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Govier – Predator

“Metal Target”, 2016
Etichetta: Mistery Circles
Paese: USA
Pubblicazione: 2016

It’s not easy having to spend each day,
as the color of the leaves,
when it’s easier to be red sprawled out on the bed.

Govier, Leaves

Cave Junction è una piccolissima cittadina perduta nella Illinois Valley, circondata da foreste fittissime e da una natura rigogliosa. C’è solo una strada che percorre tutta la città – e in meno di mezz’ora, ovvero la route 119, che connette le seimila anime di Cave Junction con l’aera meno popolosa di tutto l’Oregon. Nel 2015, dopo i vani tentativi di mantenere in piedi la sua band, Malcolm Govier Hirsch pubblica il suo primo album solista: “Live! From My Dorm, un concerto registrato su un quattro tracce, dove Govier sussurra al microfono un malessere consapevole e disilluso, non senza un’autoironia acuta e un po’ demenziale.

Secondo le tag della sua pagina Bandcamp la musica di Govier si può riassumere nell’etichetta «bedroom rock». Secondo le orecchie del vostro blogger di fiducia invece, questo giovane songwriter americano ha ascoltato diversi album dei neozelandesi The Bats passando per i Gerbils, facendo poi il giro con i REM e cascare in Australia dalle parti dei Chook Race. C’è chi chiama tutto questo indie pop, chi garage pop, chi invece la vede come una declinazione rock del dream pop, fatto sta che a Cave Junction lo chiamano «bedroom rock» e dobbiamo farcene una ragione. Dopo un intero anno che il mondo vive in lockdown ci stiamo sempre di più abituando a fenomeni musicali scritti, registrati, prodotti e distribuiti direttamente dalle camere da letto di tutto il mondo, senza contare le interminabili maratone streaming su Twitch di musicisti in cerca di un nuovo pubblico e con qualche problema di insonnia. 

In realtà uno dei contenitori più rilevanti per la musica del 2020 non è un servizio streaming ma bensì Tik Tok, che mentre lancia nuove star pop dal forte sapore generazionale come Penelope Scott, normalizza per il pubblico giovanile la figura del musicista solitario, che con il suo PC e un buon microfono RØDE, esprime la sua arte senza troppe preoccupazioni sul formato finale. Alla fine Tik Tok sta mettendo in risalto una dinamica ormai dominante nel mercato DIY che trova in piattaforme come Bandcamp il suo terreno fertile, almeno per quanto riguarda rock, il neo-soul, il folk e l’hip pop. Mi piace pensare che una delle prime “icone” di questo movimento che non può uscire di casa, sia proprio Govier, solo che ancora non lo sa nessuno, nemmeno lui.

Predator” è un album semplicissimo, Govier strimpella la sua chitarra recitando poche parole che aprono le porte ad un mondo altrettanto lineare e prevedibile, se non fosse per la melanconia latente che si sostiene sul filo sottile della nostalgia senza però cadere nei cliché di autori ben più conosciuti come Kurt Vile. La musica di Govier non è vintage, è nostalgica senza usare il fruscio finzionale del vinile o chitarre con pedali da 150 cucuzze, sembra quasi di capire come sia uscire la sera nell’unico locale della città e aspettare di poter bere la prima birra della serata. Il disco è breve, molto, ma non lo vedo come un problema, francamente pensare ancora nel 2021 che un disco debba durare un tot ha poco senso, delle nove canzoni una è scritta dal suo amico Arturo Principe (Like a Soccer Player), ed è presente una splendida cover di un pezzo del regista/animatore underground Vince Collins (Life Is Flashing Before Your Eyes). 

La cosa bella di Govier e di questa generazione musicale è che la disillusione non passa attraverso l’odio per se stessi (qualcuno ha detto Elliot Smith?), invece evapora attraverso nuvole elettroniche create con Garageband, dove alla fine senti anche il «click!» che sancisce la fine della registrazione della parte vocale. I sentimenti sono offuscati e pretendono una loro intimità, è come esporsi ma non troppo, lasciando che la musica sia il fuoco attorno al quale sedersi mentre attorno c’è silenzio. Il ritmo della musica di Govier non è così diverso da quello del dito che scorre sullo smartphone quando si è troppo annoiati persino per dormire, è roba che scivola sotto le scarpe mentre a lezione invece di ascoltare il prof disegnavamo sul banco. Perfino la copertina dell’album ha tutto un suo contesto che a prima vista sembra solo quello di un impedito, ma che nei giusti subreddit è roba di prima qualità, estetica da high school. 

È musica che non urla alcuna urgenza, al massimo ti chiede il permesso per poi sedersi sul divano per tutto il resto della festa. 

Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall

E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.

