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Frank Zappa, Gang Of Four, Miss World

La faccio breve: in questi mesi ho avuto parecchi cazzi da pelare, per cui non rompetemi il gatto. «Vabbè, però avrai sicuramente ascoltato un po’ di musica!» Vero, però poco rock ’n roll, e sopratutto pochissima roba uscita di recente ma quasi ed esclusivamente riascolti di vecchi album. Potrei scrivere di Sage Francis, Thundercat, della Camerata Nordica o di Mahler, ma sono abbastanza sicuro che quello che ne verrebbe fuori sarebbero una cascata di banalità e stronzate colossali, e dato che per quello c’è già il Rolling Stone non vedo perché mi ci dovrei mettere pure io. Alla luce di tutto ciò vi lancio qualche brevissima istantanea (perché non sono recensioni) e due o tre riflessioni estemporanee, leggere come l’aria.

Frank Zappa - Apostrophe'Frank Zappa
Apostrophe
(1974)

Tra Settembre e Dicembre mi sono ripescato tutto lo Zappa dai “Lost Episode” targati 1959 fino a “Joe’s Garage” del ’79, in una sorta di delirio nostalgico per i tempi che furono quando al liceo scoprì questo pazzo baffuto. In un moto di rivalutazione sentimentale mi sono persino ritrovato ad apprezzare “Cruising with Ruben & The Jets”! Quasi mi stavo per sparare un album dei Climax Blues Band in questo clima riappacificatorio e dolciastro, e devo dire che stava andando tutto benone, ascoltando “Over-Nite Sensation” credo di aver avuto persino un’erezione durante l’assolo di Zomby Woof. Poi però è successo, di nuovo. La magia è scomparsa e tutt’un tratto Zappa mi è sembrato uno dei peggiori bastardi della storia del rock. Tutta colpa di quel pasticcio commerciale e ruffiano di “Apostrophe”.

La musica di Zappa dal 1974 si è trasformata da provocatoria a idiota con un colpo da maestro. Completamente rincretinito dalla sua stessa grandezza Zappa ha cominciato a riciclarsi e a spostare la sua attenzione verso la perfezione estetica dell’esecuzione, producendo una quantità incontenibile di musica fine a se stessa, caratterizzata  nei momenti migliori da lunghissime elucubrazioni elettriche, altrimenti ti toccavano oscene derive pseudo-sperimentali (“Francesco Zappa”), e in generale tutte le sue canzoni divennero metafore più o meno dirette su quanto ce l’avesse lungo.

Non è che tutto quello che sia uscito dopo il ’74 sia merda chiaramente, ci sono parecchi pezzi che si salvano dal generale appiattimento della produzione zappiana, ma sono monadi, brevi esternazioni di un genio un tempo incontenibile.

Anche nei suoi album meno riusciti prima di “Apostrophe” Zappa conservava comunque una fortissima coerenza concettuale, completamente mandata a puttane per favorire la catarsi delle live, lunghissimi flussi di coscienza che cominciavano e si concludevano nell’esaltazione delle sue doti di chitarrista. Riascoltare le soluzioni timbriche di “Hot Rats” complicate oltremodo in St. Alfonzo’s Pancake Breakfast e Father O’Blivion mi ha fatto tornare la colazione sù per l’esofago. Dopo aver parodizzato tutta la storia del rock Zappa ha fatto il giro e, senza rendersene conto, a cominciato a parodizzare se stesso.

trasferimentoGang Of Four
Entertainment!
(1979)

È incredibile quanti gruppi di merda debbano le loro migliori intuizioni a questo album. Di tutta la prima fondamentale ondata post-punk i Gang Of Four rappresentano il giusto equilibrio tra sperimentazione e ballabilità. Intellettuali ma funky, con riff catchy ma anche feedback lancinanti, pensate che negli anni ’80 venivano considerati un ascolto difficile, oggi invece sembrano i più fruibili di quella eccezionale sfornata di punkers intellettualoidi.

Anche loro come Pere Ubu, Throbbing Gristle, Young Marble Giants rispondevano ad una tensione collettiva verso l’apocalisse, perlopiù divisa tra chi ne faceva una battaglia politica e chi una sociale. Chiaramente i Gang Of Four non erano gli Scritti Politti, e così la loro rabbia generazionale si scagliò principalmente contro la musica commerciale.

Questa comune visione di un mondo allo sfascio, dove le industrie chiudono e il sogno capitalista sembra trasformarsi per molti in un incubo, aveva generato una serie di singoli nell’ambiente post-punk piuttosto espliciti. Gli Ubu avevano nel primo album un pezzo come Chinese Radiation, i Throbbing Gristle un singolo come Zyclon B Zombie, i rarefatti Young Marble Giants invece Final Days. In “Entertainment!” non c’è un pezzo corrispettivo  a quelli appena elencati, perché tutto l’album tende per sua natura verso una dimensione paranoica. Il prezioso corollario di immagini nelle liriche, cantate con fare un po’ altezzoso da Jon King, costruisce un mondo giovanile arido e pericolosamente apatico, chiuso all’interno di una discoteca senza porte in cui i Gang Of Four suonano a loop i loro pezzi.

In effetti la band sembra in trance per tutta la durata del disco, persino mentre la batteria di Hugo Burnham sembra in alcuni momenti riprendere il drumming nevrotico e claustrofobico di John French.

