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The Mooney Suzuki – Electric Sweat

Electric Sweat

Comprare dischi è un brutto affare.
In passato ho utilizzato ogni tecnica, da: “guarda quanto è fica questa copertina!” a robe più miserabili tipo: “beh, se è con David Gilmour dev’essere bello!” a cose davvero deprecabili come: “davvero è a soli tre euro???” 

Le infinocchiate sono state tante, troppe. Con i vinili però imparai l’arte dell’ascoltare. E così iniziai a passare interi pomeriggi nei negozi di dischi, ascoltando praticamente qualsiasi cosa mi passasse per le mani. Iniziai a anche con i cd, e poi scoprii le “anteprime“ di iTunes e via dicendo.

Eppure ancora oggi mi capita, di volta in volta, di comprare un disco perché… sì, perché mi sembra fico.

Dei The Mooney Suzuki sapevo poco. Ok: non sapevo un cazzo. In generale ricordo che facevano parte della corrente garage dei primi 2000, e che (molto probabilmente) prendevano il nome da due celebri componenti dei Can. Basta.

Comunque un giorno spulciando tra dischi dei The Lyers e dei The Cynics ecco che spunta “Electric Sweat” dei Mooney, targato 2003. Che merda. Cioè, una schifo di copertina rubata ai Grand Funk con loro tutti impegnati a suonare come se fosse l’ultima volta nella loro vita. La solita band garage, ma dietro a tutta quella verve c’era anche della musica decente?

Leggo la tracklist:

Electric Sweat (scontato)
In a Young Man’s Mind (ci sta)
Oh Sweet Susanna (ok ok)
vado un attimo più giù e leggo I Woke Up This Mornin’ (una cover dei Ten Years After? Ma si chiamava così la canzone?)

Insomma la lettura ultra-mega-superficiale (e il prezzo ultra-mega-scontato) mi convincono abbastanza e alla fine lo compro.

L’idea era quella di ritrovarmi di fronte ad una versione esageratamente garage dei Can, e la cosa poteva anche starci.

Ok, andiamo alla sostanza: il disco dei The Mooney Suzuki è una delle cose che mi hanno più fatto divertire e incazzare al tempo stesso.

Divertente perché si fa ascoltare alla grande. Una birra fresca in mano, il disco sul piatto, e succede quello che desideravo. “Electric Sweat” suona come un disco garage come io suono il sax come Anthony Braxton. La verità è che i Mooney dentro questo calderone di idee e cazzeggi ci infilano tutto quello che sanno, dai MC5 (domati) ai Led Zeppelin, si percepiscono Grand Funk e molto garage contemporaneo, l’elettricità è certamente in primo piano, peccato che ancora una volta faccia rima con chitarra elettrica, e questo mi fa incazzare.

Io non sono un detrattore della chitarra elettrica, non posso essenzialmente, è stato il mio primo amore da bambino. Però crescendo a suon di Hendrix, Page, Blackmore e Frampton dopo poco tempo ho iniziato a rompermi il cazzo. È mai possibile che se vuoi fare rock la chitarra elettrica dev’essere la protagonista a tutti i costi? No! Cazzo no!

Però è chiaro che ai Mooney Suzuki piace da matti. E, cazzo, la fanno piacere anche a me. Ascolto “Electric Sweat” con la stessa eccitazione di un voyeurista che ha appena scoperto un buco nel suo bagno che gli permette di vedere in quello adiacente, ogni pezzo mi sembra unico e potentissimo.

Erano secoli che non sentivo un disco rock dove la chitarra non sembrasse la schifosa copia di un qualunque solista dei seventies. Cioè, la copia tecnicamente c’è, ma l’energia è tutta di Graham Tyler, non l’ha rubata in giro, non fa mossettine alla Keith Richards, al massimo si dimena come il più cotto dei Ty Segall.

