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Sbucciando una banana francese: il meglio e il peggio della Howlin’ Banana Records

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In questi giorni non ho scritto niente non perché non abbia ascoltato niente di nuovo, ma perché c’ho i cazzi miei. E sono tanti. Potete cliccare QUI per un racconto esaustivo.

Di che si parla oggi? E che c’entrano le banane? Ladies and gentlemen, oggi recensirò per vostra somma gioia qualche band dal catalogo della Howlin’ Banana Records! Come dite? “Echecazzoè”? La Howlin’ Banana Records è un’etichetta francese di garage rock-pop fondata a Parigi nel 2011 da Tom Piction, il solito giovanotto di belle speranze, un appassionato di indie rock e garage il quale, molto probabilmente, ha pensato bene che il modo più rapido per raccattare figa bollente fosse quello di fondare un’etichetta garage, genere celebre per le sue band grasse, unte e brufolose. Sarà riuscito il buon Piction a bagnare la sua baguette in del caldo burro francese? Ma sopratutto: sarà riuscito a selezionare band garage CAZZUTE, pronte a farci saltare i timpani?

Premetto subito che dopo un’ascolto completo di tutto il catalogo (sorseggiando del buon vino francese, che c’ho la pressione alta e la birra deve stà in frigo) la prima cosa che salta fuori è che, nel contesto scena europea, il garage francese è il più posato e aristocratico di tutti. Non che sia un male, cari miei seguaci, so che per molti di voi non è garage se non ci lasci le unghie sulle corde del basso, ma c’è anche il garage-folk, il garage-pop dalla California, il garage-psych di stampo barrettiano o alla Brian Jonestown Massacre, non facciamo trincee, lasciate scorrere l’amore tra i confini e i generi, lasciate che i feedback si perdano nell’abisso siderale dello spazio cosmico, seducendo e inseminando frammenti acustici, perdendosi nelle costellazioni liquide dello shoegaze, lasciandosi… oh merda, qualcuno mi tolga questa bottiglia dalle mani!

[Non ho recensito tutto il catalogo ma bensì la sbobba che ho ascoltato di più in queste tumultuose settimane, ogni album è descritto come sempre con la massima incuria e approssimazione, come piace a voi. Ma sopratutto come piace a me.]

Anna – Anna (2014)

Chi è Anna? Un tipo con problemi di collocamento sessuale? Una band? Una suora con un passato da ballerina nei night club? (cit.) Non lo so, però questo album omonimo alla fin fine non è malaccio.

I’m Note Yelling apre le danze in maniera asettica, assente e poco interessante, come se si preannunciasse il solito pappone psych senza direzione, ma è solo un minuto di incertezza, perché il garage-folk di I Love Noise mette in primo piano un piacevole songwriting barrettiano, che ci accompagnerà per quasi tutto “Anna”.

Haircut ha dei rimandi californiani decisamente influenzati dal Segall acustico del 2013, Old Man, con la voce bambinesca modificata digitalmente, è voglia di sixties pura riuscendo a recuperarne la freschezza floreale, con un dialogo di chitarre acustiche frenetico quasi-alla Violent Femmes.

Il gusto naïf francese si può percepire in pezzi come Eaten Apple, che anche nella lingua di Céline sarebbe suonato perfettamente. Ecco, forse un po’ troppo, nel senso che la perfezione formale di questo album è un pregio come un difetto, laddove riff e sezione ritmica non sbagliano un colpo ogni tanto nelle budella dell’ascoltatore raffinato si ode un gorgoglio, che non è badate bene la pizza coi fagioli all’uccelletto di due giorni prima, ingurgitata affannosamente con l’ausilio di tanta birra per facilitarne la discesa, ma la necessità di una sferzata, di un nuovo punto di vista, di una evoluzione nella struttura dei pezzi.

Una canzone come Dino nelle mani di un complesso garage del tutto schizzato come i Pink Streets Boys avrebbe raggiunto vette cosmiche di distorsione spaziale orgasmiche, qui invece è puro songwriting, e pure lineare. Ovviamente non si può imputare come errore o sbaglio una scelta di stile (pensavate di avermi colto in fallo, eh?) ma a detta del sottoscritto dopo un po’ la quadratura del cerchio comincia a diventare un po’ troppo spigolosa.

Un album semplice, che si districa in un garage fortemente derivativo da quello californiano, ma che non è per questo revival puro, ma più un ibrido, sostenuto da una ricerca melodica che ne è il motore portante, e che per il sottoscritto non è sinonimo necessariamente di qualità.

Il 23 di questo mese esce il nuovo lavoro di Anna, dall’ascolto di due pezzi in anteprima disponibili su Bandcamp sembra che il cantante/gruppo francese abbia decisamente cambiando sound, trovando un maggiore dinamismo. Vi terrò aggiornati.