Incredibile la conclusione dell’album, tanto immensa e irraggiungibile da rendere ogni tentativo futuro della band di ripetersi a quei livelli puerile e futile. Due voci che si ignorano per poi trovarsi causalmente dopo una nebbia di effluvi elettrici, mentre la sezione ritmica martella come nei Neu!, sono la summa del lavoro di compressione e spigolatura del sound new wave proposto dalla band inglese. Anthrax è più una performance che una canzone vera e propria, potrebbe benissimo essere parte integrante di uno spettacolo di Roberto Latini e nessuno se ne stupirebbe nemmeno un po’.

a4037505322_10Miss World
Waist Management [EP]
(2017)

Non so nemmeno come l’ho scoperto questo Ep. Probabilmente cliccando a caso qua e là in un momento di noia – uno dei pochi concessomi in questi mesi. Ve lo dico chiaro e tondo: non esiste nessun motivo al mondo per cui dovreste ascoltare “Waist Management. Le canzoni sono banali, il garage pop che ci troverete è indietro di dieci anni in termini di freschezza, e di quattro canzoni una è un riempitivo bello e buono. Però, mi venissero le pustole nei condotti uditivi, è la cosa che ho più ascoltato da Settembre a Dicembre. Perché? Boh.

L’idea di base di Miss World è che lei è una ragazza incredibilmente gnocca, che vende la sua compagnia e il suo corpo per campare ogni giorno alla bell’e è meglio. In Buy Me Dinner giura d’innamorarsi di un tizio sposato se gli offrirà il pranzo, in Put Me In A Movie afferma che tutti i suoi amici vorrebbero metterla in un film (di che genere ve lo lascio intuire a voi), in Click And Yr Mine Miss World «fell in love in Internet» e non si rialza più. Lip Job, come avevo detto, è un riempitivo sulla fellatio.

Non so cosa sia successo, ma la storia di Miss World mi ha conquistato. Mi è anche venuta voglia di riascoltarla. Adesso.

PROSSIMAMENTE SU QUESTO BLOG:
1) Una recensione del primo storico flop dei Rolling Stones;
2) La tragica ed emotiva recensione del primo CD rock della mia vita: “Selling England By The Pound”.

(Tranquilli, le ho già scritte. Più o meno.)

Bo Loserr – Activation

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Etichetta: Bubca Records
Paese: Italia
Pubblicazione: 1 Ottobbre 2017

Ho già dovuto mettere il piumone. Avrei una voglia matta di whiskey e sono solo le 9:21 del mattino. Non ho un lavoro, ma quasi, quel quasi che un giorno è euforia e quello dopo paranoia. Tutti ottimi motivi per ascoltarsi dalla mattina alla sera le cinque tracce di “Activation” di Bo Loserr.

Qualche mese fa, colpito da un delirio ormonale, ho presentato alla radio ShitKid, una tipaccia svedese dalle sonorità garagiste-vaporwave, ma quello che forse stavo cercando non era il caldo abbraccio della nostalgia ma il freddo e asettico gusto di una drum machine. Bo Loserr ha una faccia da schiaffi, a vederlo sembra un ragazzino della suburba in fissa con King Krule senza alcuna voglia di alzarsi dal divano, eppure stranamente la sua musica racconta tutt’altro, senza che per questo mi faccia cagare. Anzi.

Il ritmo e il timbro quasi chiptune di Dads mi colse del tutto impreparato la prima volta che la ascoltai, dato che conoscendo l’etichetta pensavo fosse il solito punkettone sfatto in salsa garage. Le uscite della Bubca Records, volutamente fuori da ogni logica di ricerca intellettuale, sono sempre dannatamente intelligenti. Le stesse sensazioni di congelamento e paralisi adolescenziale (tipiche ormai fino ai 30 anni abbondanti) che caratterizzano una gemma del pop australiano come “Around the House” dei Chook Race, in questo breviario di Bo Loserr, che adesso scorre di sottofondo mentre scrivo, vengono esposte con una immediatezza che fa male.

«Everything feel alright without you.» Litiga col patrigno Bo Loserr, che lo sfida senza pudore: «You are a tough guy, ah? C’mon, show me how tough!» La musica si spezza, si apre un varco che Bo Loserr sa di non riuscire a descrivere tramite una composizione, ma vuole comunque mantenere quell’urgenza nel modo più chiaro e puntuale possibile. E così ci ritroviamo ad ascoltare uno pseudo-estratto da una lite, immerso nel rumore più sterile che abbiate mai sentito.

Registrato male, senza soluzione di continuità da un pezzo all’altro, questo strano EP sembra uscito fuori da una qualche oscura collezione in chissà quale cantina.

Dopo qualche giorno di ascolto serrato mi sparo anche un video, montato da quel bastardo di Tab_Ularasa (il testone dietro la Bubca Records e tanti altri progetti di cui abbiamo largamente discusso QUI), e non sono rimasto per nulla sorpreso che il pezzo scelto fosse proprio quell’Activation che dà il nome all’EP e da cui ho preso le citazioni sopra.

