Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.
Archivi tag: anni ’70
Devo – Question: Are We Note Men? Answer: We Are Devo!
Etichetta: Warner Bros.
Paese: USA
Pubblicazione: 1978
L’urlo finale di Franco Battiato
… e Vivo
malgrado me stesso…
Franco Battiato, Fenomenologia, “Fetus”, 1972
In un periodo di passaggio particolarmente delicato del rock italiano, il 1972, Franco Battiato era in pieno furore compositivo, il suo periodo d’oro con la Bla Bla di Pino Massara. Si può dire, ad ormai parecchi anni di distanza, che tra il ’72 e il ’73 il prog italiano conobbe la sua definitiva maturazione, sia nelle varie forme che nei suoi temi più ricorrenti (l’ecologismo, la rivoluzione giovanile, le droghe, la libertà sessuale, ecc.), ma assieme alla consapevolezza arrivò una saturazione del mercato discografico, spesso ridondante nelle proposte.
Continua a leggere L’urlo finale di Franco BattiatoNeil Young – “Live At Massey Hall 1971”
Etichetta: Reprise Records
Paese: USA
Pubblicazione: 2007
Non so perché, ma Neil Young è una testa di cazzo naturale. È l’amico che ne sa sempre più di te, che ti deride l’impianto stereo non-valvolare e che sa sempre qual’è la giusta posizione in camera tua dove ascoltare “Larks’ Tongues in Aspic” – probabilmente sarebbe capace di farlo anche con Robert Fripp in persona. Va comunque detto, a onor del vero, che l’ossessione di Young per la qualità del suono e dell’esecuzione lo ha portato a regalarci alcune delle live più epiche della storia del rock, roba da far accapponare la pelle anche al cinquantesimo ascolto. Oggi però non vi scriverò di una di queste, bensì di qualcosa che ha aspettato ben 36 per uscire nei negozi, rinfiammando il fandom youngiano come nessun album dopo “Harvest Moon” sarebbe riuscito a fare. “Live At Massey Hall 1971” fotografa Neil Young poco prima della sua esplosione commerciale, di fronte ad un pubblico caldissimo che lo ama e lo inneggia ininterrottamente. È da solo, senza band, seduto su una sedia che si prende tutto il tempo del mondo per accordare la chitarra, o che strimpella il piano per trovare le note giuste prima di cominciare il pezzo. È un chiacchierone, delle volte rimprovera (figurati), della altre si lascia andare a ricordi recenti, scherza. L’aria è quella delle grandi occasioni, il musicista da Nashville però non è permeabile alle richieste del pubblico, più che i classici propone canzoni nuove perché «non riesce a pensare ad altro», sono canzoni spoglie e ruvide in un modo che non sembra nemmeno davvero lui.
Young si concede il lusso di arrivare non preparato, con qualche canzone ancora da ricamare. Proprio lui, quello tutto fissato con la precisione e la qualità, che abbassava o tagliava del tutto le voci del pubblico in post-produzione per lasciare la purezza dell’interpretazione intatta, testardo fino all’inverosimile, ma in questa specifica occasione magnificamente impreciso, nervoso, emozionato. Certo, ormai ci siamo abituati a questo tipo di uscite, il celebre “Unplugged” dei Nirvana ad MTV trovava le sue vette nelle reinterpretazioni emotive di Cobain di Meat Puppets e di Leadbelly, o il bellissimo “Skonnessi” degli Skiantos, dove la poesia demenziale di Freak Antoni suonava molto meno ironica e significativamente più malinconica. Ma “Live At Massey Hall” è diverso perché non è Neil Young che interpreta acusticamente Neil Young, è Neil Young che mette in scena l’origine delle sue canzoni, l’intuizione melodica soggiacente ad ogni cosa.
La banalità delle prime note di Journey Through the Past si eleva appena la voce ci cade sopra, come se la stesse improvvisando per la prima volta, con quella freschezza che scompare quando ci ripensi l’istante dopo averla suonata. Così anche in See the Sky About to Rain è come percepire l’aria fredda che annuncia la fine dell’estate, mentre in Cowgirl In the Sand albeggia il calore della primavera, è l’esperienza più empirica che un’artista possa provocare per esprimere la caducità dell’ispirazione. Non è un album che ha segnato un’epoca, come potrebbe poi, è uscito talmente in ritardo da sembrare più un reperto archeologico, quando ancora il folk aveva ricordi vividi dei suoi maestri, in compenso è la cristallizzazione di un passaggio storico traumatico per il rock, al massimo della sua popolarità e in piena frammentazione tra sottogeneri, ed è – chiaramente – un momento chiave per Neil Young, popolarissimo cantante canadese, ormai ad un passo dal diventare un’icona, con quello che ne consegue. Tutte queste tensioni sembrano incontrarsi per un attimo a Massey Hall, tra un sorso di birra e una chiacchierata tra amici, prima che le note di On The Way Home spazzino via tutto il quotidiano e fissino quel momento per sempre.
Dopo aver ascoltato questo album ammetto che mi ci vuole un po’ per riprendere in mano “Harvest”, “Zuma”, ma anche “Rust Never Sleeps” che sebbene sia un’altra live, soffre di quell’epica forzata e retorica del rock ormai alla fine degli anni ’70. In questo disco c’è tutta la grandezza di un artista immenso, che con una voce e una chitarra può far ballare centinaia di persone mentre fuori ulula scuro il vento, oppure può farle piangere al chiuso delle loro case, a cinquant’anni di distanza, e senza nemmeno capire bene il perché.
John Cale – Fear
Etichetta: Island Records Paese: UK Pubblicazione: 1974
You know it makes sense
Don’t even think about it
Life and death
Are things you do when your bored
Che un album rock cominci con un bell’accordo di pianoforte non è certo una roba inusuale, anzi, è un elemento che ha caratterizzato in parte le origini del genere, ma se la chitarra elettrica possiede nell’immaginario collettivo un ruolo leader nel sound rockettaro è certamente dovuto a quel calderone lisergico che furono gli anni ’60. Il pianoforte tornerà ad infuocare i solchi di plastica nera in modo massiccio negli anni ’70, ma se per gli americani il piano era rimembranza di personaggi come Little Richards, Jerry Lee Lewis, Memphis Slim (e tanti altri) in Europa non potevi mica prescindere da Chopin! Il pianoforte, come l’uso degli archi o dell’orchestra, era un tassello per la legittimazione culturale del rock in Europa, quasi mai pestato e vituperato, semmai coccolato da mani consapevoli, fresche di studi classicisti – con tutte le eccezioni del caso che sicuramente non mancherete di segnalarmi.
Le naturali forme di resistenza a questa delle volte eccessiva deriva “classicista” (ben rappresentate dal prog e da certo hard rock) c’erano eccome ovviamente, ma alcuni artisti più sensibili di altri riuscirono in questo contesto a creare opere che sostenevano entrambe le istanze senza contraddirsi. John Cale forse è quello che ne è uscito meglio, o quanto meno che ha saputo trovare un punto di contatto originale, ben invecchiato come un buon Dà Mhìle.
Seduto su questa panchina fredda in attesa del treno in italico ritardo, pensando ad un album degli anni ’70 con un iconico accordo di piano, mi sale sù per il cervelletto “Hunky Dory” di David Bowie. Changes è un pezzo gioviale, scevro dalle tensioni erotico-fantascientifiche successive, coacervo di intuizioni che seguono le nuove tensioni melò nel pop. Cale invece principia il suo album con un piglio storto e ambiguo, senza il taglio wagneriano di certo prog né con cadenza di fiaba, Fear Is a Man’s Best Friend ti scaraventa in faccia i Velvet Underground (Standing waiting for the man to come) e lo fa con uno stile tra il poppettaro e il Bernard Herrmann di Taxi Driver.
Il pianoforte, suonato con trascinante minimalismo, viene disturbato da una chitarra elettrica nevrotica, a destra compare un basso dal suono netto e pieno che verso l’irrequieto finale dialoga disperatamente con la voce quasi strozzata di Cale. Per quanto sia trascinate l’idea melodica di base, Cale inserisce consapevolmente delle interferenze alla piacevolezza totale, lasciando con pochi ma sostanziali accorgimenti un senso di disagio ed incompletezza su cui si regge l’intero impianto dell’album.
L’apporto di Brian Eno è evidente e fondamentale, la cura della timbrica è sofisticatissima, i suoni dei singoli strumenti catturano l’attenzione del nostro orecchio traghettandolo in direzioni contrapposte all’appeal della canzone. Questo si nota in maniera ancor più drastica in Barracuda. L’estetica surf e reggae si mescolano al kraut in un lavoro di sottrazione, le liriche di Cale sembrano volersi lanciare nel tentativo di definire gli stilemi di una hit estiva pre-apocalittica. Detta così sembra una roba pesantissima da Effervescente Brioschi, me ne rendo conto, ma fare blogging nel 2019 vuol dire anche questo, se ci pensate bene è un diritto di tutti supercazzolare liberamente, basta che il limite della tua supercazzola non travalichi la mia supercazzola, altrimenti sono cazzole.
Non è un album perfetto “Fear”, tutt’altro, ma nei suoi difetti più evidenti (come in certe ballate molto prevedibili) trova comunque un equilibrio estetico che rende piacevole l’ascolto a rotta di collo. Un po’ come se fosse uno di quei film in cui di tanto in tanto cala di tensione e ci si perde in dialoghi poco incisivi, ma qualcosa di inspiegabilmente malinconico ti lega a quelle immagini, per cui continui a guardalo e riguardarlo sprofondando sempre di più nel divano.
Al limite dell’auto-plagio ma comunque miglior pezzo del lotto è certamente Gun con i suoi 8 minuti di martellamento velvetundergroundiano, marchiato da un’indimenticabile assolo/trapano di Phil Manzanera che assoggetta sessualmente Arto Lindsay. La ricerca pop di Cale si svela nella sua semplicità compositiva, ma al contempo mostra l’enorme lavoro dietro ogni suono ed ogni parola proferita. Il musicista gallese toglie tutti gli elementi che appesantiscono la forma canzone degli anni ’70 anticipando così l’algidità di certo post-punk (ne sanno qualcosa i The Modern Lovers) riuscendo a tenere sù un groove decisamente rock ’n roll.
Ovviamente è il miglior album di Cale come solista, perché sposta i suoi limiti con l’accortezza di un musicista navigato, ormai all’apice della sua carriera, lo sentiamo infatti scazzare, rimpastare, incollare, scherzare, lo sentiamo inabissarsi nel torpore di una ballad per poi tagliare gli angoli di un potenziale singolo pop da classifica. È un treno John Cale che deraglia continuamente solo sui suoi binari, un viaggio nervoso e certamente scomodo, ma anche per questo perlopiù indimenticabile.