The Madcaps – The Madcaps (2015)

Qualcosa mi fa pensare che Syd Barrett, come ripetevo come un cretino in loop cinque anni fa agli amici, e come da tre-quattro anni ripeto su questo blog nei margini del web, sia un’influenza imprescindibile del nuovo garage rock, artista ancora oggi troppo sottovalutato, che con tre album, il primo dei Pink Floyd e i suoi due solisti successivi, ha scolpito sulla pietra il sacro verbo psych come nessuno prima e dopo di lui. Più immediato degli sperimentatori Silver Apples, Red Crayola, Fifty Foot Hose, con un talento innato nel creare melodie complesse ma appetibili (altro che Lennon&McCartney! ecco: l’ho detto, adesso posso chiudere il blog), e dal quale ancora oggi è possibile trarre nuove idee.

Eccoci dunque all’esordio dei Madcaps dopo l’Ep anch’esso omonimo (eeeeeh la creatività!), molto garage più che psych, con il grande difetto dell’essere un revival praticamente puro, senza troppe idee, ma con un songwriting che ancora una volta dopo Anna continua a colpire là dove il nostro cuore batteva prima che scoprissimo le gioie di un rock più impegnato (ma non per questo cervellotico).

Un album nostalgico, la bella Emily Vandelay si presenta con la sua ritmica sixties, la chitarra alla The Nazz, e con forse la stessa capacità della band di Philadelphia di azzeccare prima di tutto il sound e lasciando in secondo piano la musica.

I nomi dei pezzi sanno di ricordi (Haunted House, Melody Maker, 8000 Miles From Home) ma una volta che metti play, con gli occhi umidi e le dita unte, quello che esce fuori dalle casse non sono gli stessi ricordi, sono tutt’altra cosa, e sono anche parecchio noiosi.

Baston – Gesture (2015)

Questo Ep del trio francese sembra un classico album da Burger Records, garage edulcorato dal pop, con forti tensioni psych che stanno lì solo per bellezza.

Anche perché, dopo il tiro magnifico di Maybe I’m Dead, questo Ep non sa di un cazzo. Melodie banali, suoni banali, testi banali (ma di solito non ci faccio caso), cover, quella di Little Honda dei Beach Boys, che è persino più brutta dell’originale, e non era così facile come sembra!

Mi pare strano che la Burger Records, ormai contenitore di quasi tutto il buono della scena garage assieme a tutta la merda che però fa numero (e da la possibilità a questa etichetta di galleggiare), non si sia accaparrata i diritti per il prossimo album di questa band, il classico esempio di come in una scena musicale il 90% della produzione sia musica derivativa e buona solo per riempire lo spazio tra una band e l’altra ad un festival.

Volage – Heart Healing (2014)

Ok, non mi fanno impazzire, però una cosa gli va detta: sanno come si fa un album rock! Un sound decisamente riconoscibile e un certo affiatamento sono le skill di questo “Heart Healing”.

Tra il giocoso, il garage, il weird pop e un songwriting piacevole, senza però scadere nella linearità e nella ripetizione.

Piccola parentesi sul fatto che oggi ho usato la parola songwriting tipo cento volte in tre righe di post: è tutta colpa di Giovanni, un mio collega dell’Università, il mio linguaggio è stato malamente influenzato dalla sua presenza da indie rocker che ascolta gli Arctic Monkeys. Per lui il rock È il songwriting, e non sono in pochi a pensarla così, e se siete di questa parrocchia (a mio avviso perversa e immorale) forse potreste trovare delle cose interessanti in questi Volage.

Il ritmo camaleontico si dipana ad ogni pezzo cercando di confonderci, e mostrando i  muscoli della band. Il piglio punk di Touched By Grace, si trasforma in ballad psych e poi in garage rock in poco più di due minuti, ma senza dimenticarsi la voce e la melodia.

Abbiamo anche una perla mica da poco con i sette minuti e mezzo di Loner, dove l’insegnamento degli ormai sacri/intoccabili Thee Oh Sees arriva anche nella burrosa Francia. Ma invece del profumo di croissant caldi Loner puzza di Fuzz. La chitarra del complesso californiano di Charles Moothart esplode per poi essere addomesticata e spezzata, col cazzo che cascano nel tranello di fare un calderone di cazzate incomprensibili come i Jefferitti’s Nile, i Volage riescono a ricalcare i tòpos della psichedelia senza fare revival ma buttandoci dentro palle e idee. Sicuramente non c’è da urlare al miracolo, non sono riusciti a piegare il genere a loro immagine e somiglianza (come hanno fatto con il garage psichedelico i Pink Street Boys e col new-post-punk i Nun), ma riescono ad esprimersi con l’esperienza di una band scafata da migliaia di festival.

E vogliamo farci scappare il momento Barrett? Ma stavolta dura poco, giusto i primi accordi di 6H15, per poi cambiare, mutare, evolversi senza soluzione di forma. Un po’ come gli australiani Total Control, ma se i TC sono una specie di killer-mix di Ausmuteants e Ultravox, invece i francesini mescolano tutte le influenze della scena garage senza fermarsi un attimo, senza neanche l’ombra di un po’ di auto-referenzialità.

