panorama in: metal (e i suoi derivati), rock alternativo e grunge.

Il grunge è un genere che riconduciamo perlopiù tra la fine degli ottanta e i primi novanta,  purtroppo si fa davvero una confusione snervante su cosa sia e quali siano i gruppi che lo rappresentavano. Diciamo che la prossima volta ci farò un post, ma vorrei solo puntualizzare che di grunge i Soundgarden hanno forse l’origine e i temi trattati in comune, però il sound ha preso molto velocemente chiare tinte heavy metal. Basta.

A me i primi dischi dei Soundgarden non mi fanno impazzire. Sebbene la tecnica, le ottime influenze, il sound piuttosto fresco e via dicendo, la sensazione che provo ascoltando per in intero dischi come “Ultramega Ok“, “Louder than love” e “Badmotorfinger è quella di una costante sensazione di confusione. Ci sono singoli di grande potenza e completezza, ma in un contesto disordinato e piuttosto rumoroso (il che non è un problema di solito, anzi, ma non è un rumore esplicitamente espressivo come nel garage, suona quasi casuale)

“Superunknown” esce nel 1994 con l’etichetta A&M Records, casa discografica che aveva tra i suoi pezzi forti gente come Joe Cocker e il nostro Gino Vannelli, mentre tra quelli un meno forti (o se volete tragicomici) i Nazareth e gli Extreme. Superunknown è un piccola perla di saggezza in un anno complicato per il rock tra l’egemonia grunge, dei Nirvana e dei Pearl Jam, e una rivoluzione in corso d’opera nell’ambiente alternative con “Mellow Gold” di Beck. La prima cosa che sconvolge l’ascoltatore è l’armonia, il lavoro di produzione e mixaggio sono clamorosi, tra i i più belli in ambito metal (come non citare per fare un esempio “Vol. 3 (The Subliminal Verses)” degli Slipknot, opera del grandissimo Rick Rubin), difatti invece della solita confusione ci si trova di fronte un disco di cui non cambieresti una virgola.

C’è chi vi dirà “è il disco più commerciale dei Soundgarden!”, se per commerciale intende “comprensibile” forse ha ragione.

Non c’è una traccia che spunta particolarmente tra le altre, il disco scorre giù senza intoppi. Magari pezzi come Half sono un po’ troppo protesi verso una psichedelia che strizza l’occhio agli Zep di Kashmir (fra l’altro il tema psichedelico è sempre stato presente nei lavori precedenti), spezzando un po’ le logiche fin lì protratte, ma il pezzo in sé è più che apprezzabile.

The Day I Tried To Live è il pezzo più prevedibile, quelli con un sound più spiccatamente moderno sono certamente Fell On Black Days e Superunknown, che contengono ancora qualche divertente accenno di punk (altra declinazione sempre presente nei lavori della band).

Il pezzo più famoso è certamente Black Hole Sun, fra l’altro uno dei video più angoscianti di anni strapieni di video veramente angoscianti.

Le linee di basso sono un piacere inestimabile, credo che nella produzione di Ben Shepherd (non fortunatissimo al di fuori del gruppo) siano la cosa migliore che gli sia mai passata per la testa. La batteria spesso mi ipnotizza, come in Spoonman, dove ritmi metal e tribali sembrano fondersi nell’ennesimo rimando ai Led Zeppelin, fra l’altro chiodo fisso di Cornell anche negli Audioslave dove troverà a dargli man forte su questo aspetto anche Morello.

Di questo disco credo di non aver mai apprezzato a pieno il lavoro del chitarrista, Kim Thayil. Sì, lo so, è molto sottovalutato, è un bestia, è fortissimo, sei un demente se non ti piace e via dicendo, però a me gli assoli di Thayil mi fanno venire prurito alle mani, che ci posso fare? Sulla tecnica non mi metterò mai a parlare in questo blog, quindi se volete fate vobis.

Trovo che nell’armonia di pezzi come Spoonman l’assolo di Thayil ci stia come il ketchup sulla pizza, pazienza.

Sugli altri membri della band niente da ridire, sebbene le ultime virate pop del bravo Chris Cornell mi abbiano fatto prendere un ulcera fulminante mi accontento degli ottimi lavori fin lì fatti.

Ah, l’ultimo disco, come vi ho detto non l’ho ascoltato, ma dal singolo estratto che vi citavo a inizio post mi sembra che siamo tornati a quella buona confusione di un tempo, adesso pure anacronistica. Però non si sa mai, prima l’ascolterò sempre fiducioso (sono ottimista di natura) poi ne parleremo un’altra volta magari.

Mi scuso in anticipo per la confusione, se manca qualcosa o dico solo cazzate, siete liberi di insultarmi nei commenti.

E non dimenticatevi di provare a suonare un sassofono!

  • Pro: lo ascolti tutto senza mai saltare una traccia e non è una cosa che succede spesso nel mondo del rock più blasonato.
  • Contro: no, non sono i lavori dei muratori nel piano di sotto, sono proprio gli assoli di Thayil.
  • Pezzo consigliato: tutto il disco tutto d’un fiato.
  • Voto: 7/10

[ringrazio Ares, che nel leggere questo post si è accorto che avevo scambiato impunemente il nome di Kim Thayil con quello di Kim Warnick, vorrei poter dire che è stato un lapsus dovuto al fatto che credo che Thayil suoni come una ragazzina, ma in realtà è stato un indecente errore di copia-incolla]

Speaking in tongues / It's worth a broken lip