The Kinks – Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One
Etichetta: Pye Records
Paese: UK
Pubblicazione: 1970
Well I left home just a week before
And I’d never ever kissed a woman before
But Lola smiled and took me by the hand
And said little boy I’m gonna make you a manWell I’m not the world’s most masculine man
But I know what I am and I’m glad I’m a man
And so is Lola
Ray e Dave Davies sono stati tra i più grandi songwriter inglesi di tutti i tempi. La loro capacità di costruire armonie complesse ma efficaci al primo ascolto era impareggiabile, eppure ad oggi è quasi la norma vederli fuori dalle classifiche online, ignorati anche dai blogger – più o meno influenti. È davvero una storia strana quella dei Kinks, fatta di irripetibili epifanie e di un lento ma ineluttabile logoramento.
Fripp cita i giri di chitarra dei Beatles quando parla d’ispirazione, Brian May gli Shadows, Zappa Veloso, Hitchcock Barrett, eppure né Shadows né Beatles né chiunque altro ha saputo cristallizzare la perfezione nella canzone pop come i Kinks. You Really Got Me usciva nel 1964 e presentava un nuovo modo di comporre e d’intendere il rock nel Regno Unito. Ad inizio anno c’era stato l’exploit dei Beatles: I Want To Hold Your Hand, ma la forza prorompente di You Really Got Me mostrava già i semi di una maggiore aggressività nel rock inglese, portata avanti anche da altri gruppi londinesi come Who e Small Faces, tesi ad inseguire il sogno pop dei Beatles ma cercando di conquistarsi un pubblico più maturo, nel caso degli Who persino intellettuale. In You Really Got Me c’era chiaramente l’influenza del garage americano (Kingsmen su tutti), ma ciò che l’ha resa per anni una delle canzoni preferite dal pubblico inglese, più che la sua indiscutibile orecchiabilità, fu il suo sapore di “strada”, la sua (in)genuinità giovanile. Un elemento di fragilità dietro il muro di suono di un riff rock.
Nel 1966 venne pubblicato l’ottavo singolo della band, Sunny Afternoon, ma il bello lo si trovava nel lato B di quel 7 pollici. I’m Not Like Everybody Else è il manifesto del pensiero kinksiano e non è un caso se la canzone non risulta presente in nessun album in studio della band.
I’m not like everybody else/
And I don’t want to ball about like everybody else/
And I don’t want to live my life like everybody else/
And I won’t say that I feel fine like everybody else/
Questa irrequietudine è sia la cifra che ha reso certe canzoni dei Kinks indimenticabili sia il loro limite. Ray e Dave ci credevano di poter cavalcare l’onda, e come insegnavano Beatles, Gerry & The Pacemaker e altri fenomeni da classifica, non c’era altro modo di farlo se non a suon di singoli e album lanciati in continuazione in faccia alla gente. Diciamo anche che negli anni ’60 era impossibile saturare il mercato, perché la platea di potenziali fan di un nuovo e frizzante rock era virtualmente infinita. Ma il pubblico di riferimento dei Kinks era difficile da inquadrare, nelle loro canzoni non trovavi sempre spensieratezza (Beatles), rabbia giovanile (Small Faces), impegno artistico (Who) oppure contaminazioni tra i generi (Move), più che dirti cosa desideravano e cosa volevano i Kinks nei loro momenti migliori elargivano incertezza e insicurezza.
Questa corsa ad accumulare uscite discografiche tra gli anni ’60 e ‘70 ha portato tanti talenti ad essere diluiti al ritmo di 33 giri, costretti a zeppare i dischi di riempitivi per farne uscire almeno uno l’anno (pensate a quanto e come è stato strizzato il genio di Brian Wilson) e così i Kinks non hanno mai composto un album capolavoro come si deve. Ma forse quello che ci è andato più vicino, o che quantomeno risulta il più peculiare della loro opera, è “Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One”. Come ho scritto anche nello scorso post non voglio fare la gara all’album più bello, chissenefrega, quello che mi interessa semmai è capire perché LVP&TM,PO (che acronimo di merda, fra l’altro) al contrario del resto della discografia della band mi suona come un manifesto, come una rivendicazione di appartenenza e quindi d’identità.
Ovviamente c’è il concept di mezzo che parla proprio di questo, la ricerca di una propria identità. Un tema, se ci pensate bene, piuttosto abusato nel periodo. In un certo qual senso LVP&TM,PO è la versione “cheap” di “Tommy” degli Who uscito due anni prima. Laddove Townsend aveva cercato di produrre un manufatto artistico con tutti i crismi, i Kinks dal canto loro usarono la scusa del concept per incasellare una serie di hit. Ma se opere come “Face To Face” (1966) e “Arthur” (1969) risultano altrettanto brillanti di LVP&TM,PO almeno per qualità delle composizioni e sperimentazione dei limiti pop, lo stesso non si può dire per l’irrequietudine che smuove in particolare questo album. Le emozioni così acerbe da risultare affilate come coltelli sono il terreno di gioco prediletto dei fratelli Davies, e trovano la loro più concreta definizione in questi solchi.
L’album si apre di maniera, con una The Contenders scritta giusto per rimarcare che: «stavolta i Kinks ci mettono il concept, stronzi!», ma la roba seria arriva subito dopo. Strangers è quello che dicevo prima, la cifra. Dave scrisse probabilmente una delle più strazianti canzoni pop di sempre, fin da subito molto orecchiabile ma che cela molto mestiere.
So you’ve been where I’ve just come
From the land that brings losers on
So we will share this road we walk
And mind our mouths and beware our talk
‘Till peace we find tell you what I’ll do
All the things I own I will share with you
If I feel tomorrow like I feel today
We’ll take what we want and give the rest away
Strangers on this road we are on
We are not two we are one
Il pianoforte valorizza la melodia e la sostiene mentre Dave canta con struggente compostezza, ogni elemento estetico è soppesato, l’entrata dell’organo sulle parole «Holy man and holy priest» viene subito corretta con un secco cinismo nel secondo verso: «This love of my life makes me weak at my knees», la batteria claudicante dialoga con una linea di basso minimale, la voce che non urla denuncia con la sua delicatezza un dolore irreprensibile. Fottesega se sei una rockstar o un pezzente, la solitudine non è né una scelta né una penitenza, esiste e puoi fartici ingoiare. Non proprio un messaggio propositivo, ma indiscutibilmente vero.
Il cattivo della faccenda (sì, perché è un “concept”, quindi c’è una “storia”) è il produttore discografico, che passa il suo tempo a spezzare i sogni dei giovani e sensibili artisti. La prima volta che spunta fuori è in Denmark Street, con un bel po’ di ironia british e supportato da un ritmo scalmanato. Get Back in Line è il primo riempitivo e cerca di mantenere una coerenza sonora col resto, peccato per le armonie scontate e le liriche che non riescono a colpire tra le gambe come in Strangers.
Su Lola spero di non dover dire molto. Nella mia vita questo pezzo ha avuto un ruolo fottutamente importante e discuterne in maniera oggettiva è difficile, quasi ingiusto sotto certi aspetti, perché non sono certo un sentimentale quando si parla di musica, se non per pochissime eccezioni. Di cosa racconta e come lo sanno tutti, come anche del perché dovettero farla uscire in radio con «Cherry-Cola» invece di «Coca-Cola» ma forse non tutti si ricordano che è ispirata da una storia vera accaduta proprio a Ray Davies. Il fatto è che Lola più che un bell’anthem sixties è l’urlo finale di una bestia ferita, una ferita non stata inferta dall’amore o dall’indifferenza, ma insita nell’essere umani e nell’essere giovani. E non c’è proprio modo di scappare da questa merda.
Di Top of the pops avevo già scritto, racconto amaro sull’arrivo alla prima posizione di un disco pop e tutto il circo mediatico attorno, sempre con uno sguardo privilegiato all’intimità (Now my record’s number 11 on the BBC/ But number 7 on the N.W.E./ Now the Melody Maker want to interview me/ And ask my view on politics and theories on religion/ […] Now my record’s up to number 3/ […] And now I’ve got friends that I never knew I had before/ […]). Persino più caustica Rats, che vive di un dinamismo straordinario e di una sezione ritmica strepitosa, metafora di come cambi l’ambiente attorno a te quando hai successo, impressionanti le immagini di montagne di ratti opulenti che risalgono dalle fogne per pretendere un pezzo succoso di successo dai lembi candidi del protagonista. L’episodio più liberatorio dell’album è certamente Apeman, un divertissement sulla paranoia di una guerra nucleare.
Ora: non ho il tempo né le forze di analizzare tutte e 13 le canzoni, in questo periodo lavoro parecchio e anche se come dice il mio kebbabaro di fiducia: «Finché lavoro bene, salute importante certo perché senza male, ma lavoro, lavoro più» e io lavoro, lavoro più un sacco. Però per i Kinks non riesco a non spendere altre due paroline in più.
Perché è così difficile ammettere il primato dei Kinks nella canzone pop rock? Forse perché una volta finita la moda della british invasion, di quel rock ’n roll che nasceva per conquistare un pubblico adolescenziale e quasi esclusivamente femminile, quando insomma la moda si era spenta per far posto ad un nuovo fuoco, ecco che soffiando sulla cenere dei Kinks si percepisce sopratutto il malessere d’una generazione, la malinconia così viva e palpitante. E non è certo quello che uno vuole sentire quando si spara un bel pezzo merseybeat nelle cuffie, magari in piedi sul bus.
Dopo il successo inaspettato di You Really Got Me nel 1964 i Kinks non furono ben visti dai gruppi anti-commerciali, perché era considerato improbabile che dei ragazzini senza arte né parte avessero potuto scrivere un pezzo così duro, probabilmente era stato solo il caso. I critici poi non li percepivano alla stregua degli Who di Townsend, cioè una band che incanalava la tensione generazionale in furia artistica. I Kinks erano e sono un’anomalia del sistema, un’urgenza somatizzata in melodie struggenti e urla sguaiate, capaci di nascondere il malessere dietro una folta coltre di armonia e barocchismi. E forse proprio per questo disinnescare la metodica leggerezza pop i Kinks restano ancora oggi diversi da tutti gli altri.
Genesis – Selling England By The Pound
Etichetta: Charisma Records Paese: Regno Unito Pubblicazione: 1973
Young man says: «You are what you eat.» Eat well.
Old man says: «You are what you wear.» Wear well.
You know what you are, you don’t give a damn,
bursting your belt that is your homemade sham.