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«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Skeptics / Prêcheur Loup split

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Etichetta: Frantic City Records
Paese: Francia
Pubblicazione: 4 Novembre 2016

Come giustamente scrive tale Christophe Lopez-Huici, su un numero di Bananas Magazine in merito ad un album qualsiasi degli Skeptics: «The songs sound as vicious as ever and the formula stays the same, thick fuzz, skin bashing, gnarly vocals & straightforward riffs», classica frase copia-incolla per qualsiasi disco garage revival (o come dicono gli esperti: “new garage”, ah!). Devo comunque ammettere che per band come gli Skeptics sia anche un modo pratico di descrivere il loro approccio “purista” al genere, un po’ come vale anche per i newyorkesi The Penetrators, col peggiorativo che ‘sti loschi figuri dalla Grande Mela sono pure lo-fi (bravissimi eh, per carità, però quando passava il tizio col carrello dell’originalità loro stavano fuori a giocare al gameboy).

Dette tutte queste cattiverie mi tocca rimangiarmele in tempo record di fronte al nuovo split che vede gli Skeptics fiancheggiare i Prêcheur Loup, uscito questo mese per la dinamicissima Frantic City, etichetta di La Rochelle che fa concorrenza alla parigina Howlin Banana Records in quanto catalogo garagista.

Cominciamo però presentandovi Bart De Vraantijk, giovane di belle speranze che nel 2013 decide di trasferirsi da Bruxelles per sistemarsi a La Rochelle, munito di chitarra e amplificatore di seconda mano, pronto a far assaporare alle belle francesine quanto duro fosse il suo garage. Ennesimo caso di folgorazione sulla via di “Back From The Grave”, scoperto il verbo del garage rock il chitarrista belga non ha saputo resistere al sacro richiamo psichedelico di Seeds, Keggs, Rats, Alarm Clock e via dicendo, esordendo (credo) nel 2009 con un 7” dal titolo quantomeno tradizionale: “You make me sick”.

Ora è affiancato da Kristal Suiker al basso e Joe Burditt alla batteria, so che non è sempre stato così, ma chissene, diciamo pure che basa tutte le sue produzioni su una formazione classica a trio, riuscendo comunque a fare casino come fossero in sei.

Nel 2012 pubblica per la piccola ma garagissima Moody Monkey “File under Fuzz Punk”, che ripesca dai suoi 7” e spacca di brutto. La foto in copertina lo ritrae in posa con la chitarra in un cimitero che, credeteci o no, ricorda parecchio quello della crisi lisergica in Easy Rider. Insomma, le tombe ci sono, il fuzz è caldo, i singoli effettivamente spaccano (You’re a Jezebel è una perla), non mancano gli omaggi e ci sono ben due episodi strumentali (Nite Rider e Missing Link, con un pizzico di Link Wray, da me super-apprezzati). In generale ok, sì, però dopo il secondo ascolto lo metti assieme agli altri MILIONI di album garage tutti uguali e ciao, ti riascolti giusto il pezzo di apertura e gli strumentali, se sei un nostalgico degli anni frizzantini del surf-rock.

Dopo svariati split e 7” (sì, è pure super-produttivo, come vuole il cliché dell’onesto garagista) arriva nel 2013 “Black, Loney & Blue” per la portoghese Groovie Records. Salta fuori che De Vraantijk può scrivere pezzi anche un po’ più lunghi di un minuto e mezzo, spingendo un po’ anche sulla psichedelia. Il primo esempio è Trouble Maker, con un riff piuttosto heavy (smorzato da una registrazione non proprio eccelsa), da lì in poi il fuzz sarà più messo così a caso, inizia sottilmente a presentarsi qualche accenno (molto accennato a dir la verità) di Blue Cheer, ma questa è una cosa che affermo un po’ a posteriori, sopratutto alla luce del nuovo split di cui, prima o poi, arriveremo a parlare. Conclude in maniera interessante l’LP la title track, molto più pesante di quanto uno si potesse aspettare dagli energici e sixties-friendly Skeptics.

Sotto contratto per la Frantic City tutta la produzione che va dal 2014 ad oggi della band rispecchia il loro retaggio garagista, sfornando EP e 7” come se non ci fosse un domani, decisamente divertenti e orecchiabili quanto dimenticabili nel giro di mezz’ora. Esce persino la versione “estesa” di un loro EP che dura quanto un album e di cui nessuno al mondo sentiva la necessità.  Nel frattempo De Vraantijk collabora con altre formazioni più o meno famose, come i Double Cheese, Pneumonias e White Fangs.

MA, e c’è un “ma”, il 4 Novembre esce un nuovo frizzante split con i Prêcheur Loup (se non ricordo male anche loro belgi, con il vizio di mescolare lo-fi a reminiscenze eighties se non addirittura vaporwave), e finalmente la faccenda prende una piega diversa.