(M’è venuto un coccolone con l’attacco indie-brit pop di Love Is All, echecazzo, eravate andati così bene e poi all’ultimo mi fate ‘sti scherzetti del menga? Dai cazzo: sembrate i Jet di “Shine On”!)

(Ah, sì, caruccio anche il 10’’ uscito due anni fa, più punk e cattivo, magari un giorno lo recensisco.)

Qúetzal Snåkes – Lovely Sort of Death (2014)

Gran bel pezzo di Ep questo dei Qúetzal Snåkes, una delle band che mi convincono di più dell’intero catalogo dell’etichetta parigina, un rock con forti influenze space e shoegaze, le chitarre si districano tra richiami nineties all’hard rock, e dal vivo devono essere deflagranti.

Assieme ai Volage sono anche quelli che dimostrano una forte personalità, per la quale puoi parlare di influenze sixties ma non di revival. Come genere non sono di certo nelle mie corde, anzi: fanno poco casino e sono troppo bravi con i loro strumenti, ma mi ha colpito il sound e la qualità delle composizioni.

Personalmente ho ascoltato due volte questo Ep, e non credo che lo riascolterò mai più, ma penso che questa band meritasse qualcosa in più che una semplice citazione, se vi piace un garage non per forza urlato e con un certa ricercatezza nel suono questo è un ensemble che può fare per voi.


Ci sarebbero altre chicche da scoprire, come il surf rock dei Los Dos Hermanos, il punk pop dei Kaviar che nell’album sembra una roba alla Audacity ma che dal vivo spaccano, il garage pop leggero pseudo-Burger dei Travel Check, i frenetici Mountain Bike dal Belgio, ma forse ne parleremo un’altra volta. Se avete tempo (quella dimensione che a me manca più di quanto a Battiato manchi il suo centro di gravità permanente) e vi sono piaciute le band che vi ho proposto dateci un’ascoltata, chissà che non scatti la scintilla.

Cristo, che chiusa del cazzo.

Magic Shoppe – Triangulum Australe EP

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Ieri abbiamo parlato del Boston Fuzzstival, un evento che riunisce i più talentuosi complessi new garage, psych e derivati vari del Massachusetts e dintorni. Alla fine dei conti la line-up non è che sia un granché, tante belle speranze, ma sopratutto tanto conformismo, un evento assai tragico in un genere come il garage, oggi appiattito dalla moda esplosa in California.

La colpa, probabilmente, sta nell’aver ridotto la furia iconoclasta del garage rock (penso ai Monks, ai Troggs, agli Stooges) al semplice DIY (Do It Yourself), che aveva ancora un senso nell’hardcore punk, un senso perlopiù politico o comunque di antagonismo, ma oggi nell’era di internet, di Soundcloud e Bandcamp, significa che chiunque prenda una chitarra in mano e suoni “alla Sonics” faccia del sacro e intoccabile garage rock.

Ogni tanto ci siamo trovati di fronte a band che, sebbene apprezzino il movimento in sé, cercano di esporre una offerta musicale non proprio piatta come come l’encefalogramma di Gasparri. Ho recensito Ausmuteants (adorati dai garagisti italiani, giustamente), Nun, Dreamsalon, Molochs, Running, i Thee Oh Sees prima che a Dwyer gli fondesse il cervello, robe così insomma.

Quello che voglio dire, prima che vi posti la foto di io che mi masturbo rileggendomi («mmm, oooh come sono bravo, mmm»), è che i Magic Shoppe da Boston, Massachusetts, potrebbero rientrare tra quei gruppi che non si limitano a scopiazzare Moby Grape e compagnia cantante.

Al primo ascolto di ”Triangulum Astrale” li ho scambiati per i Brian Jonestown Massacre, e mi è sembrato un punto a favore mica male. Pensai: nel girone infernale della neo-folk-psychedelic ho forse pescato qualcosa di davvero interessante?

Magic Shoppe è un progetto di Josiah Webb, già collaboratore dei Ghost Box Orchestra (altra famosa realtà bostoniana) e batterista nei Difference Engine (band shoegaze degli anni ’90), che consta di ben quattro chitarristi, più un basso e batteria, senza contare almeno una quindicina di collaboratori esterni.

Da questo numeroso brain-storming uscì nel 2010 il loro primo EP, “Reverb”: un nome, una religione. Cugini moderni dei leggendari Spacemen 3, ma senza scadere nel revival copia-incolla, questi sei ometti si produssero in quattro tracce una più tosta dell’altro. Sì, ok, i riverberi, sì ok, l’eterno wannabe Velvet Underground, ma pezzi come Dead Poplar mica crescono nel giardino sotto casa tua. L’EP sembra nostalgico, ma non lo è nella sostanza, e sopratutto si rifà alla seconda età psichedelica senza scimmiottarla.