Il mio primo CD in assoluto fu “Selling England By The Pound” dei Genesis, e rimase il mio preferito fino alla prima liceo. Negli anni SEBTP l’ho ascoltato tante di quelle volte da poterlo recitare senza canticchiarlo, sempre meno estasiato dal dipinto morale di una Inghilterra vista attraverso un occhio freddo e poco perspicace.
Ci sono stati anni in cui credevo sinceramente che Peter Gabriel fosse una sorta di mente superiore gentilmente regalata al rock, e qualsiasi cosa uscisse con sopra il suo nome la dovevo possedere e ascoltare fino allo sfinimento. Adesso i suoi album, collection e live riempiono silenti una cassa di cartone in garage, probabilmente per non uscirne per un bel po’ di tempo.
Cos’è successo esattamente non lo saprei nemmeno dire, forse la colpa sta tutta nell’aver sviluppato interessi diversi, che la musica raffinata e cerebrale dei Genesis non poteva e non può più soddisfare. Essenzialmente ascoltarmi “Foxtrot” o “Trespass” mi lascia indifferente e il più delle volte tremendamente annoiato. Laddove prima c’era un entusiasmo incontenibile per quegli intrecci perfettamente soppesati, le armonie di Banks e Rutherford, gli assoli di Hackett e il lirismo di Gabriel, adesso c’è solo una malcelata forma di fastidio.
L’album in questione è del 1973, considerato da molti esimi critici come la vera svolta della band. Il tema centrale è una confusa critica alla mercificazione del Regno Unito, con tanto di invettiva finale ai supermercati indicati come simbolo della colonizzazione del diavolo americano, niente di nuovo insomma. Corroborato da una quantità smodata di figure retoriche e giochi di parole, le liriche di Gabriel seguono il corso eclettico della musica saltellando qua e là tra una citazione aulica e delle criptiche metafore anti-capitalistiche. La musica dei Genesis è diventata un flusso ininterrotto di strumenti che si rincorrono senza però una meta da raggiungere.
Il prog inglese non è il primo tentativo nella storia del rock di legittimazione culturale da parte del rock stesso, ma di sicuro è quello più volutamente intellettuale e sofisticato, raggiungendo vette insperate di tecnicismi (Weather Report, King Crimson, Gentle Giant e Yes su tutti). Nel caso dei Genesis questa estenuante ricerca di fare del rock “bello”, esteticamente profondo e al tempo stesso fruibile a più livelli (la loro declinazione teatrale), denunciava però una serie di mancanze lapalissiane. Prima tra tutte proprio la declinazione teatrale, vetusta e molto lontana dalle grammatiche del teatro dell’epoca, inciampando in banalità e pretenziosità corrette solo dalla impeccabilità delle performance musicali.
Come in “Trespass” anche in SEBTP protagonista dei primi istanti dell’album sono le parole di Gabriel, sempre compassate e piene di magia, ma poco ci vuole perché quegli attimi costruiti con una maniacale cura al dettaglio (Hackett in sottofondo che crea una texture strepitosa, vibrante e paranoica, Banks che drappeggia armonie che giocano con il canto di Gabriel) deflagrino in una composizione inutilmente roboante e ultra-tecnica. Dopo pochi ispiratissimi minuti la musica ormai sfugge come indispettita dal tentativo di ridurla ad un vettore per un concetto, e si libera promuovendo la sua complessità armonica, cromatica e timbrica senza alcuna necessità estetica.
Questo diventa ancora più chiaro in Firth Of Fifth:
The Mountain cuts off the town from view,
Like a cancer growth is removed by skill.
Let it be revealed!
A waterfall, his madrigal,
An inland sea, his symphony.
Il buon pastore in Firth è simbolo dell’uomo conciliato alla natura, la città invece il cancro da estirpare. Nella più classica e banale delle forme di protesta tipiche della musica progressive degli anni ’70, i Genesis incastonano il loro più splendente gioiello tecnico. Nove minuti e trentotto secondi eseguiti con una perizia fuori dal comune, un meccanismo perfetto e inattaccabile, ma disperatamente autistico. Firth Of Fifth è in un certo senso l’opposto di Sister Ray dei Velvet Underground, è musica per il piacere di fare musica, è catarsi negli incastri, negli stacchi, nei cambi armonici, è un vuoto esercizio. Ci vedo una curiosa somiglianza con le filastrocche della Grecia antica, le quali venivano proferite a una velocità impossibile per raggiungere una forma d’estasi dovuta unicamente alla mancanza d’ossigeno nel cervello. Quando ascoltavo l’album al liceo Firth era la mia parte preferita, e credevo veramente che ci volesse un certo garbo nell’ascolto per apprezzarla, e che non fosse da tutti emozionarsi per quelle delicate intelaiature, quei repentini cambi di tempo, per quella grandiosità epica e fiabesca. Quella tenera saccenteria è scomparsa, non solo di fronte all’evidenza che SEBTP è un album che ha venduto più di 5 milioni di copie – credo, per cui evidentemente a qualche altro cristiano qualcosa gli avrà detto, ma è scomparsa anche dal constatare che la tecnica non è il fine a cui la musica rock dovrebbe tendere, ma un mezzo come tanti altri.
Questa affermazione mi pare ancor più veritiera riascoltando certi pezzi: niente in The Battle Of Epping Forest fa pensare ad una battaglia, ma piuttosto ad una hit che in certi dinamismi anticipa il lavoro di Collins alla guida della band. Il tutto farcito dalle solite liriche che girano attorno alle questioni, insinuano dolcemente senza mai scontentare un certo gusto tutto inglese al gioco di parole. After The Ordeal sembra un pezzo scartato dalla Third Ear Band perché inutilmente complesso. [Pensando alla Third Ear Band mi viene in mente che il loro “primitivismo” e la tendenza ad una musica sempre più astratta e ancestrale sia ancora oggi molto contemporaneo (La Piramide di Sangue, Squadra Omega, Mai Mai Mai, etc.) mentre il soliloquio dei Genesis si è fermato ai tremendi Porcupine Tree, non riuscendo a svilupparsi in un linguaggio contemporaneo che non soffra palesemente di una carica nostalgica che sommerga ogni pretesa artistica.]
L’album si conclude riprendendo il tema di Dancing With The Moonlight Knight, con Gabriel che elenca una serie di prodotti prezzati al supermercato nel ricamato tappeto musicale di Banks, Collins e Hackett. Delle prime bellissime e dolci note resta giusto questo geniale commiato, Aisle Of Plenty in un minuto e mezzo riesce ancora oggi ad regalarmi una forte emozione, anch’essa però feroce e indomabile figlia della nostalgia, un ricordo di quando la musica era solo musica ed era tutta ugualmente bellissima.
Per quale motivo Can’t You Hear Me Knocking è al tempo stesso il più cazzuto pezzo dei Rolling Stones e anche il più merdoso
Nella copertina c’è in bella vista il pacco pop-artistico di Joe Dallesandro, non proprio il modo migliore per quietare le critiche di misoginia che ogni uscita degli Stones si portava dietro. 1971. I Can avevano appena rilasciato il loro capolavoro. I Black Sabbath con “Master of Reality” ci confermano per la terza volta di aver in pratica inventato una cifra, anche se per loro, almeno nelle interviste ufficiali, quello era solo rock senza altri strani aggettivi. “Four Way Streets” è tipo il live che tutti hanno in casa, anche se tutti parlano del “Concert for Bangladesh” a NY. La Edgar Broughton Band arriva al terzo album e così perfino Beefheart diventa “hard” (ascoltatevi Apache Drop Out se non ci credete). “Tapestry” di Carole King sarà l’album più venduto quell’anno, e tra i più venduti nella storia della musica contemporanea. Jim Morrison ci lascia ad inizio Luglio, nel suo lussuosissimo appartamento in rue Beautreillis, Parigi. Poi c’è il nuovo album sulla masturbazione applicata a Musorgskij degli Emerson, Lake & Palmer, ma facciamo finta di niente ok?
Siamo nel ’71, e per i Rolling Stones confermare di essere quelli con più centimetri nei jeans (rigorosamente strappati) non era mica tanto facile. Eppure quei dannati bastardi lo fanno di nuovo.
“Sticky Fingers” ha la l’anima febbrile del delta blues declinata in una gioventù europea disinibita all’inverosimile. Proprio come la banana dei Velvet Underground anche la cerniera di Sticky nasconde qualcosa – ed è sempre dell’alieno Warhol. Pochi lo ricordavano ma molti sapevano che tirata giù la buccia c’era una banana rosa. Stavolta il genio della pop-art statunitense non sfrutta nessuna metafora, tirata giù la cerniera (non senza un senso di riscoperta meraviglia sessuale da parte del fruitore) eccoci col muso su un paio di mutande bianche, che non vogliono nascondere le forme di un membro maschile.
1971. 1967. Un mondo è cambiato e il rock ne è il principale interprete (altri tempi eh?), la sessualità BDSM che deflagrava sul palco dei primi Velvet non era più materiale per servizi televisivi moralisti e romanzi d’appendice, ma cultura pop, e i Rolling Stones incanalarono questa tensione sessuale con una furia ineluttabile.
Se “Let It Bleed” si apriva con una voragine oscura e apocalittica, stavolta il registro è fottutamente diverso, perché proprio di fottere si parla: «Ah, Brown Sugar/ How come you taste so good?» Schiavitù, sesso interrazziale, conflitti di classe, Brown Sugar prima di finire nello spot della Pepsi fu una botta mica male!
Eppure secondo me la faccenda trova il suo snodo con questa nostra quarta traccia, con quel riff micidiale che arriva duro come un’erezione dalla cassa destra. Batteria e basso seguono in secondo piano al centro del cono sonoro, puoi già orecchiare del magma scoppiettare nervoso sotto la fragile crosta di plastica del 33 giri. La risposta dalla cassa sinistra non si fa aspettare. Comincia così un dialogo che anche senza le parole di Jagger (tra le meno sensate della sua carriera) se ne capisce benissimo ogni intenzione. Le due chitarre si sfiorano, si toccano, si penetrano a vicenda in un rito dionisiaco-crowleyano, ogni staccato sembra fatto apposta per evitare una eiaculazione troppo frettolosa. Le voci aumentano e si sale come in Gimme Shelter, ma se lì “salire” era solo un tropo per dire “cadere”, qui invece è proprio come quando il sangue lascia il cervello per confluire tutto lì.
«Help me baby, ain’t no stranger!» Lui gira e rigira davanti al portone, la chiama sperando che si affacci alla finestra, sovra-eccitato dalla droga, dal sesso, dal rock & roll. È notte, è per forza notte, sulla strada i colori deliranti dei neon sfumano sull’asfalto come in quel film di Walter Hill. «Can’t you hear me knockin’?/ Throw me down the keys/ Alright now!» Canta, ringhia, ulula, il nostro perverso dandy inglese, che alla luce della luna si trasforma in un insaziabile licantropo cresciuto sulle rive del Mississippi.