L’attacco con la chitarra acustica di Mind Powers è subito una botta. Ho controllato sei volte che fossero proprio QUEI Skeptics e non degli omonimi, dato che ce ne stanno e non pochi. Macché, son loro, col riffone acustico che sembra uscito fuori da un concerto dei Sulfur, lento, lento. De Vraantijk impara la lezione di Hawkwind e Blue Cheer e si prende il suo tempo, la chitarra fuzzata fa il suo solenne ingresso senza fretta, sferzando l’aria e preparando l’ingresso ad un assolo altrettanto monolitico, cazzo sembrano quasi i fottuti Kadavar!

Meglio riprendersi presto dalla botta, Spare no time prosegue sul mood psichedelico e sabbathiano, senza premere troppo sull’heavy quasi mutilato di una deflagrazione finale. Wall of Light è uno strumentale acustico di un minuto e mezzo, finale fuzzato e riuscitissimo nella sua banalità, futile ma d’atmosfera.

Conclusione genialmente auto-ironica con una garagiata comunque ben diversa dal solito, No half out the cave ci restituisce il solito strafottente De Vraantijk, ma con un suono nuovo, meno esasperato, meno urgente, più riflessivo quasi, in definitiva meno macchietta.

Tutto ‘sto papiro di roba per quattro pezzi buttati là, perché? Perché mi è piaciuto farmi sorprendere da una di quelle che reputavo la solita garage band copia-incolla del cazzo, e che invece hanno saputo un poco, modestamente, reinventarsi, senza per forza fare la cover band dei Fuzz o dei Thee Oh Sees.

Ah, carini pure i Prêcheur Loup.

Undisco Kidd – Hubble Bubble

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Etichetta: Annibale Records
Paese: Italia
Pubblicazione: 15 Giugno 2016

Più o meno un anno fa un tizio me ne parlò come “la band rivelazione nella scena italiana”, peccato che dopo pochi giorni (e sbronze) l’unica cosa che ricordassi è che avevano vagamente qualcosa a che fare con i Funkadelic. Purtroppo mi arrivano ogni giorno mail con oggetto: “La band rivelazione di ‘sto cazzo” e di solito è non è neanche merda al 100%, ma solo roba noiosa. Un mese fa mi stavo ubriacando in una bettola di Prato quando il proprietario del locale mette sù “Hubble Bubble”, rigorosamente in vinile. Ovviamente non lo ascolto con attenzione, né volevo, ero ad un cazzo di pub con Massimiliano Civica che mi stava scambiando palesemente per qualcun altro, eppure… eppure mi si inchioda qualcosa alla base della calotta cranica, un non so che di Thee Oh Sees e Reatards, quella California che ho amato e per cui ho speso fin troppe parole in questo blog, un rumore fuzzoso, una nenia psichedelica, più che di George Clinton quella musica sembrava provenire dall’ennesimo orfano di Jay Reatard.

La matassa sonora che questi quattro ragazzi sardi propongono è un’interessante deriva psichedelica, direi un 10% di psichedelica occulta e un 90% di garage psych, se raddoppiassero la batteria in certi momenti li scambieresti davvero per gli Oh Sees di Dwyer, con però un maggior gusto melodico e una sezione ritmica meno kraut.

Alla fine della giostra l’unica cosa funk che hanno questi Undisco Kidd è il tiro micidiale, che sì mantengono dalla prima all’ultima traccia, ma non sempre con la stessa efficacia.

Lady Slime è una grande, grandissima apertura, ed è anche l’unico vero acuto di tutto l’album, riuscendo a rielaborare suoni e archetipi del garage californiano con una freschezza disarmante, inserendoci pure a spregio un assolo alla Doug Tattle.

Il resto del 12” non riesce a stupire allo stesso modo, ma sia chiaro: mantenendo sempre alto l’interesse dell’ascoltatore, perché difficilmente ci si annoia. La band fa un gran casino e lo gestisce bene, senza strafare in onanismi (tipo Jefferson Nile). Every Day sembra quasi la cover di un pezzo segreto di Ty Segall, tracce come Maggie’s Closet e Wakey (ma anche Lady Slime) a mio avviso avrebbero giovato di una batteria raddoppiata, ma sono piccolezze, perché “Hubble Bubble” riesce comunque a spaccare più di qualsiasi album uscito quest’anno sotto la Burger Records.

Lo consiglio a chiunque in questi anni è andato in brodo di giuggiole per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees o “Twins” di Segall, ma anche per le melodie beatlesiane di Jeffrey Novak, questi Undisco Kidd non solo attingono a piene mani da quella scena musicale ma la sanno anche rinnovare con efficacia. Sicuramente sarò tra quelli che prenoteranno il prossimo album, perché i margini di miglioramento lasciano prevedere tante belle cose.

