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Ween – The Pod

trasferimento

Etichetta: Chocodog Records
Paese: USA
Pubblicazione: 1991

Frank, give me a pork roll egg and cheese, if you please, with some gravy fries.
Sink into a greasy mega-weedge and I sneezed and it blew my mind.

Lettore, in uno slancio di propositività: «Scusa eh, sono passati 5 mesi dall’ultima recensione, manco un’introduzione per dirci che fine hai fatto, se continuerai a scrivere, facci magari un recap degli ultimi album che hai ascoltato, anche una lista del cazzo se non ti va di fare recensioni, insomma ‘ste cose qua ecco, un minimo d’introduzione.»
Recensore, mentre da fuoco alle bollette con l’ultimo goccio di scotch: «Fottiti.»

*Ahem* I Ween sono un duo formatosi a metà anni ’80, un progetto effimero e volgare che col passare del tempo è riuscito a crescere fino a ritagliarsi un posto privilegiato tra le cult band di tutto il mondo. I due schizzati dietro questa creatura sono Aaron Freeman e Mickey Melchiondo, meglio conosciuti dai disadattati tipo me con i nomi di Gene e Dean Ween, i due “fratelli” degeneri del rock.

Per i puristi il loro miglior album è lo sprezzante doppio d’esordio in studio: “GodWeenSatan: The Oneness” del 1990. Per gli intenditori invece è il loro sesto album, il più maturo e raffinato, “The Mollusk” del ‘97. Per chi scrive, cioè me *ammicca*, la gara al disco più fico della tua band preferita della settimana è venuta a noia verso la terza media, anche se ogni tanto non mi disdegno a farla fuori dal vaso, quantomeno per il gusto di provocare i lettori che cercano solo conferme e non opinioni diverse.

Il motivo però per cui voglio stimolarvi all’ascolto di questo turpiloquio musicale dal nome “The Pod”, seconda (s)fatica dei Ween, è perché di tutti gli album mai usciti nella storia del rock questo è uno dei pochi che riesce a coniugare libertà creativa, cazzeggio e dissacrazione alla fruibilità. Sebbene io abbia spesso letto e sentito che i primi album dei Ween siano un prodotto esclusivo per veri hardcore listener, gente abituata a fare colazione con pandistelle e “Twin Infinitives”, la verità è che probabilmente questi hanno ascoltato giusto due pezzi del primo album, mentre la puntina ha continuato a scorrere nei solchi dell’immaginazione.

“The Pod” sfida l’eclettismo di Zappa come i Tenacious D fanno con Satana nel loro film, ovvero senza alcuna speranza di averla vinta. Eppure lo fanno lo stesso e lo fanno con stile. 23 canzoni per 78 minuti di puro delirio demenziale sono un rischio che nessuno prima di loro si era mai preso, nemmeno Zappa, che comunque tramite la satira e il demenziale veicolava forme di contaminazione musicale che hanno fatto la fortuna del prog e del rock più sperimentale. I Ween invece sono i figli menomati di Half Japanese e Primus, bislacche creature che sanno riffare durissimo come i migliori Butthole Surfers (Frank) fino a creare atmosfere sixties malate e distorte all’inverosimile (Captain Fantasy), e non  posso che apprezzare enormemente il fatto che non s’atteggino da eruditi decostruzionisti prestati alla musica, elargitori di controcultura tra una protesta studentesca e un apericena. Per quanto strana e fuori dagli schemi la band è, banalmente, un’emanazione del suo contesto storico, non dissimile nelle influenze dai gruppi rock-pop che stavano sfondando su MTV, ma la loro libertà d’interpretazione di quei canoni li rende gli unici ad averli davvero superati.

I fratelli Ween sono peggio di Beavis & Butt-Head, adorano descriverti cose disgustose e grottesche nel dettaglio e guardati contorcere nauseato, figli di un’epoca che nella deformazione di TV e cultura pop fondava la propria cifra stilistica (pensate a film come Gummo di Korine o ad artisti come Matthew Barney), persino le copertine dei loro album dissacrano quelle di storici album rock impegnati, quasi a prendere le distanze da qualsiasi velleità intellettualoide (“The Pod” è chiaramente una parodia di “The Best of Leonard Cohen” del ‘75). Non vi accaldate lettori consapevoli, so bene che questa capacità di sgomentare tramite la rielaborazione di frammenti della cultura pop è stata elevata in quegli anni da tante altre band, i primi due esempi che mi vengono in mente sono Flaming Lips e Beck, anche loro considerati dei weird nell’ambito della musica mainstream. Detto ciò, faccio comunque fatica a ricordare un album di questa (chiamiamola) scena completo ed esaustivo come “The Pod”, c’è tutto il passato il presente e anche il futuro! Young Signorino dite che l’avrà ascoltata Molly? E i Black Mountain di “In The Future” non si sentono presi di mira in Don’t Sweat It? Se vuoi il noise punk eccoti servito con Strap on that jammypac! Ti piacciono gli anthem alla Gloria dei Them? Che ne dici di una versione alla Butthole Surfers con Laura? Vuoi le ballad? Ce ne sono due senza senso e con un tiro malatissimo: Alone e Moving Away. C’è anche un pezzo diviso in due parti (che poi avrà degli altri prosegui negli album successivi), The Stallion, che fa figo e tira il cazzo dei proggettari. Ci sono gli assoli per i nostalgici dei ’70, ci sono i coretti per quelli dei ’60, c’è tutto e non è mai uguale a se stesso!