Un miracolo? Di sicuro di quelli che mi piacciono. Eppure proprio sul più bello di questa dolce e ruvida relazione, mentre alla membrana delle casse viene la pelle d’oca e vorresti baciarla per sentire che gusto abbia, ecco che qualche idiota decide di rovinare tutto. E sì, perché invece che mandare il cazzo di sfumato (come nel 95% delle canzoni degli Stones fra l’altro) qualcuno decise che bisognava registrare tutta la jam successiva.
Chi sia questo traditore della razza umana non lo so, ma posso dire con certezza matematica che il suo nome fa rima con “stronzo testa di cazzo, inutile coglione idiota”.
Dopo la celebrazione di amore chiaramente omoerotica (ci sono due chitarre che fanno le porcherie, fatevene una ragione) ecco che il tutto si trasforma in una specie di jam degli Yardbirds, quindi per definizione una merda. Musica senza necessità se non quella di combinarsi secondo regole e precisi dettami armonici tonali, schiava della bravura dei suoi interpreti. E ‘sta roba è un terzo dell’intera canzone. Cazzo.
Sebbene nella versione Deluxe dell’album (quella con quindicimila CD, libretti, poster, figurine e dildo che costa quanto una Aston Martin) ci sia un alternative take che ci fa intuire come doveva andare la faccenda, la verità è che il pezzo in questione non ha il tiro micidiale della versione definitiva. Anzi, sembra un pezzo dei Them. Ed io amo i Them, sia chiaro, mica come quegli stronzi merdoni degli Yardbirds, però cazzo no. E no. Can’t You Hear Me Knocking non è una canzone, non puoi trattarla come tale o suonarla così come se lo fosse. Can’t You Hear Me Knocking è una mano che ti sfiora sui jeans premendo sul membro, è quello stato di eccitamento a metà tra il prima e il durante, in cui il sesso è il potenziale, e basta questa profezia per sconquassarti le budella e liberarti la mente da ogni altro pensiero.
Francamente non ho un album preferito di questa band, troppo grande per farci le classifiche (se c’è chi ancora le fa), e purtroppo non ho nemmeno un pezzo preferito. Ma potevi, anzi, DOVEVI, essere tu: Can’t You Hear Me Knocking.
Captain Beefheart & The Magic Band – Lick My Decals Off, Baby
«Madò, anche oggi non c’ho voglia di scrivere…»
«Ma che cazzo l’hai aperto a fare il blog, scusa?»
«Io volevo solo scrivere di quanto fosse figo Metal Machine Music e di quanto facesse cagare Bananas, però la cosa m’è sfuggita di mano.»
«Ma non ce l’hai una nuova band garage fresca fresca? Non hai ascoltato un tubo ultimamente?»
«Eh no, ho ascoltato parecchio, ma il 99% della roba è puro revival del cazzo, col riffino surf rock, la melodia canticchiabile sotto l’ombrellone, la chitarra distorta…»
«Allora fai un album non contemporaneo, che ne so, tipo Blanck Generation (che avevi promesso a gennaio 2013!), il primo dei Dead Boys, o qualcosa di più astruso, tipo i Cromagnon o i Godz! Quanto so fighi i Godz?»
«Potrei fare Lick My Decals Off, Baby!»
«E che cazzo è?»
«Hai le traveggole? Il quarto di Beefheart.»
«Aaaaah.»
«”Aaaaah” che?»
«No, dico, bello eh, quello dopo Trout Mask Replica, giusto? Molto simile, una specie di continuazione.»
«Ma l’hai mai ascoltato?»
«E che, no? Un capolavoro.»
«Qual’è il primo pezzo?»
«Come scusa? Vuoi andare a Cortina d’Ampezzo?»
«Il primo pezzo dell’album, qual’è?»
«Eeeeh, boh, l’ho ascoltato UN SACCO DI TEMPO FA, credo fosse… eh, insomma, The Host, The Ghost, The…»
«Se vabbè, ma quello è il secondo di Ice Cream for Crow!»
«Ah, unnè di Safe As Milk?»
Sì, perché “Lick My Decals Off, Baby” soffre di questa sindrome del “Trout Mask Replica 2 – la Vendetta” senza alcun motivo, ma che ne determina spesso la superficialità d’ascolto.
Perché fa tanto figo raccontare a giro che Captain Beefheart te lo rizza fino in cielo, ma poi c’hai a casa la discografia dei Nazareth quasi consumata dall’ascolto, e un “Safe As Milk” intatto in mezzo ai 33 dei Matia Bazar di tua madre.
Non è che sia un male se non ti piace Captain Beefheart, non hai peccato né verrai giustiziato, né tantomeno giudicato (se non dagli stronzi), però è cento volte peggio fare il fanboy del Capitano e poi conoscere a mala pena TMR e piuttosto bene l’esordio blues.
“Lick My Decals Off, Baby”, che d’ora in poi chiameremo LMDOB, è uno degli album rock più devastanti che avrete mai il piacere di ascoltare, un album che, occorre sfatare il mito, non è un proseguo di TMR, se non nella sconsiderata distruzione di ritmo, melodia, tonalità e qualsivoglia regola nel blues rock. LMDOB è molto più maturo, più compatto se vogliamo.
TMR è follia dadaista, una sorta di devastazione che poi ha generato le esperienze più travolgenti del rock (molta new wave deve tutto a quest’album, e non solo), uno sconvolgimento del blues, al quale si toglie la struttura ossea ma si mantengono intatte le budella.
In LMDOB Beefheart si fa più “serio” se vogliamo. Con l’uscita dalla Magic Band di Mascara Snake (clarinettista) e Doug Moon (chitarrista) si serrano le fila, e il sound è meno apocalittico e più uniforme, come un flusso di coscienza. Basta ascoltare il caos controllato di Bellerin’ Plain per rendersi conto di quanto rigido fosse Beefheart, e di quanto controllo ci fosse dietro la maschera dell’improvvisazione, un concetto lontanissimo dall’estetica beefheartiana.
Se in TMR era John French (detto Drumbo, il leggendario batterista) a mantenere stabile il castello di carte compositivo del Capitano, qua non c’è più bisogno di espedienti, libero dalla presenza di Zappa Beefheart doma la sua Magic Band come un vero direttore d’orchestra, e il sogno di un album senza strumenti protagonisti si realizza nei primi mesi del 1970.
Scompaiono i dialoghi tra chitarre da una cassa all’altra, scompaiono gli intermezzi parlati, e nemmeno Beefheart è protagonista, è forse l’album rock più musicale che ci sia, dove per musica s’intende una serie di musicisti del tutto asserviti a costruire qualcosa che non abbia NIENTE di loro.
Forse è difficile da afferrare per un neofita del Capitano, ma lo scopo di Beefheart era di estraniare il musicista dalla musica che stava suonando, per avere lui e lui soltanto il controllo totale di ogni nota. E difatti in quest’ottica vanno viste tutte quelle puttanate sulla telepatia che Beefheart rifilava ad ogni intervista dell’epoca, questa forma di comunicazione tra lui e i musicisti che non avesse bisogno della parola, un vero e proprio flusso di coscienza musicale.
Ogni pezzo di LMDOB si può virtualmente scomporre, ed ogni suo aspetto risulterà inevitabilmente affascinante e innovativo. Il ritmo, l’armonia, la sua evoluzione, la voce. Ci sono solo due pezzi totalmente rilegati alla chitarra acustica, Peon e One Red Rose That I Mean, i quali riportano coi piedi per terra l’ascoltatore, gli unici intermezzi concessi nel fluire incessante delle idee più strampalate.
In compenso a quanto può sembrare leggendo questa recensione, quello che colpisce maggiormente di questo quarto album del Capitano è la disciplina, come detto prima questa “compattezza” che in TMR era solo un’ideale qui diventa pratica. Ed è forse in questo che è minore, ma non di tanto, all’album precedente.
Per quanto il blues distorto di The Smithsonian Institute Blues (Or the Big Dig) sia alla pari con quello di Moonlight On Vermont dal punto di vista compositivo, cioè nella devastazione delle regole di base, manca l’energia prorompente e volutamente provocatoria di TMR. Ciò non toglie, sia ben chiaro, che sia un pezzo della Madonna.
Infatti in confronto all’epocale album che lo precede, LMDOB guadagna parecchio in termini di piacere all’ascolto, perché la Magic Band è in forma smagliante, e i pezzi sono TUTTI dei capolavori. Frenetica, assurda e delirante Lick My Decals Off, Baby, il pezzo che dà il nome all’album e che apre le danze come un’esplosione caleidoscopica, dando la sensazione che l’album non avrà un secondo di pausa.
Lo conferma il piglio storto di Doctor Dark, i testi di Beefheart dadaisti come al solito non vogliono evocare (come farà poche volte in carriera effettivamente, forse in Neon Meate Dream of a Octafish, sicuramente con Zappa nel testo di The Torture Never Stops) ma solo calpestare ogni barlume di buon senso, di melodia e di piacevolezza. Col cazzo che lo fischietti sotto la doccia il “motivetto” di Doctor Dark.
Già di tutto un altro pianeta è I Love You, You Big Dummy, col sassofono acido del Capitano che anticipa un dialogo classico negli album successivi (quello chitarra-sassofono che manterrà nel proseguo più commerciale degli album che seguirono LMDOB), una versione più coraggiosa di Frank Zappa, che due mesi prima aveva pubblicato “Hot Rats”, grande album, reso tale anche dalla voce del solito Capitano in Willie The Pimp, e che comunque non vale il Lato A di LMDOB.
Tra i pezzi che mi piacciono di più c’è sicuramente Woe-Is-Uh-Me-Bop, la perfetta presa in giro del rock soul da radio, del tutto destrutturato se non per il ritornello alla Sam & Dave gracchiato da Howlin’ Beefheart Wolf. Comunque si fa fatica ad non amarlo questo album, persino l’ormai odiato Zappa viene decostruito in I Wanna Find A Woman That’ll Hold My Big Till I Have to Go, a questo punto Beefheart non ha più punti di riferimento se non se stesso (c’è più Albert Ayler e Eric Dolphy che Delta Blues in questo album!).
Mi viene in mente adesso (cristo, che recensore professionista che sono!) l’attacco di The Buggy Boogie Woogie, perfetto, senza stranezze, e poi la voce del Capitano che distrugge la fragile melodia faticosamente conquistata a metà del Lato B. Il contrario di quanto fatto per esempio in Woe-Is-Uh-Me-Bop.