Nel 2011 con i quattro pezzi di “Reverb” più altri quattro completano il loro primo album: “Reverberation”, piuttosto osannato dalla critica underground che lo ha ascoltato (quindi due o tre blog), ma per me uno strano intruglio di cose che non mi sarei mai aspettato dopo il primo EP, e che mi lasciano talvolta più perplesso che convinto.

Time To Go sembra una canzone uscita fuori da un bootleg di Peter Gabriel, Transparency è un mix di shoegaze e soft rock non proprio riuscito, Haunted Hollywood è brutta anche senza i miei commenti, alla fine della giostra Burn Right Through è l’unica novità degna di nota. L’album però riscontra un certo interesse, anche perché, ed è vero, non è la solita sbobba.

Sembra che si sia persa la verve iniziale, e poi nel 2014 arriva questo EP che tutto potrebbe sembrare tranne che un album dei Magic Shoppe.

Sì, l’eco dei riverberi è rimasto (come anche quell’intro che apriva ogni pezzo di “Reverberation”, qua presente solo nella prima traccia), ma il suono è più caldo e acustico. Sembra quasi che i Brian Jonestown Massacre siano passati per fare quattro chiacchiere, e tra una lager e una canna ne sia venuto fuori questo EP.

Struttura dronica, grande cura del suono (con tutti i limiti di una produzione da due lire), ottima intesa tra i musicisti e sopratutto qualcosa da dire. Trip Inside This House e Midnight In The Garden potrebbero benissimo essere uscite nel 1995, magari nel secondo album dei soliti Brian Jonestown Massacre, ma al contrario del piglio elettrico e anarchico di “Methodrone”, qua si respira un’aria più riflessiva, e probabilmente Webb tira anche troppo sul freno a mano.

Non è un caso se il pezzo più intrigante di questo lavoro sia Shangri-La In Reverse, davvero una perla rara: sitar, le registrazioni delle chitarre mandate al contrario, campane tibetane, eppure con una personalità LORO, senza dover per forza sembrare dei cazzo di figli dei fiori come i Lejonsläktet!

Con più coraggio questa potrebbe essere una grande band, retaggio shoegaze, animo alternative anni ’90, buona conoscenza della psichedelia anni ’80, e una solida àncora che li lascia ormeggiati al nostro tempo.

Stiamo parlando solo di impressioni, di idee buttate lì, ma se qualcuno con un po’ più di coraggio è in ascolto forse potrebbe cavarci fuori qualcosa di interessante. E scusate se è poco!

All The Way è il pezzo che apre il loro primo EP, gustatevelo in live:

The Pesos, The Tubs, Frankie Cosmos, 30th Floor Records

Avete presente quei blog o quei recensori che cominciano una recensione descrivendo le loro azioni della giornata, come se a qualcuno potessero interessare? Beh, non è mica un caso se poi recensiscono lodandoli i vari Franz Ferdinand e Strokes di ‘sto cazzo.

Io invece sono duro e puro, così puro che non c’ho mai voglia di scrivere un bel niente. Però dai, oggi ci provo.

Finalmente faccio quattro recensioni in una non perché non abbia tempo per scriverne quattro separate, ma perché dei seguenti album c’è poco da dire, nel bene e nel male.

Quindi bando alle ciance, eccovi un po’ di succose novità dal mondo rock.


pesossssThe Pesos – Carpet Dope (2014)

Poco più di un album revival, tra il primordiale rock anni ’50 e il primissimo surf rock a tinte garage, ma questi Pesos hanno uno stile riconoscibile, al contrario dei vari Frowning Clouds e company che continuano a scopiazzare da Pebbles, senza che nessuno li redarguisca a dovere (tranne il sottoscritto).

Da “Carpet Dope” non vi dovete aspettare chissà che, se non un album piacevole e dalle gustose idee melodiche. Difficile rimanere impassibili di fronte al country scatenato di Cuntrysong, al surf di Heartbeat e di Hey Hey, devi avere proprio un cuore di pietra o essere un fan degli Interpol.

Molto divertente e chicca di questo esordio discografico Ghost (after life after party), che mostra la cifra stilistica dei Pesos, quest’aria gotico-adolescenziale ben lontana dalle riflessioni psichedeliche degli altri complessi californiani.

Questo gusto decadente si evince in particolare dalle ballate (per esempio BABY), le quali sono ad un passo dallo psychobilly, ma si fermano sempre prima, evitando la caricatura ma mantenendo quest’aria di dolci anni ’50 su una spiaggia, mangiando marshmallow e strimpellando una Cumberland Gap o una Rock Island Line.

Certo che i Pesos copiano, ma con intelligenza, e senza seguire la moda di questo psych garage annacquato. Bravi.