Le tracce scorrono senza pietà, e anche cose che sulla carta mi avrebbero spaccato i coglioni a sentirle sembrano miracoli. Non puoi stare seduto sulla sedia con la birra in mano, devi per forza renderti ridicolo ai tuoi vicini saltellando come un cretino mentre ascolti It’s Showtime, Pt. 2 (esiste una parte 1?) e anche se I Woke Up This Mornin’ non è la cover di quel grandissimo pezzo dei Ten del 1969 c’è una così chiara strafottenza nel modo di suonare dei Mooney che non puoi non farti coinvolgere.

I pezzi strumentali come It’s Showtime, Pt. 2 e Electrocuted Blues [non ho trovato un link] me la fanno alzare in modo esagerato.

Lo so che è una recensione del cazzo (calcolando che l’ho comprato tempo fa, e l’ho pure citato nel post sugli Stripes!), ma per il prossimo disco dei Suzuki che compro mi informo e la faccio meglio, intanto ascoltate questa roba perdenti!

  • Pro: rock energico, spruzzata decisa di garage, pezzi ispirati, chitarra elettrica che fa un casino della Madonna. Compratelo!
  • Contro: ho rovesciato la birra.
  • Pezzo consigliato: non c’è, smettetela di leggere queste cazzate e compratevi “Electric Sweat”!
  • Voto: boh, cazzo ne so… sarà un 6 in teoria, ma per la foga direi 7/10

I Muse copiano i Radiohead

La questione “i Muse copiano i Radiohead” è una delle poche diatribe degli ultimi anni ad aver resistito all’ossidazione.

A nessuno gliene frega più niente dei paragoni allucinanti tra Beatles e Oasis, o della rivalità tra quest’ultimi e i The Verve, gran parte delle inimicizie che hanno segnato confini invalicabili nei gusti di molti sono andate perdute, anche le più storiche ormai al di sopra delle possibilità dei protagonisti stessi, vedi quella tra Peter Gabriel e Phil Collins (di cui un giorno ci occuperemo, probabilmente con sei o otto post) o la Storia Infinita tra Roger Waters e il resto dei Pink Floyd (leggasi anche: David Gilmour).

Quello che accomuna prima di tutto Muse e Radiohead è che sono due gruppi ancora super-attivi e che sono entrambi amatissimi.

Ma i Muse copiano i Radiohead?
Secondo me no, ed è anche semplice capire il perché.

I disco che fu per primo incriminato fu chiaramente “Showbiz” dei Muse, disco d’esordio del 1999, bollato come copia-incolla del ben più famoso “The Bends” dei Radiohead del 1995, uscito la bellezza di quattro anni prima.

Che un gruppo degli anni ’90, giovane, con ottimi gusti musicali, ascoltasse e assimilasse i Radiohead ci può stare. Definire però “Showbiz” solo alla luce di questo sarebbe riduttivo, oppure sarebbe addirittura un errore di sopravvalutazione del prodotto. Riduttivo perché di tutto si può incolpare la band di Bellamy tranne che di spudorata copia! Le influenze che caratterizzano “Showbiz”, come tutte quelle che caratterizzano i dischi d’esordio, sono figlie del loro tempo, i rimandi a tutto il rock alternativo sono tanti, di certo non aiuta la voce di Bellamy stesso (simile a quella di Yorke) ma non credo si sia fatto operare le corde vocali per entrare in una cover band dei Radiohead. La sopravvalutazione scatta nel momento in cui ci rendiamo conto che “The Bends” è un lavoro dove i Radiohead dimostrano di aver già le idee molto chiare, al contrario “Showbiz” è un album ancora pieno di ingenuità.

È davvero difficile trovare dischi d’esordio senza impronte musicali derivate direttamente dai gusti della band, compreso il disco d’esordio dei Radiohead: “Pablo Honey”. In questo album i Radiohead affrontano tanta roba alternativa, gli Smiths, i Talking Heads, addirittura gli U2, e se qualcuno suggerisce pure i Krafwerk non deve certo vergognarsi. Non solo le influenze ci sono ma sopratutto si sentono! La differenza è che i Radiohead sì sono sensibili ai movimenti alternativi e anche al grunge, ma protendono inconsapevolmente verso lo sperimentalismo, anche se mai a livelli memorabili, che può essere sia sviluppo che negazione di questi stessi generi musicali (come poi sarà).