Il video è un ri-montaggio di un vecchio documentario della RAI ripescato da una VHS, probabilmente sull’antico Egitto o sugli scarabei. Tab seleziona alcune scene di vita di uno Scarabaeus sacer, l’insetto coprofago tanto caro agli antichi egizi, presentato nella sua banale quotidianità, dove si lotta tutti i giorni per un la propria merda, portandosela a giro e cumulandone sempre di più. Insomma, quella vecchia volpe di Tab vuole spingere proprio su questa interpretazione di Activation, sull’accumulo. Quello che ci definisce è anche tutta la merda che ci portiamo dietro senza però spargerla a giro, il carico di bagagli emotivi fatto però di odio, risentimento, litigi, sconforto. Verso la fine il video sembra che abbia le convulsioni, i micro movimenti avanti-indietro dell’ambiente denunciano una febbre sopita, un’energia nascosta, un sole imprigionato.

L’alcolismo adolescenziale, la funzione catartica della musica rock, il rifiuto della figura paterna: Bo Loserr ben lungi dal voler essere il cantore di una generazione, descrive il suo mondo, la sua piccola realtà, la sua microscopica fotografia di un atomo e degli elettroni che di girano attorno, con il piglio di uno che si alza tutte le mattine scavando.

Magic Cigarettes, Slift, Skeptics

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So di esser stato via per un po’ ma gli impegni reali, quelli che magari mi fanno persino campare, hanno avuto il sopravvento. Oggi vi propongo tre recensioni che non sono il MEGLIO di quello che ho ascoltato recentemente, ma semplicemente le uniche riflessioni che ero riuscito a buttar giù sul taccuino tra un treno e l’altro.

Dai dai dai.

Le Sigarette Magiche nella spirale della fattanza

Qualche secolo fa mi aveva scritto un componente dei Magic Cigarettes proponendomi l’ascolto del loro ultimo album, “Cooked Up Special”, ricordandomi della mia precedente stroncatura al loro esordio. Per dovere di cronaca: non ho mai stroncato “Magic Cigarettes”, semmai ne ho sottolineato le criticità. Vi va un riassuntino?

  1. I pezzi sono lunghi, ma senza particolari sviluppi che ne giustifichino i due o tre minuti in più di jam psichedelica.
  2. Non sono un fan del “pezzone”, cioè quella traccia che si staglia sulle altre e dirompe nel cervello stampandosi a fuoco, ma le Sigarette sembrava quasi che passassero il tempo a cercare quel riff, senza però riuscirci.
  3. Spesso i momenti più tecnici sono del tutto avulsi dal contesto.

Il tutto però in una cornice più che convincente, se vi piace il garage psichedelico.

Sinceramente preoccupato che “Cooked Up Special” non fosse dissimile dal suo fratellone, avevo già ampiamente sfiorato l’idea che la recensione non l’avrei mai scritta, perché non scrivo niente quando credo che non ci sia niente da dire. Ed invece siamo qua.

Il maggior pregio del lavoro d’esordio del 2015 qui permane, ovvero la commistione di più ambienti sonori e generi che impreziosiscono il percorso d’ascolto, stavolta esaltati dalla minor durata delle tracce. Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui ho creduto all’amore a prima vista, tipo nello strepitoso attacco scratch di Chill Out, o in quello garagista di Freak, che irrompe con una chitarra che ruggisce un electric-doo-wop alla Frights.

È chiaro persino ai sordi che le Sigarette, musicalmente parlando, sono sessualmente attratti dalla scena psych americana fatta di riverberi, raffinatezze sonore e fiumi di parole. Tipo i Growlers per intenderci. Effettivamente poco attratti dalla variante schiaffi-sul-muso-del-suono dei Thee Oh Sees, la loro fede si basa, più che sulle digressioni elettriche alla Barrett, sulla melodia. Se anche Rain Of Weed si presenta con quell’urletto acido che caratterizza John Dwyer e i suoi fantastici amici, ciò che segue è una canzone ballabile senza per forza rompersi una clavicola, senza insomma quei ritmi kraut indiavolati dei californiani, composta ed eseguita con eguale grazia, ma per ascoltatori diversi.

Chiaramente le Sigarette vogliono da parte del fruitore un ascolto più riflessivo, ma non per questo più ponderato. Il loro flusso non vuole frastornarti, ma piuttosto trascinarti dolcemente come la Crystal Ship dei Doors, giù negli abissi della fattanza. Può sembrare un paradosso che con dei pezzi più brevi si possa raggiungere più facilmente il risultato, ma se “lungo” è solo una scusa per dire “ganzo”, qualunque excursus diventa fine a se stesso e rompe la fluidità.

Per quanto mi riguarda non sono particolarmente preso da questo tipo di psichedelia, come per i Growlers le Sigarette per me sono troppo di tutto, riempiono lo spazio sonoro vivibile con sensibilità certamente, ma senza che la cosa susciti in me alcun ché se non un genuino interesse per la parte ingegneristica ed esecutiva.

Pezzi come Hunger Dance e Panc (una reminiscenza dei The Metopathics?) nella loro semplicità e idiozia quantomeno mi divertono e posso riascoltarle con piacere.

Sicuramente Cooked per le Sigarette rappresenta un passo avanti bello deciso, se in questo blog mettessi ancora i voti sarebbe un 7 su 10 pieno (il precedente un 6), ma non troverà la sua dimensione nella mia rete di ascolti. È come se dietro la magnifica copertina, la rilegatura preziosa e la forma elegante e forbita, non ci fossero poi dei concetti particolarmente interessanti.

Ci ascoltiamo un po’ di fantasy-garage? Ma anche no

Prodotti dalla Howlin Banana Records questa band di Toulouse è riuscita nell’intento di rovinarmi un perfetto weekend di birra-pizza-film della Troma, il tutto con il semplice ascolto del loro ultimo breve EP “Space Is The Key“.