DOTS – Hanging on a Black Hole

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Etichetta: Rude Soul Records
Paese: Italia
Pubblicazione: 11 Settembre 2016

Proprio adesso, in questo preciso momento che sto scrivendo in treno sul mio taccuino, mi sta risalendo un gusto di Sprite e salsiccia cruda in sù per l’esofago e mi girano moderatamente i coglioni, per cui, invece di fare quello che dovrei fare per trovarmi un lavoro in questo mondo, eccovi una recensione.

I DOTS non so da dove vengono, non mi sono informato molto, in realtà non mi sono informato per niente, perché sono sempre su un treno e senza la possibilità di collegarmi ad internet, non so nemmeno come si chiamano davvero ‘sti stronzi, però una cosa ve la posso dire: “Hanging on a Black Hole” è una delle cose più belle uscite in Italia in questo 2016. Se per “bello” intendiamo poco meno di un quarto d’ora di funk e punk mescolati con ignoranza, rabbia e con un tiro della Madonna (bisogna essere elastici al giorno d’oggi). Lo giuro su Iggy Pop, Isaac Asimov e Asa Akira ogni qual volta ho messo sù questa roba e dalle cuffie è partita a fuoco Black Hole, tutta la merda della giornata è scolata giù, giù fino nelle fogne più profonde di qualche film anni ’80, lo stesso lurido posto dove pescano gli album da recensire per Rolling Stone.

Sarà una mia fissa, ma per me la rabbia nel punk è auto-ironia (anche), senza un po’ di quella sei solo un pretenzioso stronzetto che, col minimo della tecnica richiesta per non sembrare Daniel Johnston, strimpelli qualcosa alla Chuck Berry ma distorto. Ovviamente qua siamo su altri lidi, il mio voleva essere un esempio, ma tanto non ci si capisce mai su internet, il fatto è che i DOTS nel loro essere esilaranti non sono dei coglioni, e ci provi anche un certo gusto a canticchiare le loro canzonette mentre aspetti il bus nell’ora di punta, o qualcosa del genere.

Che pezzo Brain Damage, ma personalmente mi esalto verso il finale di questo Hanging on, con il trittico Figure It Out, Hot Couvered Shoulders e Breaking The Law, in particolare il secondo pezzo, semplicissimo ma potentissimo, se i primi istanti fossero più indecifrabili e progredissero con più calma trovando una loro compostezza (alla Beefheart per intenderci) per poi deflagrare in quel ritornello a cazzo duro, ecco sarebbe tipo uno dei miei pezzi preferiti di sempre da ascoltare in viaggio, al bar, al cesso. Per ora lo è solo in viaggio.

Non so quanto sia voluto, ma dalla qualità dell’ingegneria del suono messa in campo direi che abbiano registrato tutte le otto tracce nel mio garage, di nascosto e pure di fretta, il che di per sé nell’epoca del lo-fi non mi stupirebbe più di tanto, anzi ormai tendo ad infastidirmi non poco quando ascolto robe come gli Hot Lunch (quelli da Pitcairn, non quelli hard-glam di San Francisco), ma per il sound dei DOTS ci sta a pennello, me li rende più simpatici e cazzoni.

In un mondo ideale i DOTS sarebbero sul Rolling Stone di questo mese, con l’articolone da otto pagine in cui non fanno altro che insultare un giornalista troppo fesso per capirlo, la foto in copertina scattata mentre sorreggono la testa a uno di loro che sgotta sull’entrata del nuovo locale che li ospita, probabilmente per suonare davanti a dieci stronzi come La Piramide Di Sangue quest’anno a Prato al No Cage, ma con la foga e la risolutezza di chi suonerebbe allo stesso modo al Madison Square Garden come nei bagni del liceo artistico.

Che merda di recensione.

Ausmuteants -Band Of The Future

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Etichetta: Aarght! Records - AARGHT037
Paese: Australia
Pubblicazione: 26 Agosto 2016

So che è un’opinione impopolare ma a me i side-projects degli Ausmuteants mi stanno sulle palle, anche gli amatissimi Frowning Clouds, anzi loro prima di tutti! È che questi quattro australiani fuori dalla band mi suonano troppo derivativi di certi sixties che sì, ci scaldano ancora il cuore come le storie di Guareschi, ma che – in estrema sintesi, hanno spaccato i coglioni e saturato il mercato. Perché ascoltarmi un revival dei Monks, dei Troggs o dei Sonics quando ho già i vecchi album – che fra l’altro spaccano decisamente di più. Però quella volta là che i quattro si ritrovano tutti assieme sotto quel magico nome così punk e così dolcemente reietto, ecco che la magia del Natale si ripropone anche il 26 Agosto.

Se “Order Of Operation” del 2014 era un piccolo capolavoro della scena punk mondiale questo “Band Of The Future” impone gli Ausmuteants come il gruppo più muscolare, cazzuto e ispirato del globo.