Le influenze sono così tante che non sembrano nemmeno tali ma quasi intuizioni spontanee. Fa un certo effetto ascoltare pezzi come Pollo Asado, capace di mescolare Jad Fair a fenomeni indie a noi contemporanei come Mac DeMarco – sì, uno ci può sentire i Meat Puppets, ma certe timbriche non possono non far pensare alla moderna retromania. Ci sono cose assurde come l’attacco di Demon Sweat per il quale maniaci del suono come Bryan Ferry avrebbero dato un braccio. Insomma, è davvero un calderone pazzesco ‘sto “The Pod”, secondo doppio album della band dopo l’esordio, eppure mai dispersivo quanto coeso come un blocco di cemento. Gene e Dean all’epoca della registrazione in studio erano affetti da una mononucleosi che li aveva spompati, magari non è solo una suggestione che questa malattia così smaccatamente adolescenziale abbia modificato l’appeal generale, amalgamando tutte le canzoni in una melassa ipnotica e al contempo febbrile.

No, non è un disco faticoso “The Pod”, semmai è dannatamente divertente e necessario, fuori dallo schema del rocker tutto capelli e testosterone ma non per questo costretto a girovagare tra i generi “alti” per legittimarsi. Questo è il rock bello come mamma l’ha fatto: stupido, grezzo e volgare. Per tutti gli altri ci sono gli U2.

Podcast – Epifanie rock

Giudizi affrettati, oppure presunzione, sono tanti i motivi che ci portano a giudicare un album credendo di averci messo tutta l’attenzione necessaria, ed invece basterà riascoltarlo qualche anno dopo, magari di sottofondo ad un pub, per cambiare idea.

Una lista di otto artisti/band su cui per anni ho spalato merda addosso prima di rendermi conto di quanto fossi in torto.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Podcast – Il new garage oltre gli USA!

Oltre il new garage di Ty Segall e dei Thee Oh Sees c’è qualcosa? Dite la scena francese? Perché quella australiana no? E quella cyperpunk tedesca? E quella psych italiana? E quella weird-punk-sperimentale islandese? In questo episodio di Ubu Dance Party niente Coca-cola per i nostri radioascoltatori, ma i soliti schiaffi e ottima musica che ci compete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

The Buttertones, The Frights, Death Lens, The Prefab Messiahs, Rubber Eggs, Bodies That Matter

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Come quando la batteria ormai scarica dell’auto ti lascia in mezzo al nulla così le cose accadono nel mio quotidiano, con quella meravigliosa tempestività che, un’altra persona, trasformerebbe in un romanzo pieno di colpi di scena dove il lettore, incantato dalla mia suadente scrittura che come un serpente si muove a filo delle dune di sabbia, lascerebbe tramontare la ragione a favore della freneticità della lettura. Ma io sono pigro, per cui mi stappo una birra e tiro l’ennesimo bestemmione.

Come fare a sopportare tutte le batterie scariche che si accumulano sotto il letto, ormai quasi a contatto col soffitto? Ci vuole la cara vecchia musica, quella che mi fa sudare e incazzare in camera mia senza dover strozzare qualcuno, insomma, il sano e giusto rock di cui stiamo sempre qui a parlare!

E infatti gli album che vi propongo oggi non hanno alcun collegamento tra di loro, se non che sono quella sbobba che mi ha aiutato nei momenti più stressanti di queste settimane.

Le recensioni brevi non mi fanno impazzire, le faccio solo per un motivo: poco tempo. Mi piace sparlare di qualunque album, anche del più brutto, per sviscerarne ogni aspetto, dalla copertina spieghettata dal rivenditore che me l’ha imbustata, a quel suono opaco della post-produzione che fa figo ma copre le palesi mancanze tecniche, però a far andare quest’auto con il solo ausilio delle mie mani poggiate sul cofano, mentre le mie gambe spingono il peso del mio corpo contro di esso, sono rimasto un po’ a corto di fiato.

Beh, la birra è fredda al punto giusto, direi che possiamo iniziare.

The Buttertones – For the Head and For the Feet (2015)

Da Hollywood a Los Angeles, cinque ragazzi con le idee chiare e un sound che spacca in modo travolgente. C’è chi lo chiama “thriller-rock”, ma al vostro blogger preferito sembra più centrato come termine “drama-rock”, una commistione di indie, alternative, garage e quanto serva a creare un’atmosfera con una potenza narrativa palpabile.

Infatti anche se fossero strumentali i 4 pezzi che compongono questo EP avrebbero un carattere e una connotazione emotiva davvero cinematografica. All’inizio mal sopportavo quel piglio indie, sopratutto alla voce, ma continuavo a mandare Bad Girl perché, da una parte, le liriche erano stranamente piacevoli nella loro semplicità, e perché… quella musica ci stava cazzutamente bene, porcomondo!

Fu quasi inevitabile passare a She’s At Ease, molto in linea con la precedente, ma che succhia dal seno putrefatto di band nate già morte come i Franz Ferdinand e gli ignobili Strokes, pescandone i pochi buoni spunti subito sfruttati in quel sound così compatto e comunque pieno di sfaccettature.

L’attacco psychobilly di Jabber Jaw immediatamente trasformato dalla chitarra new-new wave in un meraviglioso riff alternative mette in luce i muscoli della band, nemmeno te ne accorgi che sono in cinque e che la sezione ritmica fa un lavoro perfetto e pulitissimo. Cristo, c’è un dannato flauto traverso e non da nemmeno fastidio in tutto questo tripudio gggggiovanile, è come se queste canzoni fossero state concepite-scritte-suonate-registrare al stesso tempo!