L’hard-psych-garage degli Slift già subito dopo l’attacco al fulmicotone di Dominator aveva un che di già sentito, un olezzo di sudore ormai da quarantenne che ancora si veste con le magliette a righe, insomma ci stanno I SOLITI CAZZO DI THEE OH SEES. Ma stavolta siamo lontani dall’omaggio, perché qui siamo dalle parti del plagio più bieco.

Prendete i Oh Sees di Dwyer, metteteci un pizzico dei Fuzz col chitarrone di Moothart in bella vista, giusto una spolverata di Hawkwind ed eccovi servita una band dal grandissimo potenziale live, ma che è ontologicamente impossibilitata a scrivere qualcosa di originale.

Il pezzo forte di questo EP, la furibonda The Sword, dieci anni fa mi avrebbe esaltato come un tredicenne durante il suo primo sorso di birra con gli amici, oggi mi pare di averla già ascoltata cento volte prima ancora che cominci.

Ma la cosa che mi ha definitivamente rovinato ogni possibilità di godermi la mia double IPA Canediguerra è stato che gli Slift ci sanno fare eccome! Se i Fuzz sono una versione claudicante e a volte imbarazzante dei Blue Cheer, gli Slift sanno pienamente riprendere i fasti di band leggendarie come Cheer e Hawkwind, non compromettendone dunque le peculiarità tecniche, ma la loro musica è solo un misero copia-incolla, che non sperimenta ma al massimo assembla come con una costruzione Lego. O come un musicista vaporwave.

Le tensioni fantasy che stanno influenzando il genere (anche “Orc” dei Oh Sees la interpreta) è evidentemente arrivata anche in Francia. Il risultato, per ora, è decisamente dimenticabile.

Gli Skeptics nello spazio

Bart De Vraantijk dopo quattro-cinque anni di garagismo sixties derivativo ha deciso di cambiare rotta. Da queste parti ce ne siamo accorti tempo fa, quando l’ottima Frantic Records ha pubblicato lo split Skeptics/Prêcheur Loup, uno dei migliori split francesi degli ultimi anni.

È vero che questo primo LP omonimo non proponga poi chissà che, se non la piacevole sorpresa di ascoltare la creatura di De Vraantijk cambiare pelle come un serpente tropicale. Anche perché cos’ha di particolare una Skin of green? È un pezzo che potrebbe scrivere persino Sallusti per la sua banalità, EPPURE l’ascolto di questo album scorre in un modo davvero aggraziato.

La profonda conoscenza della band del garage sixties si sente dall’immediatezza dei riff e dalla semplicità della sezione ritmica, l’unica differenza sta nell’indirizzo cosmico che ha preso la chitarra di De Vraantijk. In pratica è come ascoltare la più banale delle surf-rock band che cerca di coverizzare qualcosa dei primi Black Mountain o dei soliti Hawkwind. Il risultato è… curioso.

Summa di tutto il lavoro i conclusivi 7 minuti di Zeeland, da ascoltare ad un volume decisamente problematico per il vostro condominio.

Davvero non so spiegarmi perché valga la pena di ascoltarsi un album che, nelle sue specificità, non rappresenta di certo un’uscita particolarmente originale né in alcun modo sperimentale. Eppure gli Skeptics nella loro immediatezza sono comunque diversi dal resto della scena garagista francese, che sebbene li accumuni delle volte una qual certa corrente estetica (penso alla psych cosmica che ha contaminato Volage, Anna, Madcaps, Baston, etc.) riesce comunque a non spersonalizzarli.

Un pezzo degli Skeptics lo riconoscono immediatamente, ed in questo marasma di uscite garagiste modaiole e sempre più svuotate di ogni necessità, non è una cosa che riesco a ignorare.

Supernova, ovvero sulle funzioni del video-clip nel 2017

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Ho riguardato questo video sei o sette volte da martedì, e ho ascoltato Supernova con lo schermo buio almeno altre quattro.

In questi giorni sto riconciliando molto del mio tempo con la musica, principalmente per gli impegni radiofonici che, a discapito persino di vere e proprie disgrazie, continuano e stanno riscuotendo un microscopico successo. Tab_ularasa è un musicista che dai tempi dello split con Muddy Mama Davis mi ero ripromesso di scoprire, e più vado a fondo e più definirlo “musicista” mi sembra una limitazione d’intenti inaccettabile.

Sui Centauri ho già scritto e detto tanto per quanto mi riguarda, una band che ha dalla sua un modo di interpretare il noise estremamente emotivo, quasi fragile, nel primo album fin troppo dispersivi e ripetitivi (anche se con dei picchi notevoli – Alpha Centauri A), nello split con i Dead Horses più incentrati. Personalmente li adoro, ma mi rendo conto che il loro approccio tende a cercare quasi una risonanza emotiva nell’ascoltatore, che se non la coglie ne rimane del tutto indifferente, quando non infastidito.

(Sì, siamo ancora nella premessa, ma adesso vi espongo il fulcro del discorso, cazzoni) Se c’è effettivamente un aspetto peculiare nella musica ai tempi di internet quello è il tempo. O almeno così credevo. Per me l’avvento dei formati digitali doveva annichilire i formati classici, i 7”, i 33 giri, le musicassette, i CD, per favorire formati sempre più “pesanti” ma di qualità, liberando gli artisti dalla necessità di pubblicare dischi che durino un tot, con il singolo che duri un tot, con il video che taglia il pezzo di un tot per renderlo più fruibile, e via dicendo. Il tempo ormai lo decidiamo noi, è la nostra merce di scambio e non più quella del media che deteneva tutto l’intrattenimento e lo elargiva rateizzato al fruitore. Ma a parte le mode revival e nostalgiche, a parte che ancora adesso il disco, l’album, la fa da padrone, c’è un elemento che mi ha fatto riflettere nuovamente.