Insomma, “Lick My Decals Off, Baby” non è “Trout Mask Replica”, forse non è bello altrettanto, ma è comunque un album nel quale l’unico difetto evidente è che, ineluttabilmente, finisce.
Rodriguez – Cold Fact
Gun sales are soaring, housewives find life boring
Divorce the only answer smoking causes cancer
This system’s gonna fall soon, to an angry young tune
And that’s a concrete cold fact.Rodriguez, This Is Not a Song, It’s an Outburst: Or, The Establishment Blues, 1970
Quando nel 1998 uscì “Dead Men Don’t Tour: Rodríguez in South Africa 1998” il documentario che testimonia la gloriosa tournée di Rodriguez in Africa non erano ancora in molti in occidente a conoscere uno degli album più belli degli anni ’70 e del folk rock in generale.
Ma nel 2012 con il nuovo documentario sulla sua vita: “Searching Sugar Man” e l’oscar nel 2013, “Cold Fact” di Rodriguez diventa un caso musicale senza precedenti.
Dava le spalle al pubblico Rodriguez, non cercava di certo lo show, a lui interessava solo la musica e la protesta sociale. Vicino politicamente agli strati sociali più bassi a cui appartiene fieramente, sarà per tutta la vita un attivista in prima linea, ma nell’America degli anni ’70 che vedeva bene il bianco Bob Dylan, un tizio dal nome così messicano che inneggiava a qualche rivalsa sociale non è che si attirasse chissà quali simpatie, né era facilmente sponsorizzabile dall’etichetta che se lo era ingaggiato.
Tutti gli addetti ai lavori ci credevano: Rodriguez era un fenomeno unico, anche meglio di Dylan per alcuni, sarebbe scoppiato. Ed invece non successe nulla, o almeno: nulla negli USA.
Ed è infatti in Sud Africa dove i primi due album di Rodriguez conosceranno un successo assoluto, divenendo ben presto il musicista rock più ricercato in tutto il paese. La sua musica ma sopratutto i suoi testi saranno il simbolo della lotta anti-apartheid, ma solo grazie ad un giornalista Rodriguez verrà a sapere di tutto questo polverone attorno ai suoi dischi, e solamente nel 1998 (!), mentre i soldi delle vendite erano ormai spariti chissà dove.
Quest’uomo che tutt’ora viva nella sua umile casetta a Detroit, senza nemmeno il riscaldamento, aveva già trovato la felicità nella sua semplice vita, e oggi regala pochi ma intensi concerti in giro per il mondo per poi lasciare il ricavato alle figlie e agli amici più stretti.
Un uomo vero, di quelli che mettono gli ideali davanti alla strada più facile, affamato di giustizia e di buona musica.
Quello che colpisce di “Cold Fact” è che riesce a prendere il meglio di Dylan e dei Love con un pizzico di Donovan senza mai strafare, sebbene alcune strane idee nella registrazione tutto sembra perfetto così com’è, un Classico senza tempo di cui pochissimi erano a conoscenza.
I testi sono forse la parte migliore, intensi, maturi, commuoventi nella loro commistione di realtà e poesia, è come se la Detroit degli Stooges e degli MC5 invece che urlare dalle casse ci venisse spiegata sommessamente non da una dirompente rock star, ma da un operaio qualunque, anche se con la magia e la saggezza della voce di Rodriguez.
Sugar Man, il pezzo che apre “Cold Fact”, si basa su una delle melodie più riuscite di sempre, mischiata ad impressioni lievemente psichedeliche. Segue la più intraprendete Only Good for Conversation, certamente la più rock di tutte le sue composizioni, è pezzo di apertura della sua recente live al Glastonbury Festival dell’anno scorso.
Indimenticabili le note e le parole di Crucify Your Mind, Inner City Blues, Like Janis, Rich Folks Hoax, Jane S. Piddy, straordinario il tono dylaniano di The Establishment Blues, incredibile I Wonder un singolo che normalmente si penserebbe dal successo assicurato, ed invece nascosto negli anni a discapito di tanta merda riscoperta da critici annoiati. L’unico pezzo che mi lascia delle perplessità all’ascolto è Gommorah (A Nursery Rhyme), forse il più posticcio e meno espressivo.
Un disco che non è possibile recensire senza apparire dei perfetti idioti, l’immediatezza e la genialità di Rodriguez non hanno bisogno che di queste parole: uno dei migliori dischi album folk rock di tutti i tempi.
Pro: non ha difetti, ogni pezzo è indimenticabile.
Contro: se non ti piace Dylan e il cantautorato americano che cazzo lo compri a fare? Per poi insultarmi sul fatto che ti fa cagare? Bella storia!
Pezzo Consigliato: Sugar Man tutta la vita.
Voto: 8/10
Come mai lo strano titolo “Dead Men Don’t Tour“? Dovete sapere che il buon Rodriguez fu creduto morto per tantissimi anni nei modi più assurdi (tra cui il darsi fuoco durante una live), le varie false notizie che sono venute fuori nel corso degli anni sono dovute molto probabilmente alla mancanza totale di notizie sull’artista, dato che in Sud Africa e Australia era così ben conosciuto non si capacitavano come non potesse esserlo proprio in America!
Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard
[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]
Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.
Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.
Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]
La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).
La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. “Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.
Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.
Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.
Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.
Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.
Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.
In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.
Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?
Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.
- Pro: la miglior band garage contemporanea.
- Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
- Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
- Voto: 9/10
Alla riscoperta del prog italiano
Dopo aver sputtanato senza ritegno qualche scamorza mal pensata o semplicemente mal riuscita del prog italiano in Non è tutto prog quel che luccica, appropinquiamoci alla seconda parte di questa mia modesta trilogia alla riscoperta non tanto critica, ma piuttosto sentimentale e ingenua, del mitico movimento prog italiano.
Vi consiglio degli acquisti non sempre di facile reperibilità, ma di assicurata qualità.
Troppo spesso ci soffermiamo sugli album più conosciuti o sulle band più consigliate. PFM, Area, il Banco, Rovescio Della Medaglia, Le Orme, Il Balletto di Bronzo (e gli altri dodicimila) senza contare tutte quelle che magari ci aspettavamo meglio, ma che invece non hanno passato la prova del tempo divenendo perlopiù materiale dal valore prettamente archeologico.
Quelli che vi propongo oggi sono album che secondo il mio modesto parere dovrebbero obbligatoriamente comparire negli scaffali di un appassionato. Naturalmente se siete appassionati di vecchia data è del tutto inutile che vi sorbiate anche questo post (tanto c’avete pure l’originale dei Gleemen e dei Dalton, pervertiti!), ma di solito il vecchio progger è nostalgico quanto Winnie The Pooh goloso di miele, o se preferite quanto Bukowski voglioso di una birra.
Cominciamo con un album che, se non avessi la ristampa del 2002, potevo permettermi solo se di nome facevo Bill e di cognome Gates.
La Seconda Genesi – Tutto Deve Finire (1972)
Questo capolavoro assoluto uscì in 200, e dico solo 200, fottute copie, e tutte (e dico TUTTE) con una copertina diversa.Ma per quale cazzo di motivo, mi chiedo, la gente fa queste cose? Forse già immaginavano che giovani virgulti come me, sentendo le prime note di Dimmi Padre, presi dalla smania di avere una dannata copia di quel discone avrebbe sborsato, chessò, 4.000 euro??? Maledetti!
Ma grazie ad un progressivo interessamento verso il prog (notare il gioco di parole) di questi ultimi anni molte di quelle opere perdute o ultra-valutate sono oggi disponibili a prezzi umani.
“Tutto Deve Finire” è un capolavoro di composizione, stile e testi, l’epicità e la squisitezza tecnica sono sopra le righe, un disco che può tranquillamente rivaleggiare con molta produzione coeva inglese. Se vi piace il prog italiano, o se volete approcciarvi a questo genere, non vedo come non partire da questo album.
- Voto: 7,5/10
Il Giro Strano – La Divina Commedia (1992)
Non fatevi ingannare dalla data di uscita, le registrazioni di questi pezzi risalgono ai primi anni ’70, ma purtroppo la band non riuscirà mai a pubblicarli mentre erano in attività.
Questa pubblicazione postuma è una fortuna, non tanto per la qualità musicale (che varia dall’eccelsa alla confusionaria in pochi attimi) ma perché rivela uno spezzato musicale senza i troppi filtri che spesso intercedono nella costruzione di un album. Liberi di spaziare e inventare Il Giro Strano capitanati da Mirko Ostinet e Alessandro Feltri non provocano l’ascoltatore con esercizi di stile, né con la sperimentazione, ma suonano quello che gli piace come gli piace.
Ascoltarsi questo album è come ritrovarsi di punto in bianco in un locale di Milano, Roma o Torino nel 1973, riassaporando le impressioni e le espressioni di quel periodo.
- Voto: 6,5/10
Jumbo – D.N.A. (1972)
Il miglior disco di tutto il prog italiano.
E adesso potete picchiarmi.
Purtroppo “D.N.A.” dei Jumbo è un album che divide decisamente l’opinione tra gli appassionati, ma credo che ciò avvenga perché esistono due appassionati di prog: il primo è appassionato di rock in generale, particolarmente di quello diretto e incazzato, il secondo invece ama più di tutto il prog nelle sue forme più complesse e esasperate.
I Jumbo sono incazzati, sono sporchi, sono virtuosi eppure imprecisi, controllati eppure anarchici, poetici come volgari. Nel loro secondo album, questo “D.N.A.”, la band di Alvaro Fella (voce e unico autore) pongono una personalità forte e decisa nel sound quanto nei concetti espressi, divenendo di fatto l’unica band di tutto il panorama italiano a riuscire a fondere l’aspetto tecnico a quello concettuale in modo perfetto, senza privilegiare né l’uno né l’altro, senza mai staccarsi da terra per volare su pensieri filosofici e senza mai adombrare la mancanza di idee con abbellimenti non necessari.
Alvaro Fella, con quella sua voce così particolare da sembrare semplicemente inadatta, è il più grande cantore della rabbia rock in Italia, sempre sull’orlo del precipizio, sempre sul punto di spezzarsi quanto gridava anatemi via via più terribili e ineluttabili, per poi riprendersi all’ultimo, consapevole che c’è sempre un momento per la rabbia come per la riflessione.
Politici, poetici, filosofici e proletari, i Jumbo sono l’essenza di cosa dovrebbe essere una rock band, al di fuori dell’appartenenza culturale e nazionale.
Magnifica ed elegiaca la suite che prende tutto il lato A: Suite Per il Sig. K, ma è altrettanto indimenticabile come comincia il lato B, con i cambi di ritmo e l’essenza rock di Miss Rand, probabilmente il singolo rock più bello della storia italiana.