Sì è vero, sono solo canzonette, e la più lunga dura 2 minuti, e non avrà mai l’impatto di un vero capolavoro, ma la condizione di fragile equilibrio tra la necessità di esprimere la contemporaneità e la nostalgia del punk e del garage moderno, trovano finalmente la loro dimensione in questo album. Se vi pare poco fate voi.

Il revival anni ’80 sta coinvolgendo tutte le forme d’arte e non solo la musica, pensate al cinema con It Follows o alla TV con Stranger Things (ma se ne potrebbero citare decine di esempi), musicalmente la sua forma più pura e quindi anche limitatamente nostalgica è la synth wave. Se è vero che c’è chi prende i suoni tipici della synth wave per farne qualcosa di unico (penso alle musiche di Cliff Martinez nella prima stagione di The Knick e nel Neon Demon di Refn) la maggior parte delle uscite discografiche sono poco più che stronzate, e hanno il loro epicentro nel Regno Unito. E capite bene che tra UK e Australia sebbene i chilometri di distanza c’è ancora qualcosa di più profondo che le unisce.

Già nei loro primissimi lavori gli Ausmuteants rielaboravano le pulsioni synth in un modo tutto loro, mescolando la freddezza di quei suoni alla adolescenziale furia punk con una certa facilità.

Forme più elaborate di questo mix nelle terra dei canguri le abbiamo già assaporate, c’è quella eclettica dei Total Control di “Typical System” (2014), o quella dark e cronenberghiana dei Nun, ma mai con il tiro e l’entusiasmo di questo “Band Of The Future”.

Per quanto la tracklist dell’album abbia in parte dei forti rimandi col passato (titoli come I Hate You e Liars all’aficionados rimandano rispettivamente a Monks e Richard Hell) il dialogo cominciato nel 2014 con il web ora è più un dato di fatto.

Si comincia a rotta di collo e si finisce a rotta di collo, una valanga sonora degna dei migliori Minutemen, da una band che non ha la tecnica sopraffina dei californiani ma di certo ne condivide l’impeto.

La presenza del synth è forte come nell’album precedente ma l’amalgama è decisamente più riuscita, i pezzi sono tutti ultra-compatti, non solo per lo scarsissimo minutaggio, ma perché non c’è mai un reale protagonista nella strumentazione, non c’è la solita chitarra onanistica né i giri acchiappa bischeri col synth, è tutto asservito all’espressività di ogni singola traccia.

Potenzialmente sono tutti singoli micidiali, il mio preferito ovviamente è una stoccata alla critica musicale: Music Writers.

Diecimila meglio del nuovo e pretenzioso Ty Segall, che come tutta la scena californiana si stanno godendo il loro momento d’oro rammollendosi decisamente, gli Ausmuteants sono ancora sul pezzo, tra i loro fan eccellenti ci sono anche band di altrettanto spessore della scena ferrarese (Hallelujah!), scena che in generale dialoga molto bene con il punk australiano e che produce del punk di livello altissimo (ci sono delle involontarie rassomiglianze anche tra i già citati Total Control e i grandiosi Mirrorism per dire).

Non scomodiamo paroloni per concludere questa così poco professionale recensione, diciamo solo che ci sono poche cose a giro che valgono la pena di essere sparate a mille dallo stereo o in auto, ci sono poche cose che vi faranno venir voglia di spaccare tutto come questo album, ci sono poche cose che riprendono la grandezza degli ottanta senza scimmiottarla come gli Ausmuteants.

Bidons, Mirrorism, For Food

Finalmente ho trovato un po’ di tempo per annoiarvi con le solite recensioni MA stavolta si cambia aria! E basta con ‘ste cazzo di band californiane, e che siamo una colonia americana? Ah, “sì” dite?

RECENSIONI DI BAND ITALIANE come avete più e più volte richiesto per mail e su Facebook maldetti stalker bastardi schifosi luridi «Oh, finalmente le recensioni di Tab_Ularasa, VAIRUS e La Piramide Di Sangue che ti chiediamo da secoli!» ehm, in realtà non proprio eh. Però quasi, come cantava Freak Antoni.

La Salerno garage dei Bidons

Un minuto di silenzio per il nome della band.
Proseguiamo.

Come indica in maniera vistosa il loro logo su Bandcamp i Bidons suonano un “garage per le masse”, una musica democratica e fiera della sua immediatezza, come ci hanno insegnato papà Bangs e mamma Sonics. I ritmi del loro primo album del 2012 “Granma Killer!!!” sono però deliziosamente rock and roll più che punk-garage (vedasi il pezzo 2009) con venature power pop ma senza l’egemonia della chitarra a tutti i costi, sono persino ballabili i bastardi!

Per cui è ovvio, come i più intransigenti di voi avranno subito capito, che qui siamo su una sponda più catchy del garage, compiacente e divertente, il che di per se non dev’essere un male a prescindere però è chiaro che se preferite suoni abrasivi e gli sputi in faccia i Bidons non fanno per voi (come anche la società civile, ma questo è un altro discorso).