Sabato scorso ero in Sicilia ad una festa di laurea, una roba che di solito eviterei come la birra analcolica evita me, ma si da il caso che il laureato in questione sia un mio grande amico, per cui prendo i biglietti da Pisa ed eccomi lì. Mi ritrovo ad un certo punto a parlare con un giovane musicista palermitano (22 anni), so che non ve ne frega niente per cui vado dritto al punto: ad un certo punto dice che fare i video per promuovere la propria musica è un retaggio del passato, una roba buona solo a prendere la polvere sugli scaffali. Non sono d’accordo. Il video-clip nell’era di YouTube fa MILIARDI di visualizzazioni, ben più di quanto potessero permettere canali tematici come MTV, e i numeri tendono ancora a salire, non a scendere. In molti casi si è persino raffinata la tecnica, raggiungendo sintesi estetiche deliziose, spesso più appaganti della musica che fa da contorno.

Ma se invece di fare video-clip i video dell’era di internet fossero un tutt’uno con la musica? Pensateci: tutti i nostri dispositivi sono ormai collegati ad uno schermo, è quasi impossibile avere un supporto per ascoltare musica che non ne abbia, a parte i classici stereo (ma anche lì…). Se si esautorasse il video dalle esigenze promozionali e diventasse compendio se non addirittura parte integrante del discorso musicale, sarebbe un’eresia?

Tab_ularasa con il video di Supernova mi ha effettivamente messo un po’ in crisi. Non mi piace intellettualizzare laddove non c’è nessuna urgenza di farlo, questo vorrei metterlo bene in chiaro adesso. È infatti inoppugnabile che riflettere su come la musica cambi in base ai formati di trasmissione della stessa sia fondamentale. Se RCA durante una ripartizione della produzione negli anni ’40 non avesse deciso che la Musica d’Arte andava stampata nei 33 giri e quella pop nei 45 non avrebbe dato il via all’infinita schiera di piccole etichette che furono il terreno fertile per la nascita del rock (aiutati anche dai bassi costi dei nastri magnetici tedeschi), inoltre il formato così breve portò i musicisti pop a rendere i loro pezzi più brevi e veloci. Il formato quindi non è solo un fattore, è IL fattore.

In questo momento per me ascoltare Supernova con il video (che sia su PC o smartphone poco importa) è un’esperienza diversa artisticamente che ascoltare il pezzo e basta, questo non perché la musica dei Centauri non sia efficace di per sé, Supernova è un pezzo davvero azzeccato, forte di un climax distopico davvero ben riuscito, merito di una conoscenza dei mezzi davvero superlativa, ma il video di Tab_ularasa ne completa il discorso senza stravolgerlo

Certo è che parlare d’arte farebbe rizzare anche i peli del culo a Tab, questo è poco ma sicuro, basta ascoltarsi la sua produzione da solista per carpire la sua idea al riguardo, ma per me è in torto marcio. Il suo modo diretto di esprimersi, sporcando il più possibile la comunicazione (proprio come è nella realtà), il suo sforzo “soggettivista” mi ricorda quello di G. Gordon Gritty, che elimina di fatto ogni velleità artistica ma che in realtà ci regala un nuovo punto di vista, che proprio nella sua soggettività pura e scarna è (stacce) una forma d’arte.

Quello che vediamo nel video in pratica è un documentario su una famiglia di giraffe, probabilmente in VHS, la materia di cui è fatto il supporto video è quasi tangibile per quanto è usurata, quel gusto un po’ retrò di certi video contemporanei (anche vaporwave) non è qui però presente. Per Tab_ularasa la materia e la sua percezione sono elementi fondamentali della sua estetica, basti dare un occhio ai suoi collage o alla splendida copertina dei Rawwar per rendersene conto. Quando si sente cantare «I’m an asshole» vediamo il maschio della giraffa sedurre la femmina con una buona dose di ignoranza animale, e il quadretto familiare successivo col figliolo grazie all’accompagnamento musicale sembra quasi quello della (im)perfetta famigliola di provincia, magari pure tossici. La tragedia che si dipana nel mezzo del video poi sembra quasi trasformarsi in un documentario su Forcella o sulla adolescenza in generale. La prima volta la percezione che ebbi guardandolo fu come se quelle giraffe fossero degli alieni, evoluti ed intelligenti come noi, ma troppo diversi per comprenderne la tecnologia e la saggezza, ma che alla fine dei conti si rivelassero identici nella sostanza, nell’amore, nella violenza, nel dolore, nella morte.

Ma probabilmente sono solo io, dovrei smetterla di leggere Queneau e Sartre appena sveglio diocristo.

Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall

E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.

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«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Rawwar, Thunder Bomber, Thee Oh Sees

Tre recensioni toste di roba che ho ascoltato di recente, avrei voluto mettere qualcosa in più ma è stata la settimana di merda per eccellenza.