11071031_809596815795340_983619904241787842_nThe Tubs – Rags (2015)

Ecco, i Tubs invece sono quel revival che non ci prova nemmeno. Che poi neanche sono malaccio, hanno dalla loro una certa foga, però è garage pop come se ne sente da tanto, troppo, tempo.

La recensione di Manuel Graziani nell’ultimo Rumore si sofferma sulle capacità tecniche della band di ricreare un sound slacker pop della Madonna, ma io non ho idea di cosa sia, l’unica cosa che poso dire è che ascoltando i The Tubs mi sono ritrovato di fronte alla solita band da Burger Records, destinata a sbancare ai vari Burgerama, proponendo poche idee ma un sound molto modaiolo e che tira parecchio in questo momento.

Fra l’altro la loro etichetta originale è la Azbin, una di quelle che tengo sott’occhio per capire se ha intenzione anche lei di seguire questa esplosione garage pop o cerca di mettersi di traverso. Beh, ora ho qualche indizio in più.

Che poi se ogni dubbio non vi si è dissipato al primo ascolto, provate ad ascoltarvi più volte Lost and Found. Dai ragazzi, questo non è garage, questo è indie rock, c’è più Raconteurs in questo pezzo che in tutto “Consolers of the Lonely”. Ci stanno pure gli assoli cristo, GLI ASSOLI!

Hanno poche idee questi tre tizi da Gand e tutte già sentite.


943735_115014782035409_1339358064_nFrankie Cosmos – Zentropy (2014)

Greta Simone Kline, conosciuta come Frankie Cosmos o come Ingrid Superstar, è una delle figure più difficili da incasellare nel folk contemporaneo.

Figlia del mitico Kevin Kline (sì sì, musicista, ma prima di tutto Otto in Un pesce di nome Wanda) e di Phoebe Cates (la protagonista dei due Gremlins) dopo anni di gavetta pubblicando su Bandcamp qualsiasi cosa le passasse per la testa, è arrivata lo scorso anno ha completare la sua prima raccolta, che per lei è come se fosse il primo vero album.

Zentropy” è stato catalogato anti-folk, folk pop, indie folk e altre cazzate. Diciamo che che fa folk, ma non alla maniera del Greenwich Village, dato che siamo nel 2000. La sua leggerezza e le sue emozioni, quasi sempre accennate e che ti fanno sentire piuttosto bene, ricordano quel filone che unisce Katie Bennett e Rachel Gordon, quella musica intimista che non scava più nelle profondità dell’animo, ma ne coglie la superficie.

Se questo è dovuto all’eccessiva svendita del nostro intimo con i social network (e, perché no, dei blog) non lo so, ma quella che una volta era una musica che sondava tramite le parole quello che agli altri non dicevi, ora tenta solamente di evocarli quei sentimenti, senza spogliarli della loro meraviglia.

Questo fa Frankie Cosmos in “Zentropy”, ma a mio avviso è ancora lontana dalle geniali rime di Katie Bennett o da una forma canzone pienamente riconoscibile.

Un album piacevole, fatto di cose impalpabili ma non per questo meno reali.


0004491504_1030th Floor Records: Various Artist – Synth Fighters (2015)

Sono tornati. Purtroppo.

Non paga del successo del precedente esperimento, l’etichetta inglese 30th Floor Records ci riprova, richiama all’ordine i suoi artisti retro-wave per un nuovo, sfolgorante progetto. Reinterpretare i temi musicali di Street Fighters II e di Super Street Fighters in chiave (sorpresa sorpresa) retro-wave.

Ad aprire questo gigantesco progetto attorno al nulla più assoluto ci sono i nostri cari Future Holotape, quelli di “Analog Renegades”. Proprio come dissi a Dicembre dell’anno scorso questa musica avrebbe fatto sfaceli in una pellicola come Kung Fury (che comunque si è avvalsa di una tamarrissima True Survivor, che grazie alla strabiliante interpretazione di David Hasselhoff ha toccato le 15 milioni di visualizzazioni di YouTube, decretando il successo di Kung Fury, per mia somma gioia) e dopo una parentesi così lunga anch’io mi sono dimenticato di che cazzo stavo scrivendo.

Ah, ok, questa retro-wave è molto funzionale a questi progetti, dove una musica del genere ha un senso di esistere, ma nel contesto di un album non sa di un signor cazzo. A meno che tu non sia un fan sfegatato di Street Fighters, s’intende,

Ancora peggio gli album delle singole band che hanno partecipato a questo “Synth Fighters”, un continuo riciclo del synth pop anni ’80, un’operazione meramente estetica che cavalca un’onda nemmeno tanto alta.

Free Cake For Every Creature – Pretty Good

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Why do you write music?
So I don’t have to take anti-depressants.
(Katie Bennett, leader dei Free Cake For Every Creature)

In occasione dell’uscita del nuovo album ormai prossimo sono lieto di consigliarvi ed esporvi “pretty good” (2014), in minuscolo, proprio come il nome della band: free cake for every creature.