Due cover eccellenti, Be A Caveman degli Avengers e Night Time dei Strangeloves, gli ululati alla Cramps di Wolves of Saint August, un album che si mastica bene e si dimentica altrettanto facilmente… Avrebbero anche i numeri questi quattro salernitani, ma manca il singolone spaccadenti, l’ariete d’assedio, la HIT insomma. Ci provarono subito l’anno dopo col singolo Raw, Naked & Wind, misto di White Stripes e sixties ben congegnato, apripista per il loro secondo album: “Back To The Roost”.

Si alza il volume stavolta, meno rock and roll e più furia Nuggets, leggermente più vintage ma non lo-fi e con una title-track memorabile. Meno paraculi dei Double Cheese ma altrettanto bravi nel combinare riff, assoli brevi ma cazzuti e ritmi forsennati. Non sono proprio la band per cui vado pazzo di solito, però come spinge (Shout it out) Burn Down! e come galvanizza il riff di I don’t mind!

Insomma: di sicuro il loro lavoro migliore, sopratutto alla luce dell’ultimo album “Clamarama”.

Non voglio partire prevenuto quando recensisco un album, mai, però già dopo aver ascoltato il pezzo d’apertura, Do it alone, mi è scesa parecchio la scimmia che si era arrampicata faticosamente nel 2013 per “Back To The Roost”. Più power pop che garage, assoli da masturbazione seriale, riff troppo troppo troppo orecchiabili, cazzo è come spararsi nelle orecchie un misto di Bass Drum of Death-Jet-Double Cheese tutto patinato e ripulito fino all’inverosimile.

Dal punto di vista compositivo probabilmente siamo di fronte al loro album più riuscito, se sparato a tutto volume dalle casse sembra inciampare clamorosamente con i suoi stessi cliché ma senza auto-ironia. Probabilmente a quelli di voi che preferiscono gli Smithereens agli Oblivians questo album provocherà orgasmi multipli da qualsiasi orifizio, perché i Bidons ci sanno fare eccome. Personalmente ho faticato non poco ad arrivare alla fine dell’album.

Passiamo alla roba seria, passiamo alla scena Ferrarese.

Captain Beefheart è sceso a Ferrara: ovvero come i Mirrorism mi hanno spappolato il cervello

Io la prima demo dei Mirrorism non so dove cazzo cercarla. Probabilmente dovrei contattare la band, ma tra tutti i contrattempi della vita mia non ho mai trovato lo spunto per decidermi e rompergli il cazzo, così la roba più vecchia che ho trovato è del 2012, un EP titolato “Fly Eye”.

E nulla, già dopo S.P.O.W. ho dovuto spararmi una sega per svuotare tutta l’emozione che mi si era accumulata nelle palle. Post-punk? Un po’, per nulla nostalgico dei tempi che furono, ma che ne riprende le cose migliori, i ritmi sghembi, le chitarre inquietanti, la voce che passa dalla narrazione alle urla più agghiaccianti, sicuramente caratterizzato da una attitudine tutta loro. Sembra che i titoli stampati nella musicassetta fossero pure sbagliati e questo gli vale cinque punti in più a bocce ferme.

Night Flight mi ricorda i cambi repentini e la frenesia di alcuni pezzi degli australiani Total Control ma l’aggiunta del sax (per nulla Morphine ma mooolto beefheartiano) è un tocco di classe ineguagliabile, bellissime anche la lenta Slow Homo, la punkettona Exit The Loop e Anti Bodies.

È come trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo, come quando ascoltai per la prima volta i VAIRUS «Ma allora è possibile fare della merda di qualità pure in Italia!»

Sarà addirittura la Trouble In Mind a produrgli il 7’’ con Night Flight e Exit The Loop nel 2013. Ovviamente sarà un successo nazionale ed internazionale, li avrete sicuramente visti a Sanremo, a Lollapalooza, agli Oscar e dal Papa vestiti da chierichetti.

E poi, due anni fa e due giorni dopo il mio compleanno, arriva il regalo più bello: “Mirrorism”, la loro consacrazione, il loro primo vero album, caricato free su Bandcamp. E in concomitanza la notizia del loro scioglimento. MAPORCODIO.

Amici: possiamo urlare al capolavoro e non vergognarci. Cazzo bisogna dire di un album così? Infiltrazioni psichedeliche deliranti, un theremin mai così psicotico prima, ogni cristo di pezzo sembra partorito in un momento di lucida creatività mai più raggiungibile, come se in quel preciso momento le sfere celestiali e le loro palle si fossero congiunte su una linea retta cosmica, anche se non lesinano coi rumori/suoni e le distorsioni sembra tutto estremamente controllato e calibrato.