RAWWAR – cassetta

Intanto c’è Tab_ularasa, il che ci piace. Poi ci sta Zulfux dei Dead Horses e dei mitici For Food, ci metti anche Doctor Dead del Trio Banana e il rischio di trovarti di fronte ad un album di soli rutti e scorregge diventa quasi una certezza. Ed invece questi tre simpaticoni decidono di fare la cosa più semplice del mondo: divertirsi assieme. Certo, di solito quando uno si diverte risulta anche allegro, invece per i Rawwar evidentemente passare del tempo assieme spassandosela equivale al produrre del garage blues maledettamente abrasivo.

Di solito nel punk così come per il fratellone garage si parla di rabbia in termini creativi, e quando pensi al garage blues se proprio non sei un depravato ti vengono subito in mente gli Oblivians e gli anni ’90. Direi che è normale, no? Ma in questo specifico caso, nelle tre canzoni cagate fuori da quello immagino essere stato un pomeriggio freddo e insipido, c’è più rancore che rabbia (e più noise che garage blues anni ’90).

Nelle liriche il tema del luogo in rapporto al soggetto (andare-muoversi-allontanare) non è affrontato con il piglio intellettualoide di certo punk (non sempre negativo eh, penso agli Alley Cats), questo è un punk senza anthem, un garage senza giri orecchiabili, potete percepire i Pussy Galore ma senza il loro tiro infernale, non c’è nemmeno una melodia trasognate alla Centauri, tre pezzi e nemmeno un accenno di piacevolezza. L’ho trovata una cosa profondamente bella.

Fra l’altro mi sono innamorato di Going South, c’è un riff che ricorda la furia micidiale degli Oblivians ma si perde in un mare di rumore asettico, un pezzo che deflagra per poi raggrumarsi come una ferita adolescenziale. 11/10

THUNDER BOMBER – LOOKING FOR TROUBLE

Al contrario dei loro amici Dots i Thunder Bomber fanno del tiro un espediente più hard rock. Ok, forse non mi sono espresso in italiano, volevo dire che laddove nei Dots c’è una vena quasi pornografica nel rapporto tra funky e punk, i Thunder Bombers sono più i Sonic’s Rendezvous Band senza l’ombra degli Mc5 addosso (molto meglio, eh?). L’energia che scaturisce da ogni singolo pezzo, a metà tra Rocket From The Crypt e Nashville Pussy,  rende “Looking For Trouble” un album decisamente da viaggio o da scazzo, ma che ho paura di dimenticare con la stessa facilità con cui passo da una pinta all’altra al pub.

Adesso cerco di fare mente locale, anche se in realtà arrivo da una settimana in cui mi sono scervellato all’inverosimile per una recensione de Il Girello (opera buffa della seconda metà del seicento), e anche perché Luca è stato gentile a contattarmi senza insultarmi come nel 90% delle mail che ricevo, e infine perché “Looking For Trouble” non è certo una merda, per cui vediamo se riesco a mettere in ordine i miei pensieri da bravo recensore provetto:

COSA MI PIACE Questa è facile, hanno un tiro micidiale, i pezzi anche se non sono particolarmente originali nella composizione mi sembrano molto schietti e con quella sincerità rock ’n’ roll alla Nashville Pussy che ogni ci vuole. Francamente non sopporto più l’heavy metal e l’hard rock da molti anni ormai, non che questo album sia heavy nel senso stretto della parola, però di solito queste sonorità mi fanno incazzare, stavolta no. Sarà perché invece di essere la solita band derivativa di Deep Purple o Led Zeppelin questi prima di tutto si divertono come i matti, e vaffanculo a tutto il resto.

COSA NON MI PIACE È un mio problema ragazzi, non sopporto più gli assoli. Sapete no quelli belli muscolari che arrivano telefonatissimi sulle tibie e ti spezzano le gambe? Mi sembrano eccessi steroidei da palestra, non ne posso più di sentire la solita struttura che si prepara ad ingravidarti senza consenso con l’onanismo del chitarrista di turno. Non ho niente contro il chitarrista dei Thunder Bomber, sia chiaro, va come le palle di fuoco come dicono nel Valdarno, per cui se vi piacciono le sbombardate siete sui lidi giusti. Io preferisco i Crime.

E con questo è tutto. Anzi no.

THEE OH SEES – A WEIRD EXIT

Eccoci al duemillesimo disco dei Thee Oh Sees, una band che in vent’anni (più o meno) ha azzeccato tre album che nel modestissimo avviso di questo blogger spaccano i culi e cagano in testa a qualsiasi stronzata in copertina su Rumore. Il resto della loro discografia… meh. Però dai, ci piazzano sempre qualche assolo alla Barrett, la sezione ritmica alla Cluster/Can/Faust, ma è dal 2013 che non fanno un album decente per il sottoscritto.

Sentite, non me ne frega un cazzo, le ultime robe di Dwyer sono davvero imbarazzanti, vi possono pure piacere per carità, anche perché la band sebbene i cambi di formazione dal vivo è una cosa splendida e lisergica, però “Drop”, lavoro incensato dalla critica e dai blogger hipsteroni è davvero un’accozzaglia di idee riciclate e laccate all’inverosimile. E anche quello dopo, com’era… ah, sì: “Mutilator bla bla bla”, originale come la Coca-Cola della Coop. Il vero problema della band è che l’ultimo cambio di formazione ha sputtanato la compattezza del sound e la sua forza distruttiva a 33 giri, e anche la creatività sembra scarseggiare.