Nessuna band MAI ha raggiunto le vette lirico-espressive dei Jumbo, i quali cercarono di ripetere il miracolo col terzo album “Vietato ai minori di 18 anni?” (1973), dove però l’equilibrio si perde, e dove la bilancia cede sotto il peso delle ispiratissime liriche lascia a mezz’aria la qualità musicale, meno aggressiva e autentica che in “D.N.A.”.
Disco obbligatorio non solo per i progger ma per tutti.
- Voto: 9/10
Ultima Spiaggia – Il disco dell’angoscia (1975)
Partiamo subito dicendo che se un giorno, possibilmente prossimo, qualche benefattore decidesse di ristampare tutta la discografia di Ricky Gianco gli saremmo veramente grati.
Eh sì, perché voi leggete Ultima Spiaggia (ehi: mica siamo ciechi) ma in realtà questa è la nuova fatica di Ricky Gianco dopo l’esperienza beat di Alberomotore (“Il grande gioco”, 1974), il quale per pubblicizzare la sua nuova etichetta (Ultima Spiaggia, attiva dal 1974 al 1979) produsse un album assolutamente allucinante e fuori dagli schemi.
Non è un caso se anche i più appassionati del Riccardo nazionale trovano una certa difficoltà a collocare questo album.
È progressive?
È pop?
È rock?
“Il disco dell’angoscia” è uno di quei rari casi in cui un musicista invece che seguire il tradizionale metodo di composizione prova una strada diversa. Questo album infatti è una sorta di visione d’insieme che depreda e riassimila tutti gli input della musica underground dell’epoca, incollandole in un concept psichedelico che principia da un terribile incedente d’auto.
Gianco infatti non narra una storia (modus operandi di un concept classico), né una vicenda, non cerca di esprimere una sensazione o un singolo concetto, ma ci introduce all’interno della mente di un uomo che ha avuto un incidente automobilistico, e ci fa schizzare a destra e a manca all’interno del suo inconscio, producendo così un’opera ben più azzardata di quanto si creda.
Più che un album si può parlare di esperienza.
Un caposaldo del rock, del pop e della musica italiana.
- Voto: 8/10
Delirium – III – Viaggio Negli Arcipelaghi Del Tempo (1974)
Ultimo album dei Delirium e anche il più estremo e sperimentale.
Finalmente fuori dall’ombra di “Dolce Acqua” i Delirium danno vita ad un affresco complesso e davvero avvincente (quando non incomprensibile). Il tono epico ed elegiaco riprende buona parte della produzione italiana, ma con un piglio personalissimo e un ispirato sax di Martin Grice.
Spesso snobbato, questo album contiene perle di indiscutibile valore, oltre che la certezza che i Delirium avessero ancora molto da dire.
- Voto: 7/10
J.E.T. – Fede, Speranza, Carità (1972)
La band più hard di tutto il panorama prog italiano, le sferzate di chitarra in questo album e le urla dell’hammond fanno impallidire gran parte delle altre band coeve (esclusi New Trolls). Strano constatare che dalle ceneri di una band così nacquero i Ricchi e Poveri e i Matia Bazar. Mah.
Difficile rimanere impassibili di fronte all’attacco sanguinolento de Il prete e il peccatore o di Sinfonia per un Re.
Unico album di questa strana formazione, ottima variabile ai New Trolls in tinta cattolica.
Notevolissimo anche il singolo che compare come bonus track: Guarda coi tuoi occhi, che nella sua semplicità e senza l’eccessiva ricercatezza degli altri brani dell’album se ne esce come il più quadrato e convincente!
- Voto: 7/10
Maxophone – Maxophone (1975)
Inspiegabilmente ancora poco conosciuti i Maxophone hanno scritto una delle pagine più interessanti della storia del prog italiano.
L’unico grande difetto (oltre la presenza di cori in falsetto, i miei nemici da sempre) è stata la data di uscita del loro primo complesso album: 1975. Un po’ tardino per il prog classico, ma i Maxophone a ben ascoltare non erano mica così classici.
Esperti musicisti con una sensibilità davvero particolare, tale da unire in alcuni momenti King Crimson a Supertramp! Il loro primo e unico album è davvero un ponte di passaggio che decreta la fine dell’epoca underground del prog, spostando l’attenzione su un piano più pop che lentamente invece che liberare il prog dalle catene della tecnica fine a se stessa lo trasformerà in una parodia di se stesso.
Uno degli album italiani che ho amato di più, a diciott’anni mi sono bruciato il cervello ad ascoltarli notte e giorno.
- Voto: 7,5/10
Pierrot Lunaire – Pierrot Lunaire (1974)
Ma che sto ascoltando?
Ma siamo scemi?
Più o meno fu questa la mia reazione all’ascolto del primo album dei romani Pierrot Lunaire, una band che mi ha scombussolato le interiora.
Le impressioni che compongono questo esordio sono come appena appena accennate, molti pezzi per qualcuno potrebbero addirittura sembrare incompiuti, siamo lontanissimi dalle tinte hard dei J.E.T. o dalla profusione tecnica dei Seconda Genesi, il romanticismo dei Pierrot Lunaire però non è mai ampolloso ma sempre ben calibrato.
Magnifico quando modesto, questo è un album che dispregia il prog auto-referenziale e si produce in 12 pillole di soft-rock fuori dal tempo.
Un disco che dal ’74 ad oggi non è invecchiato di un giorno.
- Voto: 7/10
Museo Rosenbach – Zarathustra (1973)
Io credevo fosse un classico ormai talmente conosciuto da essere annoverato tra i grandi capisaldi del prog italiano, ed invece trovo molti, sopratutto giovani della mia età, che ‘sti Museo Rosenbach non sanno proprio a quale parrocchia appartengono. Eppure nelle live vedo sempre un sacco di ragazzi… mah…
Comunque credo non ci sia molto da dire su questo album, ormai quasi più leggenda che altro.
I Museo Rosenbach sono sempre stati perseguitati dalla sfiga, prima tacciati di fascisti nel ’72 (il che potete immaginare cosa potesse significare in termini di apprezzamento in un circuito spartito da comunisti e catto-comunisti), poi dimenticati in Italia, successivamente rivalutati quando ormai l’unica cosa che riescono a fare è riproporre sistematicamente questo album e nient’altro.
Mi ripeto, non c’è nulla da dire su un monolite così, compratelo di corsa e non rompete il cazzo.
- Voto: 8/10
Anche per stavolta abbiamo dato, nel prossimo capitolo di questa trilogia sul prog italiano vi consiglierò qualche pezzo notevole magari non sempre incastonato in dischi indimenticabili.
Alla prossima, feccia!
Non è tutto prog quel che luccica
Lo so, lo so.
Per questo post sarò gambizzato da qualche progger alterato, però prima di essere ucciso e violato da uno di voi vorrei premettere qualcosina.
Il prog italiano è stato il mio primo amore, ma lo è stato anche di tantissimi altri. Prima del movimento prog non c’era molto in Italia di cui andar fieri (per quanto riguarda il frangente rock chiaramente). Ma la totale adesione alla rivoluzione inglese e in secondo piano americana a posteriori è quanto di più prevedibile ci potesse essere.
Se in America il rock si sviluppa su una idea fondamentale di immediatezza e autenticità (con le dovute eccezioni) in UK il rock è ammaestrato tramite la tecnica e il virtuosismo (con le dovute eccezioni). L’Italia manierista anche in musica ha preferito affrontare un discorso alla Soft Machine piuttosto che Velvet Underground, più King Crimson che Captain Beefheart, più Yes che Who.
Affermare che nel prog italiano di originale non ci sia un granché non è una bestemmia, e sopratutto non toglie valore ad alcune opere uniche ed irripetibili (di queste qualcuna sarà discussa tra qualche post).
Ho partecipato ad una accesa discussione su questo tema proprio qualche giorno fa e come al solito quando gli animi si scaldano a me girano i coglioni. La gente si offende molto di più quando gli offendi il clavicembalista preferito che la mamma. Per me i musicisti, in particolare quelli che amo, mi sembrano tutti dei gran coglioni, e comunque sanno difendersi da soli dagli insulti o dalle illazioni di un cazzone sul web.
Per fortuna che in Italia siamo così ben forniti di cavalieri senza macchia e senza paura per difendere i Queen di turno. C’è da riempirsi il cuore d’orgoglio tricolore.
Comunque quello che vi presento quest’oggi è il primo passo verso una mia brevissima trilogia (sì, m’è presa con le trilogie, sono brevi, inconcludenti e approssimative, per questo mi piacciono tanto) , lo scopo prefisso stavolta è presentarvi una parte del mio percorso nella scoperta del prog italiano.
In questo primo post stilerò una lista di quei pezzi che proprio non capisco come possono essere stati pubblicati senza vergognarsi o di quelli che non hanno passato la prova del tempo. Nel secondo vi consiglierò alcuni pezzi che invece sono (secondo me) da rivalutare. Nel terzo vi proporrò gli album che in assoluto mi sono piaciuti di più (eliminando i soliti noti: PFM, Banco, Area e via dicendo perché imprescindibili e noti a tutti).
Partiamo?
I Vocals – Il Cuore Brucia
[Per gli svegli: è una cover di Into the Fire] Eh, sì, I Vocals non sono esattamente prog, ok, ma perché privarvi di questa perla? Mica si coverizzava solo David Bowie e il brit pop, c’è chi ha tentato la strada maestra delle hard rock band inglesi con fierezza e forse poco acume. Considerando che i testi dei Deep Purple notoriamente fanno schifo e provocano la morte di un neurone di Umberto Eco ogni volta che li cantate a squarciagola sotto la doccia, la versione dei Vocals è talmente brutta da essere incommensurabilmente bella! Un capolavoro trash che travalica i limiti umani dell’immaginazione! Aggiungo una postilla personale: Il Cuore Brucia dei Vocal è anche la canzone con più ascolti completi di tutto il mio iTunes.
Gli Uh! – Più nessuno al campo
Gli Uh! citano nel nome chiaramente gli Who, ma sono una band prog. Coerenti. Più nessuno al campo fa parte di quella lunghissima trafila di canzoni che si annoverano nella grande categoria: “Salva un albero, mangia un castoro”. Ma perché la gente non ara più la terra? A che servono ‘sti campi incoltivati? Un tema micidiale per l’epoca, oggi al ragazzino con l’iPod ultima generazione, disperato perché non sa se riuscirà a comprarsi il PC pompatissimo per l’uscita di Dragon Age 3, fottesega del campo d’arare. Il pezzo in sé è tutto tranne che maligno, carina anche la parentesi strumentale, ma cazzo, ‘sto testo fa davvero scendere le palle!