Imparentati in qualche modo con The Gerbils e R.E.M., il loro è il pop punk più etereo che abbiate mai ascoltato. E non è tanto per i riff quasi accarezzati, ma per la voce innocente di Katie Bennett e per il suo essere così semplicemente “goofy”. E difatti nel pop punk di questa band non troviamo né la depressione forzata di tanti gruppi contemporanei né le riflessioni filosofiche degli anni ’90, Katie ci racconta il mondo attraverso i suoi occhi, con una lucidità ed un’ironia affascinanti.

Sebbene qualche pezzo sia rubato ai due album precedenti, questo ha un senso perché “pretty good” è il vero primo album dei fcfec, quello dove le insicurezze di “Shitty Beginnings” (2013, fra l’altro è il titolo, per un esordio, più bello di tutti i tempi) e “Freezing” (2014) se ne vanno, e lasciano spazio all’enorme personalità di Katie, che per quanto più che cantare stia sussurrando al microfono, le sue parole sono come urla catartiche che esplodono nel nostro profondo.

Mi ostino, sebbene sia deontologicamente scorretto, a scrivere il nome della band e dell’album in minuscolo proprio per rispettare il loro sguardo sui minuti movimenti dell’anima. Non credo di aver mai letto un testo più punk di too old to be a punk rock prodigy dai tempi dei mitici Violent Femmes. La fragile protesta mossa da una ventiduenne Katie contro chi la la vuole etichettare, una protesta anche troppo leggera per una che si è avvicinata ad un certo tipo di concetti grazie, almeno a suo dire, alle Riot Grrrls!, infatti sembra quasi surreale sentirsi dire:

i look too young yet already feel too old to do a lot of things
like wear a pumpkin pin to work or paint my nails green
and maybe it’s true i’m too old but i won’t let it stop me
i’ll let myself be too young to dye my hair blue
i’ll save it for when i turn seventy-two

ed invece è proprio una rivoluzione bella e buona, ma in piccolo, nel proprio privato, una rabbia che possiamo condividere e capire perché più simile alla nostra. Anche se non sono questi in particolare i problemi che spesso ci attanagliano, sono anche la cosa a cui più assomigliano, altro che Give Peace A Chance o We Are The World!

Ma la protesta è sempre positiva, non c’è mai un solo accenno alla sconfitta nei testi di Katie Bennett, non c’è spazio per l’autocommiserazione, non ci si piange addosso, e questo perché i racconti di Katie sono di una vita piena di scelte, mai statica, non tanto nel senso di viaggiare ma nei moti dell’anima (e questo un po’ ce lo accenna nella seconda strofa di rains even in summer).

C’è fame di presente più che di passato, c’è desiderio di nuovo piuttosto che di vecchio, come nella bellissima chiusa di first show:

$1.89 at stewart’s and a few minutes later
we were sort of drunk together on the roof of a parking garage
in the beginning of December
we were about to play our first show ever
at a bar, and were were a little nervous
but we didn’t go home

il qui, l’ora, senza il bisogno di fare voli pirandici o di citare per la milionesima volta L’Attimo Fuggente, non importa se le cose non sono esattamente come te le eri prefigurate, stai comunque andando avanti, anzi: sei ancora all’inizio.

Quello che differenzia free cake for every creature da band simili come All Dogs, Cherry GlazerrQuarterbacks e i Baby Mollusk di Rachel Gordon, non è una questione tecnica, piuttosto lo troviamo nella diversa visione dell’intimo. Anche i Quarterbacks ci raccontano un mondo intimo con leggerezza e con una dolce ineluttabilità, ma la visione strenuamente positiva e giocosa dei fcfec è unica nel suo genere.

Ci sono ovviamente delle note amare, ma sono sempre mescolate con l’ironia che Katie riesce a comunicarci con una veridicità travolgente, come in don’t go away ahumpf acgroomf o in it sucks hanging out with you (it even more when you leave).

Conclude l’album una cover dei R.E.M., ovviamente: It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine).

Credo sia chiaro che quello che Katie Bennett con i suoi Free Cake For Every Creature (adesso in maiuscolo, perché dobbiamo porci terzi nel giudizio) vogliono trasmettere sia che ognuno di noi ha qualcosa che ci fa star bene, il trucco sta nel fare solo quello per tutto il giorno, per tutta la vita, vivere sull’orlo del burrone mentre le fiamme avvolgono l’ambiente che ci circonda, ma sentirsi piuttosto bene.

Ehm, sono stato per parecchio tempo MOOOOOLTO occupato, tra lavoro, università, alcolismo, malattie varie e tanto, tanto, tanto lavoro. Adesso dovrei tornare in pianta stabile a vomitare sciocchezze e ovvietà su questo blog, ma non prometto niente, ok?

The Blind Shake, il nuovo 7” made in Italy

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Vi avevo già segnalato i The Blind Shake, figli illegittimi dei Rocket From The Crypt ma per niente nostalgici.