E quindi “A Weird Exit”? Intanto diciamo che c’è ancora Tim Hellman dei mitici Sic Alps, che stavolta non fa la fighetta e pesta duro su quelle quattro corde, poi ci sta il buon Paul Quattrone (dei sopravvalutati !!! di Sacramento) e un tale Dan Rincon che assieme riesumano la sezione ritmica a doppia batteria, potente tanto quanto quella leggendaria di Lars Finberg e Mike Shoun. Ma al netto della potenza e di qualche cosina nuova “A Weird Exit” è solo un buon album e niente più, anche se rischiava di essere un capolavoro del calibro di “Carrion Crawler/The Dream”.

Gli accenni sabbathiani (Gelatinous), il loro garage psych delirante ormai marchio di fabbrica registrato (Dead Man’s Gun), è tutta roba già sentita negli album precedenti con poche variazioni, e questo fa incazzare. Ovviamente è roba buona, ci mancherebbe ragazzi, ma l’abbiamo già sentita nei quattromila album precedenti! I momenti migliori sono sicuramente i due pezzi più dilatati e sperimentali: Jammed Entrance e Crawl out from the Fall Out, una botta di vita che – devo essere sincero con voi, non mi aspettavo nemmeno per un cazzo. C’è persino l’influenza dei migliori Brian Jonestown Massacre nella finale The Axis, forse uno dei pezzi più affascinanti nella loro intera discografia. Però… non c’è troppo da dire in realtà.

Sembra che Dwyer si sia ormai normalizzato, tutti gli elementi che rendevano i Thee Oh Sees un gruppo unico nel panorama garage mondiale, tra i più seminali di sempre e con non pochi proseliti, ormai sono diventati rassicuranti tappeti sonori balsamici, accomodanti muri di suono privi di qualsivoglia necessità. Certo è che qualche guizzo quest’ultimo album ce l’ha, e anche di un certo capriccio ecco, per cui non vendiamo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

https://open.spotify.com/user/micolash90/playlist/47PY2PDY9uePxoJm34bqBI

Personal and the Pizzas, Gloria, Brace! Brace!, Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion!, Ty Segall

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Nessuna introduzione perché non ho tempo, sappiate però che dalla prossima settimana assieme ad un mio caro amico condurrò un programma radio (liberamente scaricabile su Mixcloud) e vi spareremo un sacco di musica bella. Ogni puntata sarà tematica, approfondiremo questioni e generi troppo spesso trattati con superficialità dalla critica rock, e vi proporremo sempre degli spunti nuovi e diversi dalla solita melma. Ovviamente linkerò ogni puntata qui sul blog, sennò tutta ‘sta marchetta va a farsi friggere.

E ora beccatevi ‘ste recensioni:

Personal and the Pizzas –       Raw Pie

Probabilmente avrete sentito parlare dell’ultimo album dei Personal and the Pizzas, considerato un gioiello da tutta la critica garagista e non solo. Ecco, io lo vorrei tanto quell’album, ma siccome al solito mi manca il dindirindero vi recensirò il loro esordio: “Raw Pie”, pubblicato dalla californiana 1-2-3-4 Go! Records nel 2010 dopo una buona sequenza di EP cominciata nel lontano 2008. Credetemi se vi dico che “Raw Pie” è uno dei migliori album di puro rock and roll usciti negli ultimi vent’anni.

Più sconclusionati e demenziali dei Memories ma cattivi e punk nell’anima, praticamente il sogno proibito di ogni garagista integralista. Appena lasciate la puntina posarsi delicatamente sul pezzo di plastica rotante parte a fuoco un anthem sulla pizza gusto Ramones (I Don’t Wanna Be No Personal Pizza) seguita da una Pepperoni Eyes che ricicla gli Stooges senza pietà, e a meno che non siate dei fan dei Rush in incognito il vostro sarà un amore a prima vista in piena regola. Pezzi come Brass Knuckles, Never Find Me, Pizza Army e la esilarante Nobody Makes My Girl Cry But Me sono compendi della miglior tradizione sporca, grezza e autentica rock.

E infatti le uniche dolenti sono quella prevedibilità che il genere propone nelle sue forme più puriste. Sebbene i Personal and the Pizzas spacchino come pochissime band al mondo nel garage caciarone (al loro livello penso a Andy Macbain in quando aggressività e attitude) il loro grande merito è solamente quello di fare un casino davvero godurioso, ma senza riuscire a costruire un discorso musicale alternativo o quantomeno con qualcosa di nuovo da dire, il che sicuramente è voluto al 100% ma ciò non toglie che con tutta questa focosa materia prima… beh, si poteva anche provare qualcosina di più. Non fraintendetemi, tutto quello che manca in quanto originalità compositiva i PATP ce lo mettono in personalità, caratterizzando ogni pezzo come solo loro riescono a fare.

Poi boh, parte I Can Read e cominci a spaccare tutto senza ragionare, lasciandoti trasportare dal rock and roll più spietato e godurioso da molti anni a questa parte, furia micidiale mescolata a melodie rockabilly. A volte effettivamente non serve altro, Compulvise Gamblers, Oblivians e Deadly Snakes ce lo ricordano bene.

Gloria – Gloria In Excelsis Stereo

Di “Gloria In Excelsis Stereo” ne hanno parlato persino in Italia, ovviamente bene. Io ho solo poche cosa da dire: ma in tutto il catalogo della Howlin Banana Records proprio ‘sta roba doveva sbancare il lunario?