Solo White Jam se magna a colazione gran parte della produzione australiana e californiana contemporanea, se poi vai avanti è sconcertante la facilità con cui le idee scorrono fluide e sempre brillanti, fino alla deflagrazione finale: quei sette minuti e ghianda di Loose End che da due anni a questa parte il mio pezzo rock italiano preferito in assoluto.

Compratelo se potete, in digitale of course, ed amatelo fisicamente.

E dopo tutti ma prima di tutti: i For Food

Prima o poi anche di loro bisognava parlare.

Probabilmente preceduto da qualche EP che mi sono perso, i For Food hanno all’attivo un solo album uscito nel 2014 e composto da sette pezzi che provocano uno spaesamento totale. Agghiacciante ed estetica in modo malato la prima vera traccia, Love, Sex & Drugs, ci colpisce subito per una cifra stilistica unica e destabilizzante, qua mettersi a fare troppi discorsi attorno al genere diventa pericoloso ma purtroppo necessario.

Categorizzare in musica, in particolare negli studi musicologici più che nella critica la quale etichetta a caso un po’ tutto, serve a collocare nel tempo e nello spazio un dato fenomeno musicale e di solito aiuta a comprenderne tutte le unicità. Però con i For Food è davvero un macello. Insomma, con i Mirrorism l’etichetta post-punk gliela affibbi e per quanto gli possa stare stretta se la tengono e non devono rompere il cazzo, ma con i quest’altri ferraresi c’è da bruciarsi le sinapsi.

Cos’è una City Light? Io un nome l’avrei: capolavoro, di nuovo, ma non ci aiuta. Ci sono rimembranze delle sperimentazioni post punk e ovviamente art rock, ma addirittura possiamo cogliere echi di trip-hop e psichedelia che non riesce a scadere mai nel revival. Psichedelia Occulta forse? Mmm, non direi, siamo troppo lontani dalle influenze jazz degli Squadra Omega o da un certo misticismo misto a tribalismo di altre band, come anche dal prog di In Zaire, questi son di Ferrara mica di Torino!

È davvero un unicum questo “Don’t Believe In Time” e non soltanto per il nostro paese.

Giocano i For Food, ma sempre rimanendo fottutissimamente seri. Ci disorientano, ci buttano in un altro spazio e in un nuovo tempo, la melodia non solo c’è ma è l’elemento fondante di tutti i pezzi, anche se poi quasi la si dimentica nell’avvolgente tempesta sonora, mai satura però come nei complessi garage-sperimentali tipo i teramani Inutili.

L’attacco di Opium New Year potrebbe benissimo essere quello di una band indie rock americana per poi concludere con un riff genuinamente punk e la bellissima voce di (credo, perché non ho trovato moltissime informazioni) Agnese “Aggie Rye”, che spazia da Beth Gibbons a Exene Cervenka passando per Grace Slick come se nulla fosse, incantandomi ogni volta.

Punta di diamante la conclusiva La Petit Mort, un po’ Doors un po’ Jefferson Airplane nei primi istanti, per poi perdersi finalmente saturando, un vero e proprio orgasmo finora ritardato e che esplode su chitarre dapprima orientaleggianti poi shoegaze.

Un album di cui non dobbiamo sottovalutare l’influenza non solo sulla scena Ferrarese (che comunque li venera, giustamente) ma su tutto l’underground italiano.

Beh, che dire gente, questo è tutto, tornate pure a fare quello che stavate facendo. Alla prossima.

Ty Segall mi ha rotto il cazzo

Sinceramente Ty Segall mi ha rotto il cazzo.

E la questione non è semplicemente se “Emotional Mugger” sia o no un buon album, anche se lo è, cioè, è un album sufficiente e sicuramente più ispirato del precedente dove Il Biondo ha toccato il fondo dell’originalità. Non che da Ty Segall dovessimo aspettarci chissà quale miracolo musicale, come se il futuro del rock dipendesse da un riff in più, ma sta tutto in cosa dobbiamo oggettivamente valutare negli album di Segall e del rock californiano e derivati in generale.

Difficile per un critico (uno vero, non come me) valutare gli album dei vari Bass Drum of Death, Audacity, Monsieurs, Frowning Clouds, Blind Shake, Ausmuteants e compagnia urlante seguendo direttive strettamente musicologiche. Cazzo, è già tanto se ‘sti tipacci sanno accordarsi gli strumenti! Non puoi neanche basarti sul metro di giudizio per eccellenza delle rockzine come Mimetics, ovvero il punk attitude, perché gran parte di queste band secernono autenticità punk da ogni orifizio, o al contrario fanno un garage pop dalla melodia surf facilona o dal groove sixties per cui sono troppo presi dalla loro attitudine medio-alto borghese per sputare sul pubblico. (ma questo non è ancora un reato sufficiente per beccarsi un 3 in pagella)

Eppure ci sono degli elementi oggettivi che fanno sì che alcuni album siano meglio di altri. Ma per trovarli non basta ascoltarsi tutto né basta andare ai concerti, piuttosto bisogna applicare una mentalità critica inflessibile.