I micidiali riff di “Key to a False Door” (2013) fanno parte del miglior garage psych da festival estivo, con quei pezzi che delle volte si ingarbugliano in un lancinante feedback per poi riprendersi dietro il ritmo forsennato della batteria. Roba seria insomma.

Proprio ieri sono stato contattato dalla Depression House Records, etichetta italiana che ha curato l’uscita il 20 maggio del nuovo 7’’ dei Blind Shake, mi sono ritrovato così ad accendere lo stereo a tutto volume in piena notte nella speranza di sconvolgere il mio apparato uditivo.

Va detto che “Key to a False Door” aveva i riff giusti ma mancava ancora un sound più curato e qualche pezzo davvero memorabile (anche se vi invito a riascoltare Le Pasion e Crawl Out). Con questo nuovo 7’’ credo proprio che le cose si facciano decisamente più interessanti.

Get Youth (lato A) ha semplicemente tutto, un bel riff sconquassabudella, un sound al limite della schizofrenia, feedback che spuntano dalle fottute pareti, è un garage psych che merita una certa attenzione oltre che uno stereo con un impianto audio della Madonna.

Deve molto a John Reis l’attacco al fulmicotone di Brickhouse Burro (lato B), ma questa band ha comunque una spinta in più degli ultimi The Night Marchers, il trio da Minneapolis ha un’energia che dal vivo dev’essere a dir poco devastante, e dalla foga di Brickhouse si può facilmente intuire.

Mike e Jim Baha creano l’ambiente sonoro e i riff, Dave Roper alla batteria è sempre pronto a scatenare l’inferno a richiesta.

Per quanto ottimi pezzi come Calligraphy del precedente album siano già di per sé un’ottima prova delle qualità della band, per me con questo suono più rumoroso, più distorto e arrabbiato hanno fatto quel passo avanti decisivo. E poi hanno sempre quel pizzico del sound tipico della Castle Face Records che impreziosisce tutto.

Adesso attendo con ansia di ascoltare un nuovo LP!

  • Link Utili: clicca QUI per il blog della Depression House Records, invece se vuoi ascoltarti gli album su bandcamp della band clicca QUI. Se proprio non puoi fare a meno di far sapere al mondo che i The Blind Shake ti eccitano come un tredicenne col suo primo porno clicca QUI per mettere “mi piace” alla loro pagina Facebook. Feticista.

Audacity, The Blind Shake, White Night, Electric Citizen

Quattro succose recensioni in un solo post! Ma è così palese la mia pigrizia? Sigh…

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I californiani Audacity sono un nome che forse avrete già sentito, infaticabile band presente in più o meno tutti i festival punk-garage e giù di lì, nel 2012 pubblicano il loro primo album dopo due EP mediocri: “Mellow Cruisers”. Tutta energia punk rock, niente sostanza, un album adatto ai lunghi tragitti in auto (anche se con la sua mezz’ora scarsa di durata ci fate al massimo Pontassieve-Firenze), chiaramente siamo di fronte ad un prodotto che è sfizioso finché rimane a 5$, e con la premessa necessaria di una buona dose di euforia in corpo, perché gli Audacity non hanno molto da dare a parte il sudore.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://audacityca.bandcamp.com/

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Direttamente da Minneapolis nel ridente stato del Minnesota arrivano i The Blind Shake, e qui alziamo un po’ il tiro. Cattivi, garage, incazzati il giusto, magari senza le melodie più orecchiabili degli Audacity ma con qualcosa in più nella sostanza. Figli spirituali dei Rocket From The Crypt di John Reis (con cui hanno anche collaborato) nel loro secondo album, “Key to a False Door”, puntano su un mix bello deciso di garage e sudore, con quelle classiche cavalcate punk alla John Reis per l’appunto, qua e là troverete anche qualche riff memorabile (Le Pasion, Calligraphy, la surf-punk Crawl Out, Garbage on Glue e 555 Fade).

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Uscito nel maggio scorso “Prophets ov Templum CDXX” dei californiani White Night fa un casino della madonna, non inteso sempre come un aspetto positivo. Fughe pop come Alone sarebbero molto apprezzabili se accompagnate dall’eleganza melodica di un Jeffrey Novak o dalla vena psych dei White Fence, ed invece la caratteristica principale dei White Night è quella di non essere né carne né pesce. Non emozionano, non sperimentano, non fanno sufficiente casino, però suonano discretamente.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://whitenight420.bandcamp.com/album/prophets-ov-templum-cdxx

Electric-Citizen-Sateen-Art

Eppure c’è una band che potrebbe far faville, vengono dall’Ohio, si vestono da satanisti anni ’70, il loro hammond sembra uscito fuori dall’Inferno e sono probabilmente il prospetto hard rock più interessante del panorama contemporaneo. Gli Electric Citizen non hanno ancora pubblicato un cazzo (ma il loro primo album, “Sateen“, dovrebbe uscire il primo Luglio!), ci sono solo due singoli su bandcamp e qualcosina nella giungla dell’internet, ma bastano quei pochi ascolti per capire che la RidingEasy Records le sta azzeccando tutte da un pezzo. Non siamo sulle frequenze doom-blues dei Kadavar, né sul blues-rock dei Blue Pills, questo è hard rock vecchia scuola, Deep Purple e Black Sabbath ne sapevano qualcosa.