Io non ho niente contro i Gloria, che seguivo da tempo, e credo che Beam Me Up sia un gran pezzo e un capolavoro di nostalgia, ma porca puttana è proprio pura nostalgia anni ’70 pressata e confezionata senza alcun ritegno, senti l’odore di canapa e le solite tre citazioni dall’Urlo di Ginsburg fuoriuscire dalle casse! Saranno anche groovy e tutto il resto, ma è tutta roba già ascoltata e riascoltata MILIARDI di volte, ma che cazzo aggiunge questo album a quelli dei Jefferson Airplane o similia proprio non si capisce.

Inoltre a parte Beam Me Up tutte le altre canzoni si svolgono senza alcuna personalità, un sistema di riciclo così perfezionato salverebbe il comune di Roma in poco più di 33 giri.

Piuttosto parliamo di…

Brace! Brace! – Controlled Weirdness

Sempre dalla parigina Howlin Banana Records eccovi i Brace! Brace! la creatura psych-pop di Thibault Picot, voce e chitarra di questa frizzante band francese. Nel 2014 avevano esordito prodotti dalla piccola e giovane Freemount Records di Clermont-Ferrand con un EP che tra i blog più sconosciuti aveva riscontrato un generale apprezzamento, e con questo “Controlled Weirdness” uscito qualche giorno fa alzano decisamente il tiro.

La band nasceva come una sorta di Sonic Youth weirdpop, costruendo melodie che esplodono in fuzz lisergici, sottolineate anche da una sezione ritmica piuttosto dinamica. Nel nuovo EP il bravo Picot questa volta lascia respirare i pezzi tra un rumore e l’altro, crea ambienti sonori che non sono messi lì per dire «senti là che suono figo eh», come buona parte delle band garage che si mettono a smanettare in stile Thurston Moore e Kim Gordon, infatti ogni suono vuole essere vettore espressivo ed è necessario alla canzone la quale non si sorreggerebbe solo con la melodia, tutto ciò in una maniera più raffinata e complessa che nei più “blasonati” White Fence e Jacco Gardner.

Molto convincente Slow la quale a tratti ricorda il primissimo Ty Segall quando ancora faceva divertire, contornata da una struttura solida e per nulla banale, tosta anche Underground che fin dall’inizio colpisce di fuzz senza però scadere nella solita macchietta seventies, tirando fuori qualche suono dalle console eighties, ritornelli beatlesiani che Jeffrey Novak si sogna, sempre con quella sensazione onirica del weirdpop americano.

Un EP efficace e con qualcosa dire, senza necessariamente giocare sulla leva del revival a tutti i costi.

Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion! – Boss Metal Zone

Ve li ricordate i BTDOAGS? Surf rock da Boston? La mia disamina sulla scena bostoniana? Niente eh? Bastardi.

Comunque sia questa band non mi ha mai convinto al 100%, insomma il surf rock lo adoro e in generale il loro è piuttosto ok ma gli è sempre mancato il tiro delle vecchie glorie come Ventures, Challengers, Shadows e via discorrendo.

Per il nuovo EP la band decide di ripetere il loro canone, surf rock a tinte horror, ma stavolta centrano in pieno il bersaglio con 4 tracce assassine che colpiscono senza pietà. Sebbene soffrano, a mio modestissimo avviso, di una eccessiva pesantezza in fase di produzione (con la stessa pochezza sonora dei Guantanamo Baywatch farebbero faville in studio) questa volta riescono a colmare le loro mancanze con una certa creatività compositiva. Grandissimi assoli alla Shadows, brevi ma apprezzatissime sferzate psychobilly e finalmente anche una sezione ritmica che non lascia un secondo di respiro. Non sarà un disco che ricorderete per tutta la vita, ma quantomeno avrete quattro tracce davvero toste da spararvi qualche volta in auto o per cazzeggio.

Ty Segall – Ty Segall

Il biondo che ha conquistato il mondo ha lasciato al garage due grandissimi album: “Twins” (2012) e “Slaughterhouse” (2012), un album garage pop più che discreto come “Goodbye Bread” (2011), e due feroci digressioni con “Reverse Shark Attack” (2009) e il primo dei Fuzz. Detto questo è un paio di anni di Ty ha decisamente scassato i coglioni.

Questo nuovo album omonimo con l’apporto del leggendario Steve Albini oltre a suonare decisamente posticcio nel suo rifarsi al suono lo-fi degli inizi (che fra l’altro non coincidono per niente con i suoi lavori migliori che vi ho sopra elencato) è semplicemente noioso come una puntata di Sanremo.

Discreta Talkin’, con quella malinconia acustica alla Gold On The Shore o “Sleeper” (2013) che lo caratterizza, al contrario dei tentativi più garagisti tutti dimenticabili. Sempre nell’ambito acustico mi risultano alquanto indigesti Orange Color Queen e Papers, con quel glam che Segall non riesce a spremere in tutta la sua carica espressiva, un difetto che lo perseguita fin da “Ty-Rex” (2011) anche se molti ritengono invece che il biondo sia uno degli ultimi glam-rocker degni di questo nome. Mah.

Gli spunti melodici sono i soliti, le digressioni strumentali come in Warm Hands (Freedom Returned) non aggiungono niente se non un senso di disagio e imbarazzo. Sebbene qualche idea interessante sembra proprio che come John Dwyer il californiano abbia finito le cartucce a disposizione ma continui a sparare a salve.