Se sei un fogato perso di garage rock non posso non consigliarti di ascoltarti le band che ho elencato sopra, ma se devo fare un sforzo critico devo anche dirti che non sono tutte uguali. So bene che i Frowning Clouds sono molto amati, ma valgono la metà dei fratelli Ausmuteants, perché i Clouds non si sforzano nemmeno di fare qualcosa di diverso dal revival sixties. Ciò vuol dire che fanno cagare? No, ma incide inevitabilmente sul giudizio complessivo sul loro lavoro.

I Bass Drum of Death sono una presa in giro, poi magari sono ragazzi incredibili, probabilmente sono anche dei compagni di bevute incredibili, potremmo anche dividerci le scopate occasionali mentre ascoltiamo gli Stooges o i Blue Cheer, ma porcodio quel garage rock super-canonizzato, vittima di se stesso e involontariamente parodiato dei loro tre album è roba da grattugie sulle gengive. Sequenze riff ritornello da manuale, melodie canticchiabili sotto la doccia, gli stessi discorsi triti e ritriti, magari tutto costruito alla perfezione, ma è interessante?

Perché chi si pone criticamente di fronte a qualcosa deve anche porsi la domanda: è interessante? Perché non si può scrivere di tutto, mi verrebbe da dire, ma anche perché in fondo sono le cose interessanti che rendono la vita qualcosa di diverso dalla morte. Uno spettacolo teatrale anche se amatoriale e messo in scena con due lire può proporre un’idea interessante e fuori da coro. Lo stesso vale per un film, per un’opera d’arte e via dicendo. Non bisogna necessariamente uscire dai binari per fare qualcosa di valido, anzi chi di solito esagera nell’originalità nel 99% dei casi propone immondizia intellettualizzata (avete mai letto Genna?), è invece interessante chi restando sui binari propone una diversa prospettiva per guardarli.

I Nun sono una band post-punk certamente, ma giocano su una combinazione strumentazione-liriche che ha qualcosa da dire nel suo genere, i Monsieurs in tutte le loro emanazioni in mezzo a tutto il garage indolcito dalla virata melodica della Burger Records sono l’unica band che ha un’attitudine da paura, i Pink Street Boys giocano con le influenze kraut dei Thee Oh Sees e le mescolano ai suoni avanguardistici dell’Islanda elettronica con risultati sorprendenti, i Running propongono una musica largamente inascoltabile ma che se contestualizzata è meno banale di quanto possa sembrare, G.Gordon Gritty produce deliri senza senso, ma che se ascoltati senza pensieri e senza la necessità di intellettualizzare ci ricordano come il rock sia anche necessità di esprimere qualcosa e basta, così come viene. Perché scrivere del nuovo album di Ty Segall, che non aggiunge ormai più niente al panorama garage e rock in generale quando ci sono cose molto più interessanti, anche se meno immediate?

“Emotional Mugger” è l’ennesimo tentativo di Segall di legittimarsi culturalmente, un salto in lungo in realtà, cominciato con un album sorprendente come “Twins” (2012) per poi perdersi in una ricerca estetica glam che non gli compete tecnicamente. In realtà siamo di fronte ad un ibrido tra il suo misconosciuto “San Francisco Rock Compilation or Food or Weird Beer From Microsoft” (2010) e l’ultimo successone “Manipulator” (2015), del primo prende la pseudo-sperimentazione rumoristica, abbastanza inutile quando non fastidiosa poiché non aggiunge niente alla musica né a degli eventuali concetti che comunque non ci sono, del secondo prende la piacioneria, cioè la voglia di incantarti con un riff old school e un po’ di dramma glam rock alla Ty Rex, il risultato è un album piacevole da ascoltare un paio di volte per poi essere dimenticato in fondo a qualche scatolone di cartone.

Forse ha ragione Claudio Lancia dei bravi Sexy Cool Audio, quando scrive sulla sua recensione di “Emotional Mugger” su OndaRock che se Segall pubblicasse meno roba all’anno e facesse una cernita ogni tanto i suoi album ne gioverebbero, ma in tutta sincerità credo Il Biondo sia un tipo che se costretto pubblicare massimo un album ogni due anni lo farebbe da 175 canzoni l’uno. Perché Segall ama la sua musica, o ama se stesso, o ama il suo cazzo, non lo so, però so che farebbe così, non butterebbe via niente. Cristo, ha fatto uscire persino i “bozzetti” acustici per “Twins” (“Gemini”, 2012) e quella merda fumante di “San Francisco Rock Compilation or Food or Weird Beer From Microsoft”. Però adesso basta.

Sinceramente Ty Segall mi ha rotto il cazzo. Però “Slaughterhouse” resta un bell’album.

(Sì: sono tornato.)