I Califfi – Fiore Finto, Fiore di Metallo
Ma cosa non vi scovo io? Quali perle! I Califfi si prodigano in un rock impegnato vecchio stile con un risultato a metà tra una sigla di un anime anni ’70 e una serie di virtuosismi fuori luogo, più che rock sembra plastica tale è la sua immediatezza e freschezza compositiva. Ecco, gran parte del sound di moltissime band prog era legato ad una sorta di finzione, era tutto molto cartonato, mancavano però i sani attributi maschili.
Jacula – In Cauda Semper
No ma… davvero? Davvero qualcuno ha preso sul serio gli Jacula? Davvero qualcuno li ha accostati ai Black Sabbath? Anche scavando nella memoria sono pochi gli album così spiccatamente tamarri e privi di contenuti come “In Cauda Semper Stat Venenum”. Ok le atmosfere gotiche, ma una cosa sono i Current 93, un’altra gli Jacula! Quando a metà dei 9 lunghissimi minuti di In Cauda Semper parte anche la sezione ritmica c’è da mettersi le mani nei capelli. Il testo in italiano poi è da infarto…
Flea On The Honey – Mother Mary
Sebbene siciliani, e quindi per me son già due voti in più, i Flea On The Honey (poi Flea, poi Etna e poi per fortuna si son fermati) nel loro primo omonimo album mi hanno insegnato molto, in primis come si fa un album rock davvero brutto. I musicisti son mica scarsi, però la musica torna a far scendere i coglioni. Mother Mary anche stavolta presenta un testo da nobel, utilizzando un tema epico molto caro ai progger italiani: il cattolicesimo. Cosa c’è in fondo di più epico e devastante di un uomo crocifisso e risorto, Re della gente tutta, il quale tornerà per giudicarci inesorabilmente? Dai cazzo, in effetti è figo. Anche se, dopo 2000 anni, un po’ ripetitivo.
I Maya – Salomon
No, non state ascoltando il coro della chiesetta di paese dove vostra nonna va tutte le domeniche mattina. Sono I Maya. Praticamente la conferma ufficiale che in Paradiso si ascolta un sacco di merda.
Moby Dick – Il Giorno Buono
Nel caso non l’aveste capito da soli i Moby Dick si chiamano così in omaggio ai Led Zeppelin, e tra cover e pezzi di collage tra idee originali e plagi di questa caratura si sono fatti paladini della hard rock band inglese per eccellenza. ‘Na roba deflagrante.
Il Balletto Di Bronzo – Incantesimo
Non vi incazzate, a me piacciono i Balletto di Bronzo, ma ditemi voi se questo è un testo normale oppure è stato rubato da un set di fantascienza porno-soft. Ditemelo. Sù.
Milords – Solo vento, solo sabbia
Difficilissimi da reperire i Milords non mancano di certo tra i collezionisti più compulsivi. Tra strumentali alla Il Punto e schizofrenia beat, momenti filo-Battisti e pop, senza dimenticarci degli “effetti speciali” atroci, giuro, cazzo lo giuro davanti a tutti voi, i Milords hanno creato un genere unico, nuovo, inimitabile. Una smerdata davvero inimitabile.
Black Sound – Smog
Torniamo sul tema civiltà contro natura con i Black Sound, band trevisana ormai di culto della sotto-cultura musicale italiana. Commistione unica di cliché e strutture sfruttate fino all’inverosimile, i Black Sound sono una fotocopia vivente di tutto quello che tirava all’epoca, mettendo qua e là un eco (che fa figo).
Hunka Munka – L’aeroplano d’argento
“Dedicato a Giovanna G” degli Hunka Munka fu un acquisto obbligatorio, primo: lo conosceva un sacco di gente tranne me, secondo: la copertina è una figata allucinante. Essendo stato ristampato di recente lo comprai senza dover spendere i canonici sessanta euro che di media ti spillano per queste bellezze italiane (parlo ovviamente di pezzi di plastica graffiati dai gatti e con copertine ricamate con un km di scotch, le copie messe bene vanno via a botte di 100.000 €!). Cazzo gente, ma che droga vi sparate in vena? No, sul serio, che cazzo succede in questo album??? Tutti ‘sti suoni che esplodono dalle casse saturano l’ambiente peggio di un disco degli Sly & The Family Drone, ma poi l’avete capito bene il testo? Che cazzo vuol dire “se avessi un aeroplano d’argento farei le corse con il vento, ed una sigaretta col sole mi accenderei” ma scherziamo??? Porca vacca gente, all’epoca ne passava di roba buona…
So bene che questa mia lista è incompleta e di certo non spaventosa come potenzialmente potrebbe, così invito chiunque passi di qua a lasciare pure un suo contributo, sarà pubblicato (deh, sì, col vostro nome, ok) assieme agli altri – se avete un link da qualsiasi piattaforma dove poter ascoltare il pezzo consigliato sarebbe gradito, ovviamente mi aspetto anche una gustosa descrizione!
Alla prossima, feccia!
Suck – Time To Suck
– Guarda che ‘so un gruppo sud-africano con le palle! –
– Non lo metto in dubbio, anche le cover presenti sembrano gustose, però vorrei ascoltarlo prima. –
– T’ho detto che c’ho il piatto sfasciato, dai gesùmadonna, te lo fo’ a quindici euro, ed è pure origgginale. –
Era un po’ che non rimpinguavamo la sotto-categoria “buttare i soldi dalla finestra”, e credo che qualche consiglio al non-acquisto possa solo giovare alle tasche altrui.
In realtà “Time To Suck” (1970) è una mia vecchia conoscenza, tre anni fa stavo in fissa per i Freedoms Children, band hard-psych-rock anni ’70 sudafricana, e un tizio, quello del dialogo riportato come incipit del post, ascoltando i miei deliri su questa band mi consigliò i Suck, coevi e connazionali dei Children.
Quanto sono stato coglione.
Già dal titolo e dal nome della band avrei dovuto dedurne le caratteristiche, eppure quando mi prende una fissa sono piuttosto predisposto alle inculate.
In questi tre anni ho incontrato molta gente che conosceva questo album (ma nessuno che lo possedeva materialmente) e i giudizi erano piuttosto inconciliabili. O proprio li odiavano oppure li amavano con moderazione.
Bisogna dire in difesa di questa band anch’essa hard-psych-rock (che significa: riffoni alla Mountain mescolati a tinte psichedeliche alla Move-Donovan) che alla fin fine “Time To Suck” non è per niente un disco di merda. È solo un disco sbagliato.
Essendo “Tempo di succhiare” un album principalmente di cover è costretto a rivisitare dei classici rock in modo originale. Se non ci riesci stai semplicemente suonando un pezzo scritto da un altro amigo.
Per alcuni i Suck ci riescono, per me invece il disco è una straordinaria parodia dell’hard rock. Un monumento trash alla pari di “Glitter” di Gary Glitter o “Bananas” dei Deep Purple.
Per riuscire a provare piacere da questo album bisogna essere feticisti di quel sound ad un punto tale da non avere più coordinate razionali per giudicarlo. È la totale estasi sessuale che acceca i sensi e il cervello, altrimenti non si spiegherebbe perché Joe Satriani riesce ancora a vendere le ristampe di “Crystal Planet”.
Si apre con Aimless Lady dei Grand Funk Railroad e già c’è tutto. Virtuosismi vocali, passaggi veloci e un sound così hard da sembrare taroccato. Tutto troppo esasperato per poter passare per una cosa seria.
Si passa veloce ad una breve, confusa e a tratti leggermente delirante, versione di 21st Century Schizoid Man. Il livello è quella della classica band prog italiana che coverizza il successo rock del momento.
L’unico vero gioiello è la posata Season Of The Witch del buon Donovan, sentendola mi sono chiesto come sarebbe stata une versione dei nostrani Metamorfosi.
Assieme a qualche cover di Free, Colosseum e un’altra dei Grand Funk (con un attacco di chitarra formidabile), c’è posto anche per i Deep Purple e qui si va nel trash storico. Mitica e scandalosa versione di Into The Fire che così si unisce alla ben più nobile trashata (il riadattamento del testo è epico) dei Vocals: Il cuore brucia.
Che dire, se siete storici dell’hard rock e volete avere tutto, ma proprio TUTTO questo discone è imprescindibile. Stesso discorso se siete dei perversi feticisti del trash made in seventies. Se invece cercate un buon album hard rock anni ’70 rivolgetevi ai Mountain o a qualche band più competente.
- Pro: è sempre interessante poter ascoltare in che modo gli impulsi del rock americano siano arrivati ovunque, e con quali conseguenze nel sound.
- Contro: non riesco a smettere di ridere mentre ascolto War Pigs*. È più forte di me. Ma non il ridicolo (malpensantidi’stocazzo) ma per il tono allucinato del cantante e le percussioni sconclusionate.
- Pezzo Consigliato: cazzate a parte, Season Of The Witch ha più di una buona idea.
- Voto: 4/10
*ATTENZIONE, la delirante versione di War Pigs è contenuta soltanto nella nuova riedizione in CD, non nel LP originale!
Pere Ubu – Dub Housing
Quando nel 1896 Alfred Jarry si presentò al Théâtre de l’Œuvre di Parigi sapeva bene quali sarebbero state le reazioni al suo Ubu Roi. Sdegno, orrore, disgusto e scandalo, non necessariamente in quest’ordine. A Jarry non interessava rivoluzionare il teatro a questo ci pensavano gli altri. A Parigi era già passato Ludwig Chronegk con la sua compagnia di Sax Meiningen e soli nove anni prima della pièce di Jarry tra i punti di riferimento rivoluzionari per il teatro c’era il Théâtre Libre di André Antoine.
Chronegk e Antoine sono due seri e colti protagonisti del nuovo teatro naturalista (più il secondo in realtà) nato sotto l’egida di Émile Zola, la grande rivalsa intellettuale della borghesia, l’inizio di un nuovo modo di vedere la realtà, e di tutto ciò a Jarry non poteva fregare di meno.
Quando nel 1975 i Pere Ubu nascono dalle ceneri dei Rocket From The Tombs siamo negli anni d’oro della disco music. Mamma Mia, singolo del terzo album degli ABBA, spopola in tutto il globo, gli Earth, Wind & Fire si auto-celebrano con una live che prende il nome di un loro successo “Gratitude”, tra i dischi più ballati in discoteca c’è il secondo album dei K.C. and The Sunshine Band. Il rock dichiaratamente estetico trova la sua definitiva consacrazione in “Alive!” dei Kiss, ma dove sono i veri rockettari?