Giustamente deflagrante l’omaggio all’indimenticabile Ritchie Valens, una La Bamba festosa e veloce, zeppa di elettricità e scevra di ogni manierismo.

The Frights / Death Lens – DeathFrights Split EP (2014)

Uno Split questo molto atteso perché tra due band molto amate dal giovane pubblico underground californiano.

Anche stavolta siamo sul versante del drama-rock, un genere emergente che forse dovremmo iniziare a prendere sul serio, e sul quale certamente cercherò di farvi una sintesi nei mesi che seguiranno.

Sebbene il loro prossimo album sarà prodotto da Zac Carper dei FIDLAR (una band che sta riscuotendo molto successo, senza motivo apparente) i Frights hanno un retaggio musicale molto diverso dal resto della scena californiana, sì beh c’è il surf rock, ma anche un’anima scanzonata Do-wop anni ’50 che li tiene lontani dal solito retaggio garage-punk-DIY ormai talmente abusato da essere una parodia dei suoi stessi valori.

I Death Lens dal canto loro sono più punk e garage, una band californiana fino al midollo, con una grande capacità di mescolare melodia a rumore senza sembrare i Bass Drum of Death. Se ne fregano del lo-fi e già solo per questo Dio (aka Iggy Pop) dovrebbe salvarli dalla sofferenza eterna; che non si può fare garage senza suonare come una scoreggia vestita? E basta co ‘sto cristo di lo-fi, NON È FIGO, semplicemente non ci si capisce un cazzo!

Che dire di questo Split? Le due band sintetizzano le loro rispettive caratteristiche in un vero e proprio drama-rock, che forse trova i suoi momenti migliori quando si da spazio all’istrionica voce di Mikey Carnevale dei Frights.

Sei pezzi travolgenti, irriverenti, sarcastici, delle volte ha la meglio il surf-garage abrasivo (come nell’interludio strumentale Nights of Orlando) ma in generale quello che salta all’orecchio è un sound che ammicca espressivamente al cinema di serie B anni ’80, e lo fa senza sintetizzatori e facendo un casino della madonna. Mica male.

Questo drama-rock viene fuori sopratutto quando conducono i Frights, come in Kids e Just Call It Balls, ma anche in pezzi dove la sezione ritmica punk dei Death Lens è da fare la padrona (Rats e No Colt, No Johnny) il sound resta compatto come un mattone.

Come in ogni buon Split le sue band si scambiano due cover, i Frights scelgono Drag da“Trashed” (2013), che trasformano praticamente in una loro creatura, mentre i Death Lens si cimentano in una Wow, Ok, Cool resa incredibilmente cazzuta dalla band californiana.

Ciliegina sulla torta il gioiello acustico finale, She Makes Me Gay, un pezzo decisamente poco politically correct di rara bellezza, che dimostra che anche sul songwriting lineare queste due band hanno qualcosa da dire. Semplicemente geniali le liriche.

Un album che scorre leggero senza pretese, ma che nella sua apparente semplicità nasconde ingegno e arroganza, un buon mix per un EP rock.

The Prefab Messiahs – Keep Your Stupid Dreams Alive (2015)

Album garage psych di maniera, ma che all’appassionato può riservare qualche soddisfazione.

I The Prefab Messiahs non sono molto conosciuti, anche se sono del giro in quel di Worcester (Massachusetts) dai primissimi anni ’80, ma solo negli ultimi tempi il web li ha eletti a salvatori della patria garage, anche grazie alla solita Burger Records.

Il problema di questa band, per quanto mi riguarda, è che nella meravigliosa tavolozza di colori che ogni album esprime con chiarezza e una certa qualità tecnica, ci si assuefà facilmente.

Sarà che a me tutto il versante garage e psych più legato alle droghe mi annoia a morte, e che i Prefab ne siano un baluardo inestimabile un po’ mi indispone, però non è prevenzione la mia!

Pezzi come College Radio che mescolano Ramones e Electric Prunes sulla carta sono molto più interessanti che sparati dalle casse. Non c’è l’energia travolgente che suggerisce il tentativo di fare del ritornello un inno punk, e non c’è neanche lo spaesamento psichedelico, perché gli effetti e gli effettini sixties fanno un po’ ridere per la loro prevedibilità, rendendo il tutto caricaturale e ridondante.

Io capisco che i quattro siano gente in gamba con anche una cultura musicale notevole, con un sound ben costruito e una tecnica cristallina quanto vuoi, però se questi sono i padrini della Burger non c’è poi tanto da stupirsi se il garage californiano sta diventando tutto uguale.

Rubber Eggs – Bootleg at vintage market 26​/​09​/​15 (2015)

From Sicily with (a) Farfisa, rinati dalle ceneri degli Ipotonix, ennesima band post-rock che esaltata dalle sofisticatezze dei Radiohead tentava una strada già percorsa da molti in Italia (e che non ha fruttato di certo grandi soddisfazioni in termini musicali per noi ascoltatori) adesso si riscopre più garage, più sporca, più interessante.

Che sia a causa di una illuminazione ascoltando il sound retrò dei Calibro 35 o il deflagrante flusso di coscienza degli Inutili non si sa, comunque sia la band palermitana si tuffa nel garage rimescolando le carte del genere senza troppe remore.

Summer Hate si staglia tra il suono mastodontico e impastato dei Mind Garage (anche grazie al dialogo tra la chitarra piuttosto heavy di Giuseppe Taormina e i tasti doloranti del farfisa di Davide Orsi) e una chiara reminiscenza rock-italiano anni ’70, sopratutto nell’impostazione vocale dello stesso Orsi.

Non tardano però le vecchie cattive abitudini a venir fuori, nascoste tra il lento incalzare di Irrevelation, che comunque riesce a mescolare sapientemente indie (c’è un po’ di Raconteurs nel «uuuh-uuuh» quasi sussurrato a fine ritornello) e un certo post-rock nineties però sporco, sincero, c’è un songwriting banale e seccante forse, ma tutto sommato digeribile.

Sapore europeo, anzi, tedesco direi, nell’attacco heavy-stoner di Doom, curiosa via di mezzo tra Black Sabbath, Fuzz, Kadavar, Alice In Chains e qualcosa che colgo ma che la birra non mi aiuta a mettere a fuoco, cinque minuti che la band sa tenere fino all’ultimo secondo.

Dello stesso piglio Illusion, ma molto meno riuscita, troppo caricaturale di un certo heavy-metal teutonico già bellamente superato dal doom metal, un genere che dagli ultimi anni ’90 ad oggi ha assimilato stoner, heavy, sludge e ambient, creando una della scene più fertili di questi anni (tra le band più rappresentative ci sono anche i nostrani Ufomammut).

Ma a parte questa caduta di stile l’EP si sorregge beneCheeze For My Rat è un bel garage strumentale, Revenge of Mother Earth sembra un po’ uscita fuori da “Attack & Release” dei Black Keys ma non sfigura nel complesso, non mancano di coraggio i Rubber Eggs, che alla faccia del DIY e del retaggio punk, buttano nel calderone garage indie rock e alternative italiano e a tratti riuscendoci molto bene.

Bodies That Matter – Glorify! Glorify! Glorify! (2015)

Non è dicerto il miglior album noise che abbia mai ascoltato, ma questo lavoro dei Bodies That Matter mi ha accompagnato assieme a “New Picnic Time” dei Pere Ubu nei miei ritorni notturni in treno. Solo, per interi vagoni, appoggiandomi alla mia spalla riflessa sul vetro, stremato, l’auto con la batteria scarica parcheggiata malamente fuori dalla stazione, il ritmo dolce ed etereo di “Glorify! Glorify! Glorify!” nelle orecchie, i pensieri accuratamente inscatolati nello zaino nel sedile accanto al mio, sale cullandomi il calore del sonno mentre il treno mi riporta a casa.

WTF-did-I-just-read

Sto solo tentando di dare una narrazione alla critica, di elevarla come fanno i critici pagati di Blow Up e Rumore! Non è mica una scusa perché sono stanco di scrivere e voglio spararmi una sessione 12h-no-stop su Bloodborne! A voi una cosa del genere non la farei mai… assolutamente… ma neanche per sogno… ma vi pare…

The Night Marchers – Allez! Allez!

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Se conoscete John Reis (Rocket From The Crypt, Drive Like Jehu e tanto altro) allora potreste avvicinarvi ai The Night Marchers con una certa facilità.

Nel caso in sui le suddette band non vi dicessero niente… ma in che pianeta avete vissuto finora?

Dai, scherzi a parte (odio i talebani dell’onniscienza rock, sapere tutto senza capire un cazzo) Rocket e Drive fanno parte dell’ondata alternative degli anni ’90, ma con grosse differenze nel sound, per i Rocket legatissimo al garage e al proto-punk degli anni’60, mentre i Drive sono molto legati all’hardcore.

È chiaro pure ad un sordo che i Night Marchers sono il risultato di queste due esperienze collegate dalla figura del chitarrista cantante della band: John Reis.

Questo è il loro secondo album, ma il primo “See You In Magic” (2008) non l’ho ancora ascoltato, so solo che è stato ben accolto dalla critica (e quando mai). Leggendo qualche rivista mi sono saltati all’occhio di nuovo con il secondo “Allez! Allez!” (2013) e date le recensioni anche stavolta positive mi sono mosso per acquistarlo una settimana fa.

Messo sù la prima volta non mi disse un granché.
Lo ascoltai, lo riascoltai e lo ascoltai ancora, per giorni e giorni.

Mi sa che siamo di fronte ad uno di quei casi dove tra te e il musicista ci sono troppe differenze, una sensibilità magari troppo diversa. Forse, e ci sta, è anche il momento sbagliato. Mi è capitato spesso di approcciarmi ad album che ho amato fin dal primo ascolto per poi rivalutarli anche molto in negativo qualche mese o anno dopo, come mi è capitato altrettanto spesso pure il contrario.

Il problema di “Allez! Allez!” è che è un disco ben suonato e strutturato, ma senza niente da dire (o quantomeno da dirmi)!

L’unione delle due esperienze passate di Reis non è nostalgica, c’è anche da parte sua una rielaborazione consapevole di cosa passa di questi tempi, ma manca l’energia.

Cattivi, ok, ci sono quei due-tre riffoni che te la alzano al primo ascolto (2 Guitars Sing, Big In Germany, Fisting the Fan Base, All Hits) ma manca l’energia infernale del rock.

Il problema che riscontro sempre negli album belli di musicisti che hanno fatto la storia, ma che adolescenti non sono più, è sempre lo stesso: grande controllo, saggezza rock a palate, ma neanche l’ombra di quella forza che ti fa saltare dalla sedia e ti porta in qualche modo a spaccare tutto quello che ti trovi di fronte.

Un esempio di quello che dico è chiaro in Roll On, bel riff, bella evoluzione del pezzo (senza strafare, anzi), registrato come si deve, ma è tutto così controllato da sembrare inevitabilmente posticcio. Già meglio in Fisting the Fan Base (fra l’altro è il pezzo che conclude l’album…).

I The Night Marchers fanno un bel compitino rock, un acquisto per appassionati del garage in tinta alternative e con qualche strizzatina pop come in (Wasting Away in) Javalinaville, ma manca la passione primordiale che lo rende un album da acquisto sicuro.

Lo consiglio solamente a chi ama a dismisura Rocket From The Crypt, Pitchfork e Drive Like Jehu.

Peccato, pensavo meglio.

  • Pro: se vi piacciono le band fin qui citate l’acquisto ve lo consiglio, il sound è quello, e Reis sa bene che corde toccare.
  • Contro: mancano le palle infuocate, la sana rabbia rock.
  • Pezzo consigliato: Loud Dumb and Mean. Spacca abbastanza.
  • Voto: 5/10

Minutemen – Double Nickels On The Dime

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Dopo il punk dannato e maledetto dei The Alley Cats, e quello beach e arrabbiato degli X, concludiamo questa brevissima e personalissima trilogia del punk californiano made in eighties con un disco che non è un disco, ma è il massimo risultato del punk come genere musicale.

Legati indissolubilmente al punk antagonista dell’hardcore anti-reaganiano, il loro sound è la geniale commistione di intuizioni musicali che spaziano dai Van Halen ai Bad Brains, dai Meat Puppets ai Hüsker Dü, fondendo jazz, funk e reggae il tutto nell’arco di canzoni brevissime ma sempre compiute.

I Minutemen sono stati una grande rock band, almeno fino al 1984.

Un trio di ottimi esecutori, dal compianto D. Boon (voce e chitarra: e che voce e che cazzo di chitarra!) al veloce ma dannatamente preciso George Hurley (batterista e talvolta voce), fino a Mike Watt, un bassista che è più un mito che un uomo, ma che adesso segue Iggy Pop nella sua inutile riesumazione di un furore punk leggermente anacronistico.

Dopo due ottimi album, “The Punch Line” (1981) e “What Makes a Man Start Fires?” (1983) i Minutemen hanno come una sorta di divinazione.

Non si sa bene come cazzo sia potuto succedere, insomma, fino a un anno prima questi tre facevano soltanto della buona musica, dichiaratamente democratici e incazzati fino al midollo con le politiche repressive e la mentalità da cavernicolo di Reagan, una band hardcore da rispettare e onorare, ma nel 1984 decisero, inconsciamente, di cambiare la storia del rock.

Se le vendite esaltavano l’ennesimo disco copia-incolla dei Queen, “The Work”, arrivato al successo grazie al singolo Radio Ga Ga (che già dal titolo fa intuire la profondità culturale e musicologica intrinseca), nessuno poteva di certo aspettarsi il successo che arriderà a questo trio hardcore.

Double Nickels On The Dimeè stato un terremoto che ha scosso le fondamenta di tutto il rock autentico. Le 45 tracce che compongono l’originale LP del 1984 sono l’esempio lampante di come delle volte il genio si manifesti senza preavviso, e di come il rock possa anche innalzarsi dalle sue chitarre suonate alla meno peggio e diventare Musica.

Un album di questa caratura va considerato da almeno tre punti di vista:

  • quello musicale
  • quello letterario
  • quello storico

In generale per fare una buona critica a qualsiasi album i tre punti sopra elencati vanno presi sempre in considerazione, ma il terzo album dei Minutemen è uno di quei rarissimi casi in cui la rivoluzione comprende tutti e tre i punti.

Musicalmente D. Boon, Watt e Hurley spingono al massimo l’acceleratore, velocizzandosi e raffinandosi ancora di più. È straordinario constatare con quale facilità la band abbia fuso tutte le maggiori intuizioni degli anni ’80 e ’70, guardando all’avant-garde come ai più materiali Black Flag, riuscendo allo stesso tempo a non ripetersi mai in 45 tracce. Il sound complessivo ne esce incredibilmente compatto, creando nell’arco di una ottantina di minuti un’esperienza unica e irripetibile.

La musica, sebbene tecnicamente tutto tranne che scontata, è anche fruibile. Al contrario di un rock destrutturato, come quello reso celebre da Captain Beefheart, o a esempi di estremismo come nel bellissimo “Right Now!” (1987) dei Pussy Galore, i Minutemen riescono a distruggere ed estremizzare senza sodomizzare l’ascoltatore, il che è innegabilmente un pregio.

A livello letterario siamo di fronte ad una sintesi della storia del linguaggio punk-rock. Dagli inni pacifisti all’introspezione indie, dalla poesia di Patti Smith al linguaggio volgare e irriverente dell’hardcore, Double Nickels è un compendio irrinunciabile per studiare il linguaggio sociale del rock, le liriche che parlano allo stomaco senza dimenticarsi del cervello, la perfetta simbiosi tra ritmo, melodia e rumore assieme al testo.

Per la storia della musica siamo invece di fronte ad un lavoro inarrivabile, un punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere la carriera del rocker. Non solo Double Nickels si fa rappresentante musicale e sociale di un intero movimento, riuscendo al contempo a superarlo concettualmente, ma è anche un punto di incontro musicologico di altissimo livello che merita l’attenzione degli studiosi oltre che dei rimasti con le magliette dei Ramones tipo me.

Ammetto che sarebbe stimolante recensire pezzo per pezzo questo album, valutando con attenzione tutti gli spunti e le idee buttate all’interno di questo calderone infernale. Vi dico solo che comincia con l’accensione dell’auto di D. Boone, l’invito ad entrare in un viaggio modesto con tre amici punk che girano l’America tra concerti e avventure, che ne vedono e ne sentono di tutte, che te le raccontano spassionati tra una cerveza e l’altra, con i quali puoi scherzare, vomitare e magari confessarti, puoi dividerci una pizza o magari anche una ragazza, e che quando li lascerai andare via all’orizzonte non saprai mai dove e quando te li potresti ritrovare davanti.

Voto: 9,5/10.

A Toys Orchestra – Midnight Talks

…a toys orchestra

Di band in Italia più che meritevoli c’è ne sono in quantità, è trovarle il casino. Se sei fortunato riesci ad ascoltarle alla sagra del tartufo, se hai i giusti contatti magari te li spari nelle orecchie direttamente dal loro blog o su SoundCloud, ma di certo non ne sentirai parlare in radio o in TV, e la critica musicale nostrane un po’ per pregiudizio un po’ per fatica li rilega agli articolisti di seconda mano, con recensioni di trenta o sessanta parole in tutto.

Fino a dieci anni fa era tutto un po’ più semplice, e band come i Verdena, i Linea 77 e i Subsonica raggiunsero una notorietà eccezionale considerando la cultura musicale media in Italia (senza scomodare i Bluvertigo, i Tre Allegri Ragazzi Morti e così via), ma era comunque un’ondata commerciale (per dirla come un quattordicenne nel forum di Ondarock). Oggi nel marasma di internet se ti autoproduci e difficile finire nelle prime pagine di Google.

Gli a Toys Orchestra sono una delle realtà musicali più interessanti, a livello mondiale. E non sto esagerando, anche se è facile pensarlo perché… beh, perché sono italiani, dico bene? La band capitanata da Enzo Moretto sta facendo grande musica, e la fa più o meno da quando sono nati. Non sconvolgetevi, niente di trascendentale, il loro è un ottimo pop rock senza pretese, scanzonato e romantico e dal retrogusto amarognolo della scena indie, ma comunque mille volte meglio di certo brit pop che imperversa in tutte le riviste “rock” di questi tempi.

Gli a Toys Orchestra si formano nel 1998 e dopo una gavetta tosta nel 2001 pubblicano il loro esordio discografico. Quando si parla di “Job” (2001) si parla spesso, troppo spesso, di indie rock. Di certo la prima comunità musicale ad apprezzare la band campana fu proprio quella indie, ma da loro a band come i The Underground Youth o i Yeah Yeah Yeahs ci passa il mare. C’è l’indie, come ci sono gli Smiths, i Radiohead e tanto altro, c’è anche la musica italiana pop con le sue melodie agrodolci. In “Job” l’anima e il sound della band sono intuibili, anche se ancora non nella condizione di poter uscire fuori con tutta la loro complessità. L’album non è di certo un exploit, ma lascia intravedere qualche qualità.

Nel 2004 grazie ad una etichetta fiorentina specializzata in indie rock (che poterà ancora di più a categorizzare la band nella ristretta cerchia dell’indie), la Urtovox, possono pubblicare “Cuckoo Boohoo“. L’album è un gran passo avanti in confronto a “Job”, una maturazione forse inaspettata. La complessità musicale viene sottovalutata praticamente da qualsiasi recensore o critico italiano, il quale di certo si rende conto di essere di fronte ad un lavoro ben al di sopra della media, ma allunga comunque le mani. Eppure “Cuckoo Boohoo” per quanto non un capolavoro, è un album forte della sua umiltà e leggerezza. Grazie ad un fortunato singolo Peter Pan Syndrome molte porte cominceranno ad aprirsi per la band. Sono diversi i pezzi orecchiabili, da Hengie: Queen Of The Border Line (con tanto di citazione a Angie dei Rolling Stones) a Elephant Man e Asteroid, le idee melodiche sono anche il nucleo attorno al quale le canzoni girano, senza mai prendersi il lusso di cercare qualcos’altro.

Il terzo disco degli a Toys Orchestra esce soltanto nel 2007, ed è finora di gran lunga il loro migliore: “Technicolor Dreams”. Le voci di Enzo e di Ilaria D’Angelis si amalgamo in cori melanconici, il ritmo a tratti diventa leggermente più frenetico e nervoso del lavoro precedente. L’eleganza, dettata da una asciuttezza del suono ben calibrata, tende a deflagrare in alcune tracce in barocchismi totali che lasciano stupefatti. Il diverso approccio è evidente in Panic Attack #3, continuo ideale di Panic Attack #1 e Panic Attack #2  nel disco del 2004, sebbene l’urgenza di non staccarsi dal discorso melodico si cerca di sfruttare distorsioni e mezzi elettronici per sostenere il crescendo della canzone. I testi, anche se fin qui non ne avevo parlato, sono uno dei punti forti della band, ed in questo disco trovano una evoluzione poetica non indifferente anche se ancora lontani dall’unione tematica ideale nel quarto disco (che è quello che mi appresto a recensire), poi purtroppo persa nel quinto “Midnight (R)Evolution” (che affronta malamente tematiche sociali, ma senza la poesia e lo stile decadente che di solito caratterizzano la produzione lirica della band). L’inserimento di elementi derivanti dell’elettronica è perfettamente gestito. Notevole Technicolor Dreams, finita insieme ad altre canzoni del gruppo nel bruttissimo film Remeber The Daze ; l’album secondo me presenta meno tracce eccellenti del precedente, ma acquista una maggiore armonia tra i pezzi risultando un lavoro perfettamente omogeneo.

Dopo una collaborazione con una influente realtà musicale italiana, gli Afterhours, e qualche altra collaborazione cinematografica di pessimo gusto, arriva il 2010, e con lui “Midnight Talks”.

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Quando l’album uscì lo comprai sulla fiducia, convinto che il gruppo valesse venti euro senza neanche la prova d’ascolto (cosa che mi rimangerò con il disco successivo).

La copertina mi fece un po’ effetto e la cosa mi piacque.

Mentre metto il cd nello stereo guardo meglio la confezione, ‘na roba da stereotipo indie-a-bestia (la Urtovox non si fa riconoscere insomma). Mi ricorda un po’ quella di “Requiem” dei Verdena, e fa saltare in mente anche quella ancora più scarna di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” degli Arctic Monkeys.

Il disco inizia con Sunny Days e la prima cosa che subito l’orecchio nota è la profondità. Il suono del piano è molto più caldo che nei lavori precedenti, la produzione mette in scena le migliori qualità della band così come i suoi limiti ma finalmente con una cornice da produzione pop che più gli si confà. Dopo a mala pena due minuti il pezzo accelera di punto in bianco, si passa a Red Alert così, senza aver il tempo di orientarsi i Toys mostrano come la loro abilità compositiva si sia raffinata così come il desiderio di dare una certa forza narrativa all’album.

Mystical Mistake si apre con un attacco decisamente più rock che pop, ripetitiva ma orecchiabile.

The Day Of The Bluff ci calma e ci fa riflettere. Il disco racconta di quelle personalità che si aggirano la notte, tenta di comunicarci l’incomunicabilità della società contemporanea; la difficoltà di una reale comunicazione sfocia nella depressione, nelle perversioni, nella malinconia (Mark Fisher intensifies).

Celentano è un tributo al vecchio Adriano, decisamente dimenticabile.

Plastic Romance e Plastic Romance (part Two) sono l’apice di questo album.  La prima parte è a ritmo di marcia, una marcia vittoriosa che che però stride con la tragica storia di un amore impossibile e perverso tra un ragazzo e una bambola di plastica. Nella seconda parte la ferocia collassa nella melanconia pop.

Pills On My Bill è una ballad di tutto rispetto, mica quella schifezza di Haunted dei Deep Purple recentemente recensita (ho ancora i conati di vomito). Anche la parte orchestrale risulta assai meno tamarra del previsto (si sa come va a finire di solito con le ballad).

Frankie Pyroman è il secondo diretto sulla stomaco dopo Mystical Mistake. Stavolta però la sezione ritmica si sposa in modo particolarmente pregiato con la melodia, producendosi in un groove rock ben confezionato per quanto prevedibile.

Backbone Blues è il modo di fare blues della band. Passabile.

Look In Your Eyes scopre subito le carte con una linea melodica che ci ricorda tantissimo le cose migliori sentite in “Cuckoo Boohoo”. L’evoluzione tecnica e di produzione permette però ai Toys di fare l’ennesimo salto di qualità.

Con Summer non ci stupiamo più della qualità nella ricercatezza di un sound pulito ma non freddo. La pecca maggiore di Summer è la sua lunghezza, il pezzo è semplice, perché annacquarlo inutilmente con almeno un minuto abbondantemente in più?

The Golden Calf è la traccia che ha meno da dire di tutto il disco.Un riempitivo di cui non se ne sentiva il bisogno e che allunga il brodo inutilmente.

Somebody Else è un finale banale ma efficace. Riassume deliziosamente la poetica di questo album, travolge nella sua malinconia per poi esplodere nel suo grido di disperazione finale, evoluzione definitiva da quello isterico di Panic Attack, ora gli a Toys Orchestra sanno a chi urlare, ed è proprio a noi che è indirizzato quell’urlo di meravigliosa angoscia.

Non recensirò “Midnight (R)Evolution” il disco uscito sull’onda di “Midnight Talks”, perché è il risultato di una triste operazione commerciale. Ci sono degli spunti interessanti ma non è un lavoro ben ponderato come di solito è quello dei Toys.

  • Pro: un pop rock meno banale del solito.
  • Contro: gli a Toys Orchestra sono una band esageratemente caratterizzata, ed è possibile che il sound non vi piaccia per niente inficiando così ogni ascolto futuro.
  • Pezzo Consigliato: come per “Superunknown” qualche recensione fa, non posso che consigliarvi di ascoltarvi tutto il disco tutto d’un fiato.
  • Voto: 6,5/10

I Muse copiano i Radiohead

La questione “i Muse copiano i Radiohead” è una delle poche diatribe degli ultimi anni ad aver resistito all’ossidazione.

A nessuno gliene frega più niente dei paragoni allucinanti tra Beatles e Oasis, o della rivalità tra quest’ultimi e i The Verve, gran parte delle inimicizie che hanno segnato confini invalicabili nei gusti di molti sono andate perdute, anche le più storiche ormai al di sopra delle possibilità dei protagonisti stessi, vedi quella tra Peter Gabriel e Phil Collins (di cui un giorno ci occuperemo, probabilmente con sei o otto post) o la Storia Infinita tra Roger Waters e il resto dei Pink Floyd (leggasi anche: David Gilmour).

Quello che accomuna prima di tutto Muse e Radiohead è che sono due gruppi ancora super-attivi e che sono entrambi amatissimi.

Ma i Muse copiano i Radiohead?
Secondo me no, ed è anche semplice capire il perché.

I disco che fu per primo incriminato fu chiaramente “Showbiz” dei Muse, disco d’esordio del 1999, bollato come copia-incolla del ben più famoso “The Bends” dei Radiohead del 1995, uscito la bellezza di quattro anni prima.

Che un gruppo degli anni ’90, giovane, con ottimi gusti musicali, ascoltasse e assimilasse i Radiohead ci può stare. Definire però “Showbiz” solo alla luce di questo sarebbe riduttivo, oppure sarebbe addirittura un errore di sopravvalutazione del prodotto. Riduttivo perché di tutto si può incolpare la band di Bellamy tranne che di spudorata copia! Le influenze che caratterizzano “Showbiz”, come tutte quelle che caratterizzano i dischi d’esordio, sono figlie del loro tempo, i rimandi a tutto il rock alternativo sono tanti, di certo non aiuta la voce di Bellamy stesso (simile a quella di Yorke) ma non credo si sia fatto operare le corde vocali per entrare in una cover band dei Radiohead. La sopravvalutazione scatta nel momento in cui ci rendiamo conto che “The Bends” è un lavoro dove i Radiohead dimostrano di aver già le idee molto chiare, al contrario “Showbiz” è un album ancora pieno di ingenuità.

È davvero difficile trovare dischi d’esordio senza impronte musicali derivate direttamente dai gusti della band, compreso il disco d’esordio dei Radiohead: “Pablo Honey”. In questo album i Radiohead affrontano tanta roba alternativa, gli Smiths, i Talking Heads, addirittura gli U2, e se qualcuno suggerisce pure i Krafwerk non deve certo vergognarsi. Non solo le influenze ci sono ma sopratutto si sentono! La differenza è che i Radiohead sì sono sensibili ai movimenti alternativi e anche al grunge, ma protendono inconsapevolmente verso lo sperimentalismo, anche se mai a livelli memorabili, che può essere sia sviluppo che negazione di questi stessi generi musicali (come poi sarà).

Esempi di dischi d’esordio quasi senza legami col passato più vicino sono eccezioni molto particolari, come può essere se vogliamo proprio fare un esempio “Irrlicht” di Klaus Schulze, ma l’originalità è da ravvedersi solo sotto certi aspetti tecnici.

Ancora più difficile trovare in “Showbiz” dei veri e propri copia-incolla con “The Bends”, i quali oltretutto risulterebbero alquanto anacronistici nel momento in cui già nel ’97 i Radiohead compivano una svolta epocale per la musica commerciale con il successo mondiale di “Ok Computer”, mentre nel ’99 i Muse stavano ancora plasmando la loro musica basandosi sugli ultimi Sonic Youth e non avevano ancora assimilato del tutto le ripercussioni storiche di “The Bends”.

Inoltre col passare degli anni le scelte fatte da questi due gruppi sono semplicemente inconciliabili, sia per quello che concerne la tecnica e il sound, che più profondamente un approccio concettuale alla mondo musicale a 360°, che ha contraddistinto nettamente il lavoro dei Radiohead rispetto ad una maggiore superficialità dei Muse, sempre più relegati nell’etichetta di band-spettacolo.

Prendiamo in esame l’anno di svolta dei Muse, il 2003, quando pubblicano “Absolution” e varcano la soglia definitiva del successo mondiale, in quello stesso anno i Radiohead tireranno fuori dal cappello un disco di cui si è molto parlato come “Hail To The Thief“.

Proviamo a contestualizzare i Muse del 2003: ben due anni dopo l’ultimo lavoro la band sforna un disco ben lontano da qualunque infiltrazione dei vicini album dei Radiohead, anzi trovano finalmente una loro dimensione sonora. Magari l’ossessiva ricerca di wall of sound bestiali per spaventare la gente nelle live e le spinte prog (molto semplificate) non sono obiettivamente il massimo (oddio, concordo con Onda Rock! Vi prego lapidatemi!), ma alla fin fine il disco suona bene e appare come un lavoro ben pensato, organico e tutt’altro che scontato. Il tema è quello dell’apocalisse e più in generale della morte. La presenza di parti orchestrali potrebbe stupire, se non pensiamo però al fatto che i Muse devono tanto alla musica classica e devono ancora di più alla musica per film (con cui riempiranno di citazioni dischi e live successive fino ad oggi). I testi sono una summa del peggior complottismo made in U.S.A., tragici.

Nel 2003 i Radiohead si scontrano per la prima volta con la realtà informatica, a causa di una fuga incontrollata di mp3 provenienti proprio dalla lavorazione di “Hail To The Thief”. Secondo molti il sesto disco della band non è esattamente l’apice del loro lavoro, anzi: è una brutta copia di “Ok Computer”. Chiaramente non è così semplice, il disco esce con qualche problema è vero, ma di certo non si può dire che sia una sorta di riempitivo in un momento di vuoto creativo. La critica portata avanti da Yorke e company in “Hail To The Thief” è fortemente politica, con continui richiami alla situazione americana, un rigurgito della più famosa band inglese contemporanea che di certo non era facile da tradurre in pezzi sperimentali alla “Amnesiac” o alla “Kid A”. Questo disco ha quindi un valore concettuale prima ancora che musicale, concetti che vengono comunque tradotti in una musica decente, molto più consapevole di quella in “Ok Computer” e molto più diretta nell’esplicazione di un malessere materiale e tragicamente contemporaneo.

È dunque chiaro che sia gli intenti che l’approccio al rock nelle due band siano palesemente incompatibili e i loro sviluppi successivi lo confermano sempre di più.

Insomma: una questione assolutamente inesistente, dovuta principalmente alla feroce schiera di fan che contraddistingue i due complessi rock più seguiti (e forse sopravvalutati) al mondo.

Almeno per ora.