Esempi di dischi d’esordio quasi senza legami col passato più vicino sono eccezioni molto particolari, come può essere se vogliamo proprio fare un esempio “Irrlicht” di Klaus Schulze, ma l’originalità è da ravvedersi solo sotto certi aspetti tecnici.

Ancora più difficile trovare in “Showbiz” dei veri e propri copia-incolla con “The Bends”, i quali oltretutto risulterebbero alquanto anacronistici nel momento in cui già nel ’97 i Radiohead compivano una svolta epocale per la musica commerciale con il successo mondiale di “Ok Computer”, mentre nel ’99 i Muse stavano ancora plasmando la loro musica basandosi sugli ultimi Sonic Youth e non avevano ancora assimilato del tutto le ripercussioni storiche di “The Bends”.

Inoltre col passare degli anni le scelte fatte da questi due gruppi sono semplicemente inconciliabili, sia per quello che concerne la tecnica e il sound, che più profondamente un approccio concettuale alla mondo musicale a 360°, che ha contraddistinto nettamente il lavoro dei Radiohead rispetto ad una maggiore superficialità dei Muse, sempre più relegati nell’etichetta di band-spettacolo.

Prendiamo in esame l’anno di svolta dei Muse, il 2003, quando pubblicano “Absolution” e varcano la soglia definitiva del successo mondiale, in quello stesso anno i Radiohead tireranno fuori dal cappello un disco di cui si è molto parlato come “Hail To The Thief“.

Proviamo a contestualizzare i Muse del 2003: ben due anni dopo l’ultimo lavoro la band sforna un disco ben lontano da qualunque infiltrazione dei vicini album dei Radiohead, anzi trovano finalmente una loro dimensione sonora. Magari l’ossessiva ricerca di wall of sound bestiali per spaventare la gente nelle live e le spinte prog (molto semplificate) non sono obiettivamente il massimo (oddio, concordo con Onda Rock! Vi prego lapidatemi!), ma alla fin fine il disco suona bene e appare come un lavoro ben pensato, organico e tutt’altro che scontato. Il tema è quello dell’apocalisse e più in generale della morte. La presenza di parti orchestrali potrebbe stupire, se non pensiamo però al fatto che i Muse devono tanto alla musica classica e devono ancora di più alla musica per film (con cui riempiranno di citazioni dischi e live successive fino ad oggi). I testi sono una summa del peggior complottismo made in U.S.A., tragici.

Nel 2003 i Radiohead si scontrano per la prima volta con la realtà informatica, a causa di una fuga incontrollata di mp3 provenienti proprio dalla lavorazione di “Hail To The Thief”. Secondo molti il sesto disco della band non è esattamente l’apice del loro lavoro, anzi: è una brutta copia di “Ok Computer”. Chiaramente non è così semplice, il disco esce con qualche problema è vero, ma di certo non si può dire che sia una sorta di riempitivo in un momento di vuoto creativo. La critica portata avanti da Yorke e company in “Hail To The Thief” è fortemente politica, con continui richiami alla situazione americana, un rigurgito della più famosa band inglese contemporanea che di certo non era facile da tradurre in pezzi sperimentali alla “Amnesiac” o alla “Kid A”. Questo disco ha quindi un valore concettuale prima ancora che musicale, concetti che vengono comunque tradotti in una musica decente, molto più consapevole di quella in “Ok Computer” e molto più diretta nell’esplicazione di un malessere materiale e tragicamente contemporaneo.

È dunque chiaro che sia gli intenti che l’approccio al rock nelle due band siano palesemente incompatibili e i loro sviluppi successivi lo confermano sempre di più.

Insomma: una questione assolutamente inesistente, dovuta principalmente alla feroce schiera di fan che contraddistingue i due complessi rock più seguiti (e forse sopravvalutati) al mondo.

Almeno per ora.