Era l’anno delle seghe mentali, dal kraut-rock dei Neu! all’ambient di Brain Eno, fino allo sconvolgente e improbabile “Metal Machine Music” di Lou Reed, in classifica compariva soltanto il soft rock dei Pink Floyd, mentre gli Henry Cow pubblicavano il loro capolavoro. La rivoluzione ambient era agli albori, gli altri miti erano Queen, Journey e Springsteen, e di tutto ciò ai Pere Ubu non poteva fregare di meno.
Ciò che lega Jarry ai Pere Ubu non è solamente il nome del protagonista dell’Ubu Roi (Père Ubu, ovvero Padre Ubu) , ma è uno stile di vita e una genialità fuori dagli schemi usuali. Chi dice che la grande Arte è tale perché universalmente comprensibile oltre a dire una scemenza non può assolutamente capire queste due entità che proprio dell’incomprensione e della incomunicabilità fecero un’Arte tra le più universali di tutte.
Recensire i Pere Ubu è un compito difficile perché il contesto socio-culturale che gli appartiene si ingrandisce di anno in anno in maniera indiretta, ovvero tramite una progressiva oggettivazione della storia della musica. In pratica più il tempo passa e più le tematiche legate agli album dei Pere Ubu diventano chiare e fungono da imprescindibile chiave di lettura per gli anni ’70.
Quando si parla di questa band, almeno per quel che concerne i primi album, è quanto mai limitativo parlare semplicemente di rock. La new wave (il movimento a cui generalmente vengono legati i Pere Ubu) ha le sue fondamenta in “Marquee Moon” dei Television e “Blank Generation” di Richard Hell & The Voidois, ma quanto di quelle fondamenta è presente nei Pere Ubu? Assolutamente tutto, ma immerso e diluito in tanto altro.
Il problema che di solito si incontra nel parlare di questa band è nel descrivere la loro musica a parole senza risultare dannatamente criptici. Chiaramente col primo paragrafo di questa recensione mi sono giocato il 99% dei visitatori casuali o di chi voleva semplicemente “quella cazzo di recensione!” ma mi sta bene, perché dell’Arte o se ne parla in maniera esauriente o è meglio stare zitti.
Di cosa parlano i Pere Ubu?
Prima di tutto dobbiamo capire che più che raccontare qualcosa i Pere Ubu esprimono qualcosa. Quello che ne esce fuori è la vera blank generation, quella che Richard Hell ci svela con una formula semplicemente punk i Pere Ubu riescono a farcela vivere con espedienti che si avvalgono di una esecuzione “teatrale” del loro essere punk, uno spettacolo uditivo non dissimile da una pièce teatrale radiofonica.
Quando un critico etichetta una band art-rock, art-punk o cose così, di solito sta a significare che non c’ha capito un cazzo di quello che ha ascoltato, ma gli è piaciuto. In questo caso art-punk è una denominazione perfetta, se non l’unica, che possiamo affibbiare a questa band.
I suoni industriali e post-apocalittici che pervadono i primi album dei Pere Ubu sono pennellate che colgono gli aspetti più introversi del nichilismo giovanile a metà degli anni ’70; se il punk è un’arte naturalista che punta a rappresentare in modo scientifico l’età industriale (vedi il sound sporco della Detroit di MC5 e Stooges) e il disagio adolescenziale (Sex Pistols, Clash, Richard Hell, etc.) quello che fanno i Pere Ubu è descrivere l’universale partendo dalle piccole impressioni vicine al particolare.
Non vorrei che qualcuno leggendo pensasse che uso dei giri di parole solo per masturbarmi mentre mi rileggo, per evitarlo sintetizzo quanto detto affermando che i Pere Ubu sono difficili da approcciare perché il loro sound è piuttosto peculiare e unico, ma essendo l’eccezione ad un panorama musicale già delineato sono anche quelli che propongono un nuovo punto di vista grazie al quale possiamo comprendere fino in fondo il quadro generale.
Questa aura ermetica che avvolge i Pere Ubu è la stessa che immergeva Jarry e la sua Patafisica, una corrente di pensiero che non a caso sarà molto cara alla band.
I rumori fastidiosi, i suoni acidi e il nervosismo che pervade le prime opere della band americana altro non sono che la trascrizione in partitura delle paranoie mentali che ben si sposano delle volte con un certo senso di inconcludenza.
Si può tranquillamente affermare che i più onesti cantori dell’era moderna sono proprio i Pere Ubu.
Ma ora è meglio se passiamo alla recensione vera e propria.
Recensisco “Dub Housing” (1978) non perché sia il miglior disco dei Pere Ubu (anche i sassi sanno che il loro primo album, “The Modern Dance”, è inarrivabile) ma perché è l’album a cui sono più affezionato.
Sì, sono un cazzone, portate pazienza.
Quella che considero la migliore e sintetica descrizione di questo capolavoro assoluto del rock è la seguente:
Lo stile straordinariamente vivo di colore e di metafora, inzeppato di allusioni e trasposizioni culturalistiche, impastato di terminologie classiche o rare, come di parole di un gergo […] provinciale, per quanto di una costante acutezza e finezza, rivela, a contrasto, una sorta di voluta atonalità, come di un discorso costantemente tenuto sulla corda più tesa, prossima a spezzarsi.
Queste parole non sono di un esperto musicologo o di un critico di Blow Up, le ho tratte da una straordinaria introduzione scritta da Sergio Solmi (notevole poeta e grandissimo saggista particolarmente legato a Leopardi) al testo teatrale dell’Ubu Roi di Jarry. Mentre leggevo in treno questo passaggio non mi sovvenne nulla, ma ascoltando quello stesso giorno “Dub Housing” mi resi conto che l’humus non era poi così diverso da quello dei pazzi testi recitati da David Thomas, dalle finezze di Tony Maimone al basso, dallo spezzettato e nervoso lavoro al synth di Allen Ravenstine (il vero protagonista di questo secondo album dei Pere Ubu).
Si comincia con Navvy, forte del ritmo serrato della batteria di Scott Krauss mentre Dave Thomas interpreta un ragazzo che ciondola scomposto e che di tanto in tanto urla un “libertà!”, i nervosi interventi di Ravenstine sono semplicemente geniali, il pezzo in sé è un classico imprescindibile.
Dal dialogo tra il basso di Maimone e un giro di synth pregiatissimo veniamo introdotti in On The Surface, quasi un pezzo surf rock ma pregno della nevrosi che caratterizza l’album, il filo teso sempre in procinto di spezzarsi tra festosità e nevrosi totale è un must ricorrente nel sound di molti dei primi pezzi dei Pere Ubu.
Dub Housing esprime e racconta i suoni e le sensazioni della band durante la registrazione di questo album in questa abitazione residenziale nella quale vivevano. Se vogliamo potremmo un sintetico manifesto di questo secondo disco.
Caligari’s Mirror fa della dicotomia tra festosità e nevrosi il suo sound. Il testo tra il parodico e il grottesco fa riferimento ad un certo specchio di Caligari, probabilmente si tratta di un gioco, più precisamente di una deformazione, quella da Calibano a Caligari (uniti entrambi da diverse accezioni di grottesco), in questo modo la band citerebbe lo specchio in cui Calibano non accetta la sua natura mostruosa ne La Tempesta di Shakespeare* e avrebbe anche maggior senso contestualizzato col resto del testo (la deformazione di citazioni shakespeariane è il fulcro di gran parte dell’opera di Jarry).
Thriller! è una gemma di angoscianti impressioni sonore da vero film di serie B dell’horror, un momento anarchico che sembra uscire da alcuni dei passaggi più angosciosi di Sysyphus di Richard Wright (lo so, è quantomeno azzardato in termini strettamente musicali come paragone) ma se Wright in “Ummagumma” sperimenta seguendo fedelmente le orme del maestro John Cage, i Pere Ubu invece disegnano un quadro paranoico fatto di suoni legati alla modernità alquanto “avanguardistico”, l’angoscia è voluta e ricercata con accuratezza.
Il lato B si apre con le visioni nonsense di Thomas seguite da un rock de-strutturato alla Captain Beefheart, la sinergia tra i membri della band in questa I, Will Wait è davvero spettacolare.
Su questo tenore anche la successiva Drinking Wine Spodyody, un’orgia sconclusionata magistralmente eseguita.
(Pa) Ubu Dance Party ancora una volta è in equilibrio tra un vero e proprio party e un sound più “industriale”, è anzi il pezzo che sviluppa maggiormente questo dialogo con un riff surf-rock e una coda che è un crescendo nevrotico disarmonico.
Blow Daddy-o è un breve divertissement con il synth che si ripete come in un loop accompagnato da brevi e veloci fraseggi degli altri strumenti. Non c’è un vero inizio né una vera fine. Nel titolo “daddy-o” si riferisce ad uno slang che purtroppo si può ricondurre a molte cose, in questo caso credo sia al dispregiativo che si affibbia a chi è più vecchio di te ed è anche un po’ rompicazzo.
Le prime note di Codex ci trasportano in uno scenario post-apocalittico, Thomas esprime in modo sublime lo scorrere lento e inesorabile del tempo nella mente:
I think about you all the time
step after step
block after block
laconico ma esaustivo. Le ultime note in coda suonano come mai definitive, l’unico modo con cui poteva concludersi ”Dub Housing”.
Questa recensione è stata per me necessaria, ovviamente non esaurisce in alcun modo la questione Pere Ubu, e forse non avvicinerà nessuno a questo splendido album. Questo perché è davvero lunga, pesante e a tratti semplicemente scritta da cani, ma non mi sarei sforzato tanto se non ne valeva pena.
“Dub Housing” è uno dei capolavori del rock, della musica e non mi sento un’idiota ad asserire che lo è anche dell’Arte in generale.
- Voto: 8,5/10
UN CONSIGLIO:
in Italia è stata prodotta probabilmente la miglior versione in vinile di questo disco. È della Get Back, sfortunata etichetta toscana legata principalmente al garage rock, la quale ha avuto la straordinaria possibilità di incidere dai nastri originali dei Pere Ubu. Con questa edizione possiamo assaporare il fantastico lavoro ingegneristico che Ken Hamann fece per rendere giustizia alla complessità sonora della band. Se la trovate acquistatela senza esitazioni. Ah, tranquilli, non sono ammanicato, quando la Get Back ha chiuso i battenti non avevo neanche diciotto anni.
[i Pro e i Contro non sono presenti alla fine di questa recensione perché credo di essere stato esauriente, quindi sì: pecco di presunzione e non è una novità]
*lo specchio di cui parlo non è nel testo originale, ma è una figura ormai legata al Calibano shakespeariano. L’iconografia di questo celebre specchio è stata introdotta nell’edizione del 1891 del romanzo Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Entrata nell’immaginario collettivo (per ben ovvi motivi) la figura di Calibano e il suo specchio sono quasi inseparabili.