  • prima impressione: 7/10
  • link per prenotare ‘sta bellezza: http://ridingeasyrecords.com/product/electric-citizen-sateen-vinyl/

E ora video come se piovesse:

Questa è Burning in Hell, ditemi voi che ne pensate.

Altro riffone dei Electric Citizen registrato probabilmente col culo.

Altro singolo, Light Years Beyond.

Degli allegri Audacity con Subway Girls.

Un po’ di garage con Garbage on Glue dei The Blind Shake.

Lejonsläktet – In och Ut

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Sul web come nel cartaceo si sta sempre attenti a non diffondere le proprie fonti, come se le idee o le scoperte avvenissero per intercessione divina. Ma secondo voi oggi faccio una recensione di un EP di folk psichedelico svedese perché ci sono inciampato sopra mentre andavo all’Università? 

Uno dei miei siti preferiti da tempo è Revolt of the Apes, nato nel 2010 per supportare il grandioso Austin Psych Fest ora semplicemente uno dei migliori luoghi per scoprire le nuove leve della psichedelia mondiale. In quei lidi ho scoperto gli Shooting Guns e proprio nello stesso post che nominava questi Lejonsläktet, anche se con un nome così non mi avevano proprio posseduto fin dal primo istante. 

Il progetto è di due super hippie: Alexander Eldefors e Volter Hagman

Ord från hjärtat och toner från smärtan. En berättelse från höst till sommar. Ett äventyr om två personer och en skiva.

Questi sgorbi che il mio fido traduttore di Google decripta così: Parole dal cuore e toni di dolore. Una storia dall’autunno all’estate. Un’avventura di due persone e di un disco. Che dire: un furgone, tanta birra, qualche acido e via verso una “nuova” avventura. 

Ben tre quinti di questo EP sono litanie acustiche piene di autentico stupore e amore, forse un po’ troppo melensi per il sottoscritto ma di indubbio fascino per chi, e di sicuro c’è qualcuno tra voi che leggete, è più sensibile verso le poche note e parole sussurrate di Naturen i blodet, skogen i håret, il ritmo dolce di una Som På Räls o la progressione intensa ma sempre nei termini più soft possibili di Illa Grönt.

Forse, e dico forse, il meglio questa band lo dà nei primi due pezzi. Ett Svagt Hopp Om si apre come una hit da MTV prodotta dai sempre meno ispirati MGMT, e in effetti qualche similitudine non si fatica a trovarla. Vagamente (o furbescamente) esoterica Som Om Sanden Rinner Ut, la quale non può sfigurare in un festival di fattoni come l’Austin Psych Fest. 

Questo “In och Ut” (2014), esordio (almeno credo) discografico che precedete il loro primo album non promette un granché, se non qualche minuto speso bene ascoltando una musica tutto sommato piacevole ma che non si predispone ad un secondo ascolto. 

  • Lo Consiglio: a chi vuole rilassarsi ascoltando un musica che viene dal cuore (oddio, sto per sciogliermi nel miele…).
  • Lo Sconsiglio: a chi si rilassa ascoltando “Y” dei The Pop Group, o in generale se non hai voglia di perderti nel viaggio mentale di due hippie svedesi.
  • Link Utili: clicca QUI se vuoi ascoltarti l’EP su SoundCloud, clicca QUI per la pagina Facebook della band, clicca invece QUI se vuoi un’opinione più appassionata e professionale della mia sui Lejonsläktet.

E ora, come di consueto, qualche video:

Il video di Som Om Sanden Rinner Ut è l’unica roba che ho trovato su YouTube che non fossero cazzate.

Sempre sull’onda dello psych-folk ci sono gli ottimi Quilt, scoperti nelle sessioni di Folkadelphia.

 

So Stoned, è in vendita il nuovo 7″ degli Zig Zags!

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Brainded Warrior b​/​w So Stoned” è il nuovo 7″ della skate band da Los Angeles, dopo la furia del primo singolo ora anche quella sana vecchia vena punk-demenziale cara a questi tre mascalzoni. Al contrario di Brainded Warrior stavolta non è registrato con l’aiuto del buon vecchio Ty Segall, per concludere credo sia inutile ribadire quanto sia ultra-figa la copertina di Keenan Keller.

Vi lascio il link della pagina bandcamp dove potrete ascoltare fino alla sfinimento i favolosi riff di ‘sti stronzi: http://zigzags.bandcamp.com/

Và, vi lascio anche ad un set completo registrato in una “Red Light Session” della Converse: