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I 6 dischi essenziali per capire il garage rock (più o meno)

Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.

Jad Fair & Daniel Johnston – It’s Spooky

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Etichetta: 50 Skidillion Watts Records
Paese: USA
Pubblicazione: 1989

Sometimes when I’m watching television
and I’d think the most of the people in the movie
are probably dead
and it’s spooky

Premessa necessaria: a me Daniel Johnston mi fa cagare dalle orecchie e mi stimola la diuresi più che parlare con i passerotti. Johnston è diventato un culto solo perché riflette tutto quello che di imbarazzante c’è in noi, e in più un tale Kurt Cobain voleva fare l’alternativo davanti alla TV (che poi va anche bene, quel poco di notorietà che hanno da noi i Meat Puppets la devono esclusivamente ai Nirvana). Però. Ci sono sempre delle eccezioni. Sempre. E sono messe lì per farti ricredere su ogni decisione che hai preso negli ultimi 28 anni: è questo il lavoro giusto per me? scelsi la giusta università una volta finita la fogna liceale? sarà davvero lei la ragazza che mi scoperò per vendicarmi della mia fidanzata? sarò mai capace di scrivere una recensione decente? No. Avrei decisamente dovuto prendere farmacologia. Però adesso siamo qui. Io e te. Che bella coppia eh? Tu, davanti allo schermo voglioso di leggere una recensione di un disco che, probabilmente, non ti interessa poi così tanto ascoltare, ed io qui, mentre dovrei fare l’inventario come un bravo commesso con un contratto da fame, scrivo di quanto mi stia sulle palle Daniel Johnston. Splendidi.

La malinconia infantile di Johnston però ha indubbiamente un fascino universale. Difficile non sentire qualcosa durante l’ascolto di Pot Head, perché la voce e quella struggente melodia ti colpiscono sulle palle con un gancio destro mentre tu guardavi il sinistro. Detto questo però gran parte dei pezzi di Johnston non vogliono dire un bel niente, se non stronzate random di un tipo che chiaramente ha avuto qualche problema nella “fase anale” della sua crescita.

Ora però parliamo di cose serie: chi sarebbe questo Jad Fair? Se te lo chiedi probabilmente non sai nemmeno chi siano gli Half Japanese, e sarebbe troppo lunga da discuterne qua, magari facciamo la prossima volta, pizzata e birra dove vuoi tu. Ora come ora quello che ti basta sapere è che Jad Fair non è un menomato sessuale come Johnston, ma è uno dei personaggi più difficilmente inquadrabili dell’underground americano. Già attivo nella prima metà degli anni ’70, Fair è un songwriter a dir poco eccezionale, che alterna lavori estremamente toccanti (This Could Be The Night) a follie nonsense (No More Beatle Mania), per poi riempire la sua personale discografia di un sacco di album autoreferenziali che però hanno sempre il gusto acidognolo dell’urgenza emotiva. Capirete il mio sconcerto quando scoprì che Jad Fair, un mio mito personale per quanto riguarda la coerenza artistica dietro ogni suo progetto, anche quello più scabroso e inascoltabile, aveva collaborato più volte con Daniel Johnston alla fine degli anni ’90. Lo capisci, nevvero?

It’s Spooky” uscito nel 1989 è un album che non ho mai voluto ascoltare, perché non mene fregava un cazzo, semplicemente. Poi un giorno, attanagliato dalla noia e dal mal di vivere, clicco distrattamente su un link di YouTube: Frankenstein Vs The World. Quanto odio le eccezioni.

Questo album è una figata non perché c’è Jad Fair, ma perché c’è Daniel Johnston. Fair ci mette certamente la sua vena freak e irriverente, ma Johnston è la molla emotiva dietro l’album, la sua palese incapacità letta troppo spesso come eccesso di sensibilità, in questo caso lo è sul serio, alla faccia mia e di Kurt Cobain.

La batteria non riesce mai a tenere il tempo, le liriche non seguono neanche le strutture più banali, le voci di Fair e Johnston sono imbarazzanti e le melodie elementari, eppure tutti questi elementi assieme che negli Half Japanese era motivo di goliardia e insolenza, in questo album sono come un gospel liberatorio di tutti i malanni del mondo. C’è una gioia irrequieta, inconsapevole e bizzosa, che si smuove tra le coperte mattutine che ricoprono l’ascoltatore, sembra quasi di ascoltare una musicassetta nascosta sotto montagne di vecchi fumetti. Fair ci mette un metodo, Johnston ci mette tutta l’anima.

Non c’è dunque contrasto, non c’è da una parte un lavoratore onesto dell’underground che impone una sua cifra estetica e dall’altra un coglione, “It’s Spooky” non è una collaborazione, è frutto di una sola testa dalla quale sono cresciute delle sensibilissime antenne che captano i disagi interiori e li esteriorizzano con genuina immediatezza.

Cosa diversifica l’approccio di un gruppo come gli Half Japanese da questo album? O quello di un qualsiasi altro disco di Johnston? Nel primo caso manca la follia programmatica, lo scherzo portato alle estreme conseguenze. Del secondo quel totale spaesamento emotivo e la perdita dei punti fermi che rendono la vita vivibile (ecco, ho appena capito perché Johnston spacca, ‘ste cristo d’eccezioni!). “It’s Spooky” è sì melanconico e irriverente, ma con un solido fondo d’ottimismo e amore che rende l’ascolto molto più spensierato e partecipe. (sì, lo so che è una reiterazione, l’avevo già detto qualche rigo fa, però mi piace parlarti, seguire con avidità il tuo sguardo curioso mentre ti inietto tutte queste stronzate sù per il tuo affascinante cervelletto)

Non vedo l’ora di partire la prossima settimana, staremo tre ore in auto e una di quelle è già prenotata per un lungo e totalizzante ri-ascolto di questo strano e curioso album, che prende vita fin dai primi istanti di silenzio, sgattaiolando tra le nostre corde più fragili senza romperle mai, pizzicandole con gioia e sana malinconia.

Soft Boys – Underwater Moonlight

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Etichetta: Armageddon
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 28 Giugno 1980

Ideale crasi tra Syd Barrett, Rolling Stones, Captain Beefheart, Beach Boys e Beatles, “Underwater Moonlight” è certamente uno degli album più eclettici della storia del rock, oltre che uno dei più discussi, anche da chi in realtà non ne ha una opinione in merito.

Difficile trovare qualcuno che non tacci UW di capolavoro passando direttamente col rosso, quando invece il secondo album dei Soft Boys alla sua uscita fu quasi ignorato.

In realtà se vogliamo parlare di UW con cognizione di causa dobbiamo necessariamente partire dall’ancora più ignorato esordio della band inglese: “A Can Of Bees”. Registrato nell’estate del 1979 e pubblicato quello stesso anno. L’esordio di Robyn Hitchcock e Kimberly Rew nello spastico mondo del rock di fine ‘70 è deflagrante, zeppo di sfuriate elettriche alla Barrett, qualche percussione che ricorda i Beatles più psichedelici, ma sopratutto una clamorosa riscoperta del secondo periodo dei Beach Boys, quello meno famoso ma più interessante, partendo dalle direttive angosciose di “Surf’s Up” (1971). La sezione ritmica varia dai Byrds per passare al kraut rock dei Can, precedendo di molto la felice commistione garage-kraut dei Thee Oh Sees.

Forse la chiave della celata malinconia di UW sta proprio tra le noti gravi e profetiche di quella gemma dei ’70, poco considerata persino dagli appassionati, quel “Surf’s Up” di cui prima. Alla fine del loro percorso i Beach Boys erano riusciti a produrre album molto influenti (su tutti “Pet Sounds” e “Smile”) senza mai sfruttare a pieno il genio di Brian Wilson, uno che da solo probabilmente valeva la somma dei Beatles moltiplicata per due. Dalla mediocrità voluta dal resto della band e da chi produceva i loro album, Wilson riusciva con i suoi colpi di genio a trovare sempre qualche soluzione originale e brillante (God Only Knows ve la ricordate, no?). Purtroppo il più delle volte le sue capacità compositive venivano usate per fini meramente commerciali, in particolare stravolgendo la musica surf, depotenziandola del suo retaggio culturale underground, e rendendola una sorta di tragico ritorno ai complessi vocali a cappella, facendo fare al rock di Ventures, Shadows, Dick Dale, Challengers, Trashmen non uno, non due, ma dieci passi indietro.

Detto questo Wilson, in mezzo ai suoi problemi con le droghe e la sua sempre più instabile sanità mentale, che lo porterà ad essere sfruttato per anni da manager senza scrupoli, nel 1971 compie un mezzo miracolo, inventando una delle canzoni di maggior rilievo nella musica pop, incastonata egregiamente nel diciottesimo lavoro in studio della band, parlo ovviamente di quel bellissimo viaggio negli abissi della depressione che è ’Til I Die. Il pezzo, oltre ad essere spacca-culi oltre ogni immaginazione, reinventa certe atmosfere care ai Beach Boys, seminando il terreno per la neo-psichedelia.

Robyn Hitchcock parte da quei cocci melodici, da quella membrana opaca che copre le voci, sfruttandone le intuizioni timbriche e ringalluzzendone decisamente gli animi, come per eccedere in senso opposto.

“A Can of Bees” è già un capolavoro per quanto mi riguarda. Il restyling che Hitchcock e Rew fanno ai Rolling Stones in Millstream Pigworker ha dell’inaudito. Attorno a loro le pulsioni new wave stanno cominciando a virare verso la musica da classifica, e i Soft Boys invece riprendono i dinosauri tanto odiati dai punkers, riscoprendoli in una veste intellettuale che quasi li tradisce – il che, pensandoci bene, è l’unico vero modo di riscoprire qualcosa e riproporlo. Il tutto senza dimenticare il Beefheart di “Lick My Decals Off, Baby, con una batteria schizzata che delle volte inciampa come quella di John “Drumbo” French, delle altre invece sembra quasi voler anticipare quella di George Hurley (Minutemen), ma senza i suoi eccessi virtuosistici.

Questo party-revival però trova una sua forma più compiuta in UW. Già nel super-compatto riff di I Wanna Destroy You (a mo’ di Television), si capisce che i Soft Boys hanno trovato i giusti equilibri tra di loro.

Ci sono dei momenti in questo album che farebbero gridare al miracolo anche ad un fan dei Nazareth. Come il rispolvero perfettamente riuscito di Barrett in Kingdom of Love, melodia favoleggiante e le chitarre opprimenti per poi lasciarsi andare in riff alla Fleshtones. Oppure la cadenza noir-porno di I Got The Hots, sfacciata come una ballad degli Stones, onirica come una jam dei Doors. I Byrds che ritornano in Insanely Jealous, la voce di Hitchcock che solo per un caso non si trasforma nel ripugnante ghignare rauco di J. G. Thirlwell, sempre sul filo, pronta in attimo ad esplodere, come anche l’intera canzone, peccato che Rew non ci da questa soddisfazione, la sua chitarra cresce, cresce e cresce, brutta stronza. Il ritmo post-industriale per Tonight, dalla parte giusta degli anni ’80. Brillante anche la traccia che dà il nome all’album, la quale chiude l’esperienza con un brio lisergico.

Menzione a parte per Old Pervert, capolavoro assoluto della band e IMHO di Hitchcock. Uno degli attacchi più sconcertanti mai registrati su un 33 giri, Hitchcock e Rew ghermiscono le loro chitarre che cercano di fuggire come cavalli imbizzarriti, batteria e basso sembrano uscite fuori da “Trout Mask Replica”, una cadenza che più storta e malsana non si può, un cazzo di gioiello da ascoltare e riascoltare fino al trascendere se stessi.

Difficilmente nella musica rock si è potuto constatare un ripescaggio così intellettuale della prima psichedelia, che fa razzia di pop e underground senza pregiudizi, mescolando elementi già usati e riusati fino allo sfinimento facendoli suonare come nuovi. Inutile dire che dopo questo album i Soft Boys non hanno saputo più ripetersi – anzi si sono proprio sciolti. Robyn Hitchcock oggi è considerato uno degli autori più acuti della sua generazione, e anche il suo ultimo album uscito quest’anno, una collezione di perle folk-rock cerebrali,  ha strappato consensi unanimi dalla critica. Kimberly Rew oggi è celebre per aver firmato il riff di Walking On Sunshine, proseguendo una carriera smaccatamente commerciale negli anni ’80. Ma a noi siamo contenti così.

 

The Celibate Rifles – The Turgid Miasma Of Existence

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1986. Australia. Il punk è vecchio di 10 anni, e a molti ha già bell’e che rotto il cazzo. Alcuni punkers, in particolare quelli inglesi finora fedeli seguaci degli Stooges e dei Velvet Underground, stavano per abbracciare le classifiche laccate a suon di giacche orribilmente colorate, ritmi ballabili e synth costosissimi. 10 anni sul groppone è già i Ramones sembravano roba vecchia, dei dinosauri. Esce in questo contesto THE TURGID MIASMA OF EXISTENCE, delicato come una pugnalata durante il sonno, terzo album dei The Celibate Rifles, apice di una carriera del tutto sconosciuta al grande pubblico.

Dopo i primi vagiti garage-surf, la band australiana virerà con risolutezza verso un punk decadente, molto diverso da quello delle due band di riferimento di allora, Saints e Radio Birdman, trovando in TURGID una forma molto elaborata esteticamente ma efficace al primo ascolto.

Il muto urlo proferito durante un incubo. Non riesco a descrivere brevemente questo album con altre parole. Troppo Noisey? Allora diciamo che le scariche punk dei Celibate Rifles raccolgono il nichilismo degli Alley Cats ma gli tolgono il gusto profetico del gruppo losangelino. Se gli Alley erano dei liceali turbati da domande esistenziali, i Celibate Rifles sono adulti che non accettano le risposte della massa. Non a caso laddove nei primi c’era un abuso di nenie e ritornelli cantabili, negli australiani c’è una genuina e decadente furia distruttrice.

Il disgusto dei Celibate per il modo in cui viene condotta l’esistenza umana è totalizzante, un grido angosciante che fuoriesce da una bocca indicibile, cartavetro sulle corde vocali, simboleggiato negli acuti e lancinanti assoli di Kent Steedman. Se c’è un album punk dove gli assoli non sono di troppo capite bene che è questo, la loro forma strettamente diegetica ne giustifica appieno l’esistenza, evidenziando un lavoro pregresso di coerenza estetica. 

Appena posata la puntina sembra quasi di ascoltare una formazione strumentale, tanto è sospesa la frenetica introduzione di Bill Bonney Regrets. Bisogna aspettare più di un minuto per la voce di Damien Lovelock, che in tutto l’album quasi mai cede agli anthem punkettoni, piuttosto accompagna assieme alla sezione ritmica l’andare malsano e ineluttabile della musica. Ogni elemento insomma non è stato pensato di certo per la fruibilità, ma non cede ad un certo piglio intellettuale, mantenendo costante l’equilibrio tra esistenzialismo e riff della Madonna.

Dio, potrei stare ore a scrivere queste cazzate mentre TURGID continua a girare e girare e girare. Se vi chiedevate da dove arrivava un certo spleen nell’alternative degli anni ‘90 tipo Built To Spill, beh, eccolo qua.

I Celibate sono fedeli alla recente storia punk senza però scadere nei cliché del genere, concedendosi anche dei momenti garage-pop (Glasshouse), ma costruendo sapientemente un ambiente sonoro che non ha nemmeno bisogno delle liriche per comunicare il suo afflato – mi viene da pensare, non c’entra molto forse: cosa sarebbe stato Nick Cave senza Blixa Bargeld? Nick ci metteva l’anima è vero, ma Blixa gli forniva un ambiente sonoro brulicante di significanti.

E di significanti ne è strapieno TURGID, che pure suona sincero come un amico dopo la terza lattina sul divano, ma nasconde una profondità che non vuole essere tirata fuori, e intanto si insinua nella tua testa, creando quella connessione implicita che le parole non possono innescare. Per me quell’amico è Dave Morris, che con la sua chitarra disegna metodicamente riff che non dispiegano intenzionalmente tutta la loro furia potenziale, è lui a sostenere la voce monocorde di Lovelock e lo stridio esistenziale di Steedman, è lui lo sguardo chino del tuo amico che non ti aspetti, ma che ti dice tutto. Magistrale.

Ho letto da qualche parte che questo è il miglior album punk degli anni ’80. Sinceramente non ho mai avuto la presunzione di poter stilare delle classifiche. Non so nemmeno se quello di cui stiamo blaterando adesso, che ci smuove le budella e i neuroni più di qualunque altra cosa al mondo, avrà una qualche rilevanza tra cent’anni. Però si può dire che il rock ha dimostrato abbondantemente di poter essere considerato una forma di espressione fertile e dannatamente efficace, e per me lo ha fatto tramite album come questo.

Io e Mac DeMarco

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Ma per quale schifo di motivo Mac DeMarco piace a tutti tranne che a me? Che poi non è nemmeno vero che non mi piace in toto, ci sono un paio di pezzi che mi prendono bene, ma niente che mi spieghi il suo enorme successo nel sottostrato indie della musica rock.

È vero che per me l’indie è una di quelle poche emanazioni del rock che al 99% mi lasciano interdetto per non dire indifferente. Non mi prendetemi per uno snob del cazzo per favore, sono umano come voi, e anche io possiedo ed ho amato “Mademoiselle” degli Underground Youth in un certo periodo della mia vita in cui i “teen drama” e romanzi come Bed di David Whitehouse erano tutto per me. Però troppo spesso indie è sinonimo di musica tecnicamente buona (mai eccelsa), liriche buone (se sei un eterno adolescente uscito fuori da una VHS a cavallo tra gli ’80 e i ’90) e sopratutto una forma mal celata di nostalgia per tutto quello che precede l’esplosione ormonale e il suo corollario di paturnie sessuali-emotive. E boh, francamente non capisco cosa ci sia di così interessante in tutto questo.

Mac DeMarco tra il 2011 e il 2014 l’avrò ascoltato centinaia di volte, ad oggi ho letto talmente tante recensioni da sapere pure come si chiama sua madre senza doverlo rileggere. Eppure ogni volta che lascio andare “Rock and Roll Night Club”, “2” e “Salad Days” riesco solo a intercettare un paio di pezzi per album, il resto scorre stoicamente.

Ma ad un certo punto, mentre sto bevendo un caffè decaffeinato e mangiando un piccolo panino con salmone affumicato e burro, parte per la centesima volta Moving Like Mike a palla dal mio stereo. Parlo di stamani mattina. Cioè: ho ancora le mani imburrate mentre scrivo. Comunque, è partita Moving Like Mike da “Rock and Roll Night Club”, col suo andare brillo e spensierato, col suo passo incerto ma gioviale ed ecco che BANG rivelazione!

Insomma sì, Mac è un indieguy come tanti, la sua è una storia di un proletario mancato con la faccia da scemo e la voglia di scherzare tarata a 1.000 24h/24, ma sopratutto (epifania!) è il nostalgico perfetto. Oggi tutta la musica nostalgica nelle sue più strampalate forme sta vivendo un successo mondiale. Il dolce rimembrare gli anni ’80 che non sono mai esistiti, se non in certe pellicole e nella musica spensierata che negava la repressione reaganiana a suon di synth e riff catchy, oggi è subentrato nella memoria collettiva sostituendo la realtà. Ragazzi nati nel ’99 che ascoltano vaporwave immaginandosi in qualche pellicola di Spielberg che non hanno mai visto e che probabilmente neanche esiste, ma che riescono a figurarsi tramite operazioni televisive di spietato consumo (o per meglio dire: di vampirismo) come Stranger Things.

Sto facendo un gran casino? Forse sì. Forse no. Non ne ho idea, faccio fatica a seguirmi normalmente ma credo di aver tirato giù due spunti che mi fanno capire, almeno in parte, perché I’m a Man, Me and Jon Hanging On, Annie e Ode To Victory colpiscano così tanto l’immaginario collettivo.

Mac non è il nostalgico classico, non fa alcun riferimento diretto a quegli anni ‘80, è del tutto distaccato dalla cultura del piagnisteo che crede che la simpsonwave sia arte, la sua musica per puro caso coglie quelle sonorità e le rimescola in un discorso sempre fluido armonicamente, come dei brevi flussi di coscienza mentre il mangianastri è accesso e l’automobile viaggia veloce e costante.

DeMarco non racconta niente di particolarmente sorprendente, la sua è una continua elegia dei pregi e dei difetti dell’adolescenza che non vuole andarsene, di quel magone che per lui non è poi niente di che, ma che inesorabilmente lo spinge a prendere quella chitarra e a premere giù sul REC. Mac DeMarco è un eroe contemporaneo perché riesce a vivere questa condizione senza scrivere dei sermoni sulla Verità e la Depressione, è uno sconfitto che non sa di esserlo, anzi: che proprio non gliene frega.

Podcast – Quella cosa chiamata new garage

In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.

Cliccate su play, non ve ne pentirete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Chook Race – Around the House

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Etichetta: Tenth Court
Paese: Australia
Pubblicazione: 2 Settembre 2016

Ogni tanto mi va un po’ di pop. Ma con gusto.
Tutto quel pop con attitudine punk che dai The Gerbils arriva ai R.E.M.. Per attitudine punk non intendo rutto libero e birra scadente, né GG Allin, ma quel nichilismo adolescenziale dei Ramones che distorce il mondo in una enorme gara verso la felicità che tu, sì sì proprio TU, hai perso in partenza. Quello.

Per un punk così non c’è bisogno sempre di fare un gran casino, lo si può anche sussurrare ad un microfono mentre fuori nevica, svelando che sotto tutta quella furia c’è un mucchio di fragilità da nascondere.

In questo blog abbiamo parlato più o meno approfonditamente di Free cake for every creature, The Stevens, Quarterbacks, All Dogs, Baby Mollusk e forse di altri che ora non ricordo, tutte band accumunate da un modo di raccontare l’adolescenza con calma e riff alla The Bats, magari senza la forza prorompente della storica band neozelandese, ma armati di un po’ di pericolosissima timidezza.

Stavolta siamo sulle sponde australiane, e immagino che chiunque possegga la leggendaria raccolta “Do the Pop!” sappia bene che quando si parla di garage pop si parla all’80% di Australia. Nel 2013 era uscito “A History Of Hygiene” dei The Stevens, quasi un concept sull’adolescenza che gira attorno a tutti i problemi senza colpirne in pieno nemmeno uno, ma lasciando un senso di reale sconforto e confusione, tutte e due sensazioni decisamente adolescenziali, probabilmente una delle migliori espressioni del genere degli ultimi anni, anche se non mi aveva entusiasmato. Stavolta invece con “Around The House”, dei Chook Race, veniamo strattonati per una manica del pigiama, ci danno in mano una piccola lanterna elettrica e ci infiliamo con loro sotto le coperte, entriamo in quel circolo vizioso di «work, eat, sleep, repeat» tipico di un certo indie australiano, una dimensione dove l’età adulta sembra non arrivare mai.

Dopo un 7” pollici ancora ancorato ad un garage rumoroso nel 2012, i Chook Race rilasciano il loro primo album su Bandcamp nel 2015, finalmente definiti nella forma e nella sostanza. L’unico chiarissimo difetto di “About Time” è che tutto quello che viene abilmente descritto nelle liriche raramente è seguito da un garage pop orecchiabile, si sentono le potenzialità e l’album scorre bene, ma poche volte riesce a comunicare con urgenza quella fragilità di cui parlavamo poco fa.

Di queste potenzialità però se ne accorge la Tenth Court, piccola etichetta indipendente australiana, e così “Around the House” può uscire questo Settembre con una produzione più accorta, e persino una distribuzione internazionale grazie alla Trouble In Mind Records.
Deliziosa perla pop questo secondo lavoro dei Chook Race è diventato uno dei miei leitmotiv da mettere in auto durante le giornate più grigie, dove anche la separazione tra asfalto e cielo non è così definita.

La dolcezza sconfortante di Pink & Grey, dove le due voci di Robert Scott e Kaye Woodward si mescolano senza calore, gli scudi così effimeri di Eggshells, il riconoscere i nostri limiti in At Your Door o nella intima Sorry, si può ben dire che stavolta non è solo un lavoro di liriche, perché viene tutto accompagnato da delle progressioni di accordi davvero degne dei The Bats. Provate a sentire la veemenza quasi punk di una Pictures of You, calmierata da un suono spalmato nel brevissimo ritornello, sensazioni condensate su un vetro di una piccola cameretta in una casa in periferia.

Non c’è dubbio che tra le 10 tracce di “Around the House” abbiamo un vincitore dal punto di vista dell’equilibrio tra riff-liriche-adolescenza, perché Hard to Clean spacca i culi con la gentilezza del cantato sommesso (lei tremendamente simile a Katie Bennett dei Free cake for every creature), l’andamento quasi da punk anthem, ma sempre sotto le coperte. Segnalo anche Lost the Ghost, che sfoggia un riff garage pop anni ’80 che levati. 

Non so se è una mia perversione ma mi piace QUESTO garage pop, non quello di band come i Wyatt Blair e i vari compagni di merenda al Burgerama Music Festival, troppo disimpegnato e ironico senza essere auto-ironico. Forse non è nemmeno un caso che riprendo in mano questi dischi quando inizia a far davvero freddo, alla fine è quasi una reazione psicologica, necessità di affrontare i miei/nostri circle jerk mentali senza urlarli ai quattro venti, ma guardandoli condensare il respiro su un vetro che dà sull’inverno.

La musica commerciale di Captain Beefheart e dei Pere Ubu

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Considerati due paladini del rock inteso come avanguardia e sperimentazione, Don Van Vliet e David Thomas nelle loro decennali carriere hanno tentato di intraprendere percorsi musicali più canonici, cercando di replicare il successo di critica nelle vendite dei loro album.

Si dice spesso dei musicisti underground che se ipoteticamente volessero potrebbero avere successo da un momento all’altro, ecco: questa è una sonora e rassicurante cazzata, che si basa sul fatto che produrre una ipotetica e generalissima “musica commerciale” sia facile per un musicista considerato di talento.

È proprio questo pregiudizio sulla musica commerciale, immaginata come un calderone dalle dimensioni titaniche dentro il quale si può trovare un po’ di tutto, che fa credere a chiunque abbia un minimo di reputazione nell’ambiente di poter sfondare come e quando vuole, ma se non lo fa è per la sua inossidabile coerenza artistica. L’amara verità invece ci ricorda come nella storia siano stati pochissimi i complessi o gli artisti rock nati sperimentali e riusciti a conoscere il successo commerciale. Alcuni ci sono arrivati quasi per caso a fine carriera (penso agli Yes, oppure a Iggy Pop), altri con metodo e un grande senso del marketing (i Pink Floyd di Waters), altri ancora con collaborazioni più o meno importanti ed esprimendosi al di fuori di contesti musicali (Nick Cave), ma di solito il successo arriva quando una data scena musicale ha esaurito le sue necessità artistiche e diventa una macchietta di se stessa, come fu per il post-punk inglese, travasato in massa nelle classifiche di Billboard con il suo seguito di synth e sculettamenti dance.

Vorrei analizzare con voi il percorso che ha portato due artisti tra i più influenti della storia del rock, Don Van Vliet (aka Captain Beefheart) e David Thomas (leader e voce dei Pere Ubu), nella fitta e pericolosa giungla delle classifiche di Billboard, qual’è stato il loro approccio alla musica pop, che risultati hanno conseguito e l’effetto per le loro carriere.

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«It’s not music these guys played… Decals is not human music[…]» Scriveva in una entusiasta recensione di “Lick My Decals Off, Baby” Phil Mac Neill nel 1971. L’album uscito nel Dicembre del 1970 per la zappiana Straight Records è il quinto lavoro di Captain Beefheart e della sua Magic Band, già leggenda vivente il Capitano è additato senza mezze misure dalla critica sia come genio sia come fenomeno da baraccone, oppure in maniera più modesta come uno dei tanti “freak” di una stagione musicale decisamente psichedelica. La verità è che Beefheart nel 1969 aveva intaccato indissolubilmente la storia del rock con il suo quarto album in studio: “Trout Mask Replica”, uno dei maggiori e più originali omaggi al delta blues, rivisitato e decostruito in un modo più razionale di quanto possa suggerire lo sghembo attacco di Frownland. “Lick My Decals Off, Baby” è la realizzazione finale dei propositi artistici del musicista californiano, ovvero un totale estraniamento dei musicisti dalla musica che stanno suonando, un vero e proprio flusso di coscienza che parte da Beefheart stesso e arriva all’ascoltatore senza filtri di sorta, costruendo un discorso musicale che, nella sua ecletticità, riesce ad essere solido e coerente dal primo contatto della puntina sul 33 giri fino agli scricchiolii finali. Ci sono arrivati svariati racconti sugli eventi che susseguirono la produzione di questo capolavoro del rock sperimentale, quello più citato vede Beefheart come una specie di martire nei confronti della sua Magic Band i quali premevano per produrre finalmente un album più fruibile, e magari più vendibile. La verità è che fu proprio il Capitano a spingere verso una viscerale commercializzazione della sua musica, nella speranza di venir riconosciuto universalmente come un prodigio della sua generazione musicale, come l’amico/nemico di gioventù Frank Zappa.

Il temperamento del Capitano lo porterà a fare dichiarazioni contraddittorie sugli album che dal 1972 caratterizzeranno la sua rinascita come autore di musica pop, passando da «inascoltabili» a «capolavori» nell’arco di due o tre interviste.
Clear Spot” è il secondo album confezionato per la Reprise (storica etichetta fondata da Frank Sinatra che aveva da poco assorbito la Straight di Zappa), ed è anche l’ultimo guaito del Capitano prima della svolta. Un tentativo non molto onesto di commercializzazione che passa prima di tutto da una nuova line-up, con Milt Holland accanto a Art Tripp (aka Ed Marimba) alle percussioni (già presente in “Lick My Decals Off, Baby”) e Roy Estrada al basso, questi ultimi due strappati al feudo zappiano.

Ma come dicevamo non è di certo “Clear Spot” la vera débâcle, quella arriverà con “The Spotlight Kid”, uscito qualche mese prima sempre per la Reprise. Sebbene il tiro boogie che apre l’album possa far discutere sul solito efficacissimo dialogo tra la slide di Zoot Horn Rollo e Rockette Morton (I’m Gonna Booglarize You Baby), a regnare in tutto Spotlight è la noia e la prevedibilità, dove gli unici acuti sono derivati dai guizzi vocali di Beefheart, rigurgiti dal delta del Mississippi che però non bastano a rialzare l’album e a renderlo sufficiente. Incapace di interpretare la musica commerciale Don Van Vliet la banalizza, credendo che sia tutto un discorso di semplificazione, non riuscendo a costruire un discorso melodico orecchiabile o anche solo un riff micidiale, come se il solo aver agevolato la vita ai suoi musicisti fosse un lasciapassare per le vendite. Pezzi come When It Blows Its Stacks non sarebbero mai riusciti a scalfire una classifica che vedeva capeggiare album come “Catch Bull at Four” di Cat Stevens, “Bare Trees” dei Fleetwood Mac, senza contare Bowie, T-Rex e (urgh!) Neil Diamond. Manca il dinamismo delle produzioni precedenti, ogni pezzo sembra rallentato e suonato svogliatamente, Beefheart dimentica volontariamente per strada tutti gli elementi che rendevano il suo approccio musicale così interessante mettendo in difficoltà anche la band che non si sentivano ripagati dei loro sforzi nelle estenuanti sessioni negli album precedenti.

La musica commerciale stava andando su altre direzioni, una maggiore pulizia del suono caratterizzava ogni produzione delle major, il prog inglese aveva creato uno standard qualitativo molto alto dal punto di vista produttivo, il folk de-politicizzato incantava le platee di tutto il mondo, ma Beefheart testardo come un rinoceronte continua la sua corsa, pensando che ad uno come lui sarebbe bastato poco o niente per creare un prodotto della stessa fattura di un Neil Diamond qualsiasi.

Ormai in pianta stabile in UK il Capitano si affida al produttore Andy Martino e alla Mercury Records di Chicago che vogliono trasformarlo in un cantautore di ballads melense. Il primo album di questa trasformazione epocale è “Unconditionally Guaranteed” del 1974, distribuito nel Regno Unito dalla Virgin, la formazione della Magic Band perde Roy Estrada e vede Zoot Horn Rollo passare al basso con il ritorno di Alex St. Clair alla chitarra, ma a dare quell’atmosfera di ballate tragicomiche ci pensano Del Simmons al sax, Mark Marcellino alle tastiere e lo stesso Andy Martino che per l’occasione si destreggerà con la chitarra acustica, dipingendo note smielate piene di profonda e imbarazzante inadeguatezza. Upon the My-Oh-My è teoricamente il pezzo che dovrebbe scalare le classifiche, ma sebbene sia esaustivo nel dare una chiave di lettura sulla scabrosa idea compositiva dietro questo album, risulta ancora più sgradevole sentire il proseguo, in cui anche la voce del Capitano viene addomesticata all’inverosimile. Le ballate oltre ad essere incredibilmente convenzionali sembrano anche lentissime, This is the Day non dura 5 minuti ma nella mia testa sono almeno 20, credo che Henri Bergson si sarebbe divertito da matti con questo album. Gli accenni bluesati fanno solo male al cuore, come la slide in New Electric Ride, buttata lì senza un briciolo di decenza. Sembra davvero impossibile che il Capitano si sia ridotto a cantare robe degne del peggior James Taylor (Full Moon, Hot Sun) eppure è tutto lì, inciso su plastica nera.

L’album non decolla, anzi: frana in tutti i sensi, alla Mercury si rendono tutti subito conto che questo freak baffutto è sostenuto solo da un manipolo di aficionados, e decidono di lasciarlo arenare fino alla fine del contratto che prevedeva solo un altro album. Sull’onda dell’indignazione Zoot Horn Rollo, Art Tripp e Rockette Morton lasciano la Magic Band per andare a formare i Mallard col supporto per la produzione di Ian Anderson, una delle peggiori formazioni rock di tutti i tempi, dalla tecnica sopraffina asservita a composizioni banali e terribilmente masturbatorie. Beefheart ovviamente s’incazzò come una scimmia, additando i suoi ex-compagni con tutti i peggiori appellativi che un paroliere come lui poteva trovare, anche se la miglior risposta fu di Art Tripp, appellando Beefheart come «The old fart», citando così i fasti di “Trout Mask Replica”, ormai chiaramente obliati dal loro vecchio mentore.

Su queste premesse nasce sempre nel 1974 “Bluejeans & Moonbeams”, un tentativo quantomeno ridicolo di tornare a forme più blues e meno folkeggianti, ma siamo lontani anni luce anche da un modesto “Clear Spot”. Ira Ingber al basso co-firma gran parte delle composizioni col Capitano, c’è spazio anche per suo fratello Elliot, già chitarrista per Moondog, Frank Zappa e Canned Heat, e presente ai tempi di “The Spotlight Kid”. Devo ammettere che sulla line-up di questo album faccio sempre un gran casino, comunque sia, per ci fosse o no, è un album di mestiere, e nemmeno di gran mestiere. Basta ascoltarsi una Twist Ah Luck per capire che siamo di fronte ad un punto zero della creatività, gli accenni blues sono ancora più dolorosi, ma non in senso espressivo (Captain’s Holiday).  L’insuccesso e l’impossibilità di rinnovare il contratto con la Mercury porteranno Beefheart ad auto-isolarsi in un camper nel deserto del Mojave.

Dopo quattro anni di isolamento e pittura (Don Van Vliet è considerato uno dei migliori esempi di post-informale negli Stati Uniti) Beefheart tornerà con un album stratosferico e geniale, “Shiny Beast (Bat Chain Puller)”, abbandonata ormai ogni velleità commerciale (a parte per Harry Irene) il Capitano è tornato a fare quello che sa fare meglio, ma questa è un’altra storia.

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Spostiamoci nel 1982, anno di pubblicazione di “Song of the Bailing Man”, l’ultima prova dei Pere Ubu prima del loro primo scioglimento. In confronto al precedente “The Art of Walking” vediamo Anton Fier sostituire il grande Scott Krauss alla batteria, Mayo Thompson riconfermato dopo aver sostituito Tom Herman nel 1980, Tony Maimone al basso e Allen Ravenstine ai suoi synth. David Thomas come sempre istrione e grande Padre Ubu anche in sala registrazione, ancora più teatrale del solito con i suoni di Ravenstine messi in secondo piano dopo esser stati protagonisti quasi assoluti dei momenti più paranoici di “Dub Housing”, “Modern Dance” e “The Art of Walking”, la sezione ritmica furiosa e a tratti esageratamente virtuosa. In breve, il solito grande album per la band, che sperimenta e fa avanguardia a sé, mente il post-punk di sponda inglese si era già venduto quasi in blocco alle classifiche.

Il ritorno dei Pere Ubu, dopo le magnifiche divagazioni soliste di Thomas di cui non oggi non parleremo, è targato Marzo del 1988, dopo una difficile ricucitura tra Thomas e i membri storici. A Ravenstine, Maimone e Krauss si uniscono Jim Jones alla chitarra (già membro di molte formazioni rock underground tra cui gli Electric Eels di John Morton), alla batteria accanto a Krauss addirittura il leggendario Chris Cutler degli Henry Cow (già batterista aggiunto anche nei Gong e nei Residents) e lo sperimentatore John Kirkpatrick con il suo Melodeon (variante della fisarmonica). L’album uscito per la Fontana Records è “The Tenement Year”. Piuttosto diverso dalle produzioni precedenti degli Ubu, sopratutto per l’influenze musicali accumulate da Thomas nel suo periodo solista, un album eccentrico ma non anarchico, che riesce ad alternare momenti più rilassati a grandi intuizioni (come nella eclettica Busman’s Honeymoon o nella sguaiata George Had a Hat), senza dimenticare un Ravenstine in grande spolvero.  L’unico problema per Thomas è che sebbene la critica continuasse ad acclamarli le vendite non sembravano proporzionate a quelle entusiastiche recensioni.

Tolto momentaneamente Kirkpatrick ed inserito nella formazione Stephen Hague, produttore di grandi successi pop e tastierista, Thomas cerca di dare ai Pere Ubu una nuova forma, in linea con una musica più accessibile e melodica. Al contrario di Beefheart per David Thomas la musica commerciale non è soltanto banalizzazione di archetipi musicali, ma parte di un processo di espurgazione dai suoi peccati punk (è un periodo complesso per il cantante da Cleveland, anche spiritualmente).

Arriva così nel 1989 “Cloudland”, un album decisamente pop. L’approccio della band è quello di rielaborare gli stimoli per loro più interessanti nella musica commerciale a loro contemporanea (Police e Talking Heads in primis), riuscendo al tempo stesso a mantenere un certo dinamismo ed un tiro non indifferente. Non è un caso se un loro singolo, Waiting for Mary, sbanchi addirittura su Billboard arrivando al numero 6! Sebbene qualche rigurgito post-punk qua e là (Pushin, Flat e in parte anche The Wire) l’album risulta compatto, capace di tirare fuori melodie piacevoli e proponendo la voce unica e irriproducibile di Thomas in una veste non più nevrotica e instabile, ma dolcemente intima ed emozionante.

Siamo molto lontani come esiti artistici da qualsiasi album precedente dei Pere Ubu, si sta parlando esclusivamente di forma e nessuna sostanza, ma con grande umiltà e intelligenza Thomas capisce che il loro approccio non può essere supponente, tipo da super-star dell’underground che si “abbassa” per ragioni commerciali, ma bensì quello dell’addentrarsi in una nuova esperienza, «Put yourself in our shoes, for us going to expensive studios and doing lots of remixes was an experiment in itself.» E così i Pere Ubu sperimentano su nuove forme, e dopo il proto-punk, il post-punk, il rockabilly e il jazz ecco il pop da classifica, distorcendolo e reinterpretandolo su una nuova prospettiva, che dava decisamente il meglio di sé quando Thomas diventava un atipico crooner dal carisma indiscutibilmente magnetico.

Ripetersi però diventa difficile per la band, la nuova formazione fissa vede il grande Eric Drew Feldman (Snakefinger, Pixies e presente anche negli tre ultimi album della rinascita artistica di Captain Beefheart) sostituire Ravenstine, il quale farà solo qualche comparsata, e vede anche l’addio di Cutler, in compenso compare sporadicamente John Kirkpatrick. Esce nel 1991 sempre per la californiana Fontana Records, prodotto da Gil Norton (che aveva già confezionato “Doolittle” e “Bossanova” dei Pixies), l’album si chiama “World In Collision” ed è certamente il più grande sforzo pop della band.

Va detto che stavolta a parte l’eccezionale vena melodica di Oh Catherine, e forse Life of Riley, l’album appare più modesto del precedente, sebbene Oh Catherine riscontri un buon successo (non paragonabile a quello di Waiting for Mary, ma sufficiente per finire in tarda serata da David Letterman) non basta a lanciare l’album in classifica. Nonostante la band mantenga quella dignità che Beefheart aveva decisamente perso al suo secondo tentativo commerciale, non riesce più a trovare quella chiave di volta che li aveva visti vicini al successo mondiale.

Perso anche Eric Drew Feldman i Pere Ubu restano in quattro con l’aggiunta quasi inconsistente di Al Clay. Story of my Life” esce nel 1993, un album che alterna riff fastidiosi a composizioni che, per dirla buona, risultano quasi sempre banali. Thomas cerca di ridare un sound più “rock” alla band, forse vedendo il successo di complessi come gli U2, ma il risultato è tremendamente posticcio (tanto che Maimone lascerà la band subito dopo l’uscita dell’album). L’aspetto peggiore di questo disco è che si sente la mancanza di Thomas, sommerso da una melma sonora incoerente e con accenni epici decisamente fuori fuoco.

Dal 1993 i Pere Ubu ritorneranno più volte, cercando di riprendere la vena creativa di un tempo, ma senza mai riuscirci pienamente, azzeccando giusto due o al massimo tre pezzi in ogni album. Al contrario quindi del nostro Capitano i Pere Ubu non riescono a rinascere dalle ceneri con un album epocale, come mai?

Probabilmente proprio per l’approccio di Thomas di fronte alla musica così-detta commerciale da sperimentatore, proseguendo quella ricerca musicale che cominciava dai suoi Rocket from the Tombs fino ai primi album dei Pere Ubu, quegli album commerciali ne erano una diretta conseguenza e non una deriva. Per Beefheart invece c’era una profonda divisione concettuale tra un “The Spotlight Kid” e “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” come pure per gli album successivi, ovvero “Doc at the Radar Station” e “Ice Cream for Crow”, per l’artista californiano una volta accantonato il discorso commerciale si poteva ricominciare da dove si era lasciato, come se nulla fosse.

Lasciare l’underground per sposare una musica più fruibile e potenzialmente vendibile non è una cosa semplice, e di certo non è priva di conseguenze. Sicuramente c’è una voragine artistica tra i Pink Floyd di Barrett e quelli Waters, ma la musica in generale non è solo necessità artistica, è anche competenza tecnica e la capacità di comunicare semplicemente tramite una grammatica fluida e intangibile, si possono criticare anche ferocemente fenomeni come il brit-pop, gli U2 o i Foo Fighters dal punto di vista della proposta artistica, ma non bisogna mai dimenticarci che c’è anche un contesto più ampio dove la melodica orecchiabile, il riff tamarrissimo e la voce virile e potente non sono elementi che da sé fanno un successo commerciale, ma hanno bisogno di tanto studio e dedizione. Ciò non toglie che il miglior album degli U2 non vale una scoreggia travestita di David Thomas.

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Per alcuni appunti biografici e curiosità ho spulciato questi due bei librini che vi consiglio vivamente:

  • Luca Ferrari, “Captain Beefheart – Pearls before swine Ice cream for crows”, Sonic Book, 1996
  • Duca Lamberti, “Pere Ubu, David Thomas – The geography of sound in the magnetic age”, Sonic Book, 2003

Ausmuteants -Band Of The Future

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Etichetta: Aarght! Records - AARGHT037
Paese: Australia
Pubblicazione: 26 Agosto 2016

So che è un’opinione impopolare ma a me i side-projects degli Ausmuteants mi stanno sulle palle, anche gli amatissimi Frowning Clouds, anzi loro prima di tutti! È che questi quattro australiani fuori dalla band mi suonano troppo derivativi di certi sixties che sì, ci scaldano ancora il cuore come le storie di Guareschi, ma che – in estrema sintesi, hanno spaccato i coglioni e saturato il mercato. Perché ascoltarmi un revival dei Monks, dei Troggs o dei Sonics quando ho già i vecchi album – che fra l’altro spaccano decisamente di più. Però quella volta là che i quattro si ritrovano tutti assieme sotto quel magico nome così punk e così dolcemente reietto, ecco che la magia del Natale si ripropone anche il 26 Agosto.

Se “Order Of Operation” del 2014 era un piccolo capolavoro della scena punk mondiale questo “Band Of The Future” impone gli Ausmuteants come il gruppo più muscolare, cazzuto e ispirato del globo.

Sì è vero, sono solo canzonette, e la più lunga dura 2 minuti, e non avrà mai l’impatto di un vero capolavoro, ma la condizione di fragile equilibrio tra la necessità di esprimere la contemporaneità e la nostalgia del punk e del garage moderno, trovano finalmente la loro dimensione in questo album. Se vi pare poco fate voi.

Il revival anni ’80 sta coinvolgendo tutte le forme d’arte e non solo la musica, pensate al cinema con It Follows o alla TV con Stranger Things (ma se ne potrebbero citare decine di esempi), musicalmente la sua forma più pura e quindi anche limitatamente nostalgica è la synth wave. Se è vero che c’è chi prende i suoni tipici della synth wave per farne qualcosa di unico (penso alle musiche di Cliff Martinez nella prima stagione di The Knick e nel Neon Demon di Refn) la maggior parte delle uscite discografiche sono poco più che stronzate, e hanno il loro epicentro nel Regno Unito. E capite bene che tra UK e Australia sebbene i chilometri di distanza c’è ancora qualcosa di più profondo che le unisce.

Già nei loro primissimi lavori gli Ausmuteants rielaboravano le pulsioni synth in un modo tutto loro, mescolando la freddezza di quei suoni alla adolescenziale furia punk con una certa facilità.

Forme più elaborate di questo mix nelle terra dei canguri le abbiamo già assaporate, c’è quella eclettica dei Total Control di “Typical System” (2014), o quella dark e cronenberghiana dei Nun, ma mai con il tiro e l’entusiasmo di questo “Band Of The Future”.

Per quanto la tracklist dell’album abbia in parte dei forti rimandi col passato (titoli come I Hate You e Liars all’aficionados rimandano rispettivamente a Monks e Richard Hell) il dialogo cominciato nel 2014 con il web ora è più un dato di fatto.

Si comincia a rotta di collo e si finisce a rotta di collo, una valanga sonora degna dei migliori Minutemen, da una band che non ha la tecnica sopraffina dei californiani ma di certo ne condivide l’impeto.

La presenza del synth è forte come nell’album precedente ma l’amalgama è decisamente più riuscita, i pezzi sono tutti ultra-compatti, non solo per lo scarsissimo minutaggio, ma perché non c’è mai un reale protagonista nella strumentazione, non c’è la solita chitarra onanistica né i giri acchiappa bischeri col synth, è tutto asservito all’espressività di ogni singola traccia.

Potenzialmente sono tutti singoli micidiali, il mio preferito ovviamente è una stoccata alla critica musicale: Music Writers.

Diecimila meglio del nuovo e pretenzioso Ty Segall, che come tutta la scena californiana si stanno godendo il loro momento d’oro rammollendosi decisamente, gli Ausmuteants sono ancora sul pezzo, tra i loro fan eccellenti ci sono anche band di altrettanto spessore della scena ferrarese (Hallelujah!), scena che in generale dialoga molto bene con il punk australiano e che produce del punk di livello altissimo (ci sono delle involontarie rassomiglianze anche tra i già citati Total Control e i grandiosi Mirrorism per dire).

Non scomodiamo paroloni per concludere questa così poco professionale recensione, diciamo solo che ci sono poche cose a giro che valgono la pena di essere sparate a mille dallo stereo o in auto, ci sono poche cose che vi faranno venir voglia di spaccare tutto come questo album, ci sono poche cose che riprendono la grandezza degli ottanta senza scimmiottarla come gli Ausmuteants.

Young Marble Giants – Colossal Youth

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Secondo il più celebrato e rompiballe critico rock, Simon Reynolds, il loro post-punk era meglio persino di quello dei Pere Ubu, per Geoff Travis, capoccia della Rough Trade in quel periodo di fermento new wave tra la fine dei ’70 e l’inizio dei sintetici ’80 erano il gruppo di punta della leggendaria etichetta, hanno fatto solo un album e sono un trio di gallesi senza batterista.

Chissà se persino oggi Stuart Moxham, leader della band, pensa ancora che Alison Statton, la ragazza di suo fratello Philip nonché cantante della band proprio per questo, non meriti di stare al primo posto della classifica del New Musical Express del 1980. Chissà cosa avrà provato il leggendario John Peel quando il 18 agosto dello stesso anno i Young Marble Giants, questo improbabile trio che si ribellava all’egemonia punk, lo stesero con un’ondata di post-punk intimista, quei suoni scarni, quella voce così normale, quei testi così ricercati. Gli ci volle un bel po’ a Peel per togliere dalla sua personale heavy rotation Final Day, una vera e propria anti-hit dal sapore apocalittico.

Se fossi un bravo recensore vi sviscererei ogni singolo pezzo di questo monumentale album, l’unico di questa straordinaria band, ma l’unica cosa vagamente musicologica o critica che riesco a formulare mentre ascolto “Colossal Youth” è una semplice, banale, parola: cazzo.

E non è una questione di eccitazione sessuale, la stessa che mi prende quando parte T.V. Eye degli Stooges o Eptadone degli Skiantos, lì è il fuoco sacro del rock che straborda dai vasi capillari, qua è tutta un’altra cosa. La musica dei YMG mi lascia sempre senza fiato, al massimo riesco a sussurrare un fievole cazzo mentre mi stendo sul letto, completamente perso in quelle liriche dirette a me e a me soltanto, quel ritmo così new wave senza pretese artistoidi, quel rock che ti penetra dentro senza urlare nemmeno una volta.

Parte la batteria elettronica, ineluttabile come un metronomo, la segue la chitarra di Stuart Moxham imitandola, arriva la voce di Statton, fredda ma non distaccata, poi il basso minimale di Phil Moxham, una melodia rarefatta, quasi impercettibile, rock scarnificato da ogni pelle nera o bianca che sia, altro che la de-evoluzione dei Devo, nei soli 3 minuti di Searching for Mr. Right c’è tutto il post-punk nella sua definizione più nobile, quel passo avanti che razionalizza le paturnie nichiliste di Iggy Pop e dei Ramones in un sound compatto e in delle liriche consapevoli.

Non ci sono abbellimenti, non c’è niente in più, nemmeno un inizio ed una fine degna di questo nome, gran parte dei pezzi partono con un ritmo dettato dalla batteria elettrica (rudimentale e limitata) e nello stesso modo si chiudono, “Colossal Youth” è un album che prende in esame il particolare, le cose che ci sono nel mezzo fra quelle “importanti”, non vuole essere esaustivo, al massimo accenna, i pezzi sono tutti cortissimi, essenziali.

La presenza di un organo e di un pezzo dedicato al grande Booker T. non devono far storcere il naso, questo disco nella sua compattezza sonora si districa tra i generi più diversi, come ho detto prima qua si nega ogni influenza, si possono percepire vaghi rimandi al kraut rock, sicuramente ad Alan Vega, la chitarra di Moxham riesce ad evocare Robert Fripp come Duane Eddy, eppure quello che ne viene fuori è unico, irripetibile e decisamente magnetico.

Brand-New-Life è uno dei riff più belli di tutto il post-punk, ai livelli di Non-Alignment Pact dei Pere Ubu o di Natural’ Not In It dei Gang of Four, il giro d’organo in Ode To Booker T. (traccia aggiunta nella ristampa) è pura perfezione estetica, Choci Loni è un surf rock post-apocalittico di pregevole fattura, Include Me Out ha una delle più belle sequenze batteria-chitarra-basso della storia.

Uscito a Febbraio del 1980, “Colossal Youth” è uno dei capolavori del rock, un album che spruzza modestia e stile da tutti i pori, musica pensata per chi non vuole solo stordirsi a suon di riff gonfiati di decibel, ma pretende qualcosa di più.

E l’immancabile Peel Session:

Future Holotape, The Feels, Burnt Ones, Evening Meetings, Guantanamo Baywatch

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I miei lettori lo sanno già, ma lo ripeto per chi è capitato qua mentre cercava il nuovo casting couch (sì Tristram, parlo con te): odio scrivere queste recensioni brevi. Per carità delle volte sono utili, sopratutto per le band che ritengo di merda o semplicemente discrete (e infatti nei primi tempi era così), ma ora le uso anche per quando ho poco tempo. Cioè sempre.

Una terribile disgrazia (per il mio ego, voi ci guadagnate), pensando che solo di recente ho relegato a pochissime righe quel fottuto capolavoro di “Forgetter Blues” dei The Molochs, e stavolta tocca ai poveri Feels e ai divertenti Guantanamo Baywatch, che qualche riga in più se la meritavano.

Vorrei davvero potervi fornire un servizio migliore, ma il mondo reale è sempre pronto a romperti i coglioni, per cui stavolta non sono quattro ma bensì CINQUE mini-recensioni, con una bonus che arriverà giusto giusto per rovinarvi il Natale.

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a3092013185_2Future Holotape – Analog Renegades (2014)

Il venti Dicembre è una data importante per la storia dei videogiochi. Ventidue anni fa questo stesso giorno, Streets of Rage 2 della SEGA sconvolse il mondo occidentale.

È più o meno questo l’incipit di una folle raccolta della 30th Floor Records, improbabile etichetta inglese con una certa passione per i synth e gli anni ’80, quelli dei 16 bit e degli ectoplasmi verdi.

In questa raccolta (denominata “Synths of Rage”!) i principali artisti della label si prodigano in cover sintetizzate delle gloriose colonne sonore che accompagnarono i primi tre Streets of Rage, un’esperienza tra l’estatico (per chi ci ha giocato e l’ha amato) e la noia più totale (per tutti gli altri). Tra le band chiamate in causa ci sono questi Future Holotape, un duo californiano che dal look sembrano spuntati fuori dritto dritto da Grosso guaio a Chinatown, si ispirano dichiaratamente alle colonne sonore dei videogiochi e… penso basta?

Oltre ad una papabile colonna sonora per il potenziale capolavoro Kung Fury (film che dovrebbe uscire nel 2015), non vedo altra utilità pratica per questo “Analog Renegades”. Certo, è affascinante, a tratti divertente, è praticamente un film trash-fantascientifico made in eighties, però è tutta roba già sentita e risentita, senza mai nemmeno un mezzo tentativo di darci qualcosa in più. Insomma, a che serve questa ricerca estetica? Qual’è la chiave di lettura?

Se è un prodotto con poche pretese, è comunque mediocre, se invece ne ha non si capiscono bene quali siano.

Questa retro-mania che sta invadendo il mondo civilizzato ha sicuramente prodotto degli esperimenti interessanti, ma direi che i Future Holotape ora come ora siano solo una curiosità, e nulla più.

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a0555530692_2The Feels – The German Club. Mystic, CT 06/27/2014 (2014)

Da non scambiare assolutamente con gli omonimi The Feels di New York, merdosissima band post-punk-pop che ha reso un grande servizio alla musica di merda con “Dead Skin” uscito anch’esso quest’anno. Foo Fighters e compagni di merenda ringraziano.

Questi The Feels invece vengono dal Connecticut, sono cinque ragazzi di belle speranze specializzati in jam session di una certa potenza evocativa, mischiando quanto sanno di jazz, rock e funk. L’anno scorso rimasi affascinato dalle semplici variazioni di “Fields”, il loro primo EP, così ingenuo e innocente che, ovviamente, non l’ho recensito. Ogni anno ormai salterò circa trenta o quaranta recensioni, porcobertoncelli.

Comunque sia, dalle dolci note di Recriminations e dal suono caldo del sax in Pizza Man, ecco i nostri cinque eroi tornare a solcare i palcoscenici con una live tra le più sorprendenti dell’anno e con un sound rinnovato e energico.

Si va da Zorn al jazz di strada, c’è posto pure per l’irraggiungibile Sun Ra, in effetti c’è un po’ di tutto nelle folli 12 tracce che compongono questa live al The German Club, un locale di Mystic, la loro città. Sebbene le molteplici influenze il risultato è straordinariamente compatto e coerente, per nulla confuso o cerebrale.

L’attacco di Jam > e della successiva Blegh! ti fanno scuotere il fondoschiena, la loro voglia di musica privilegia la stessa e non l’onanismo dei musicisti, dei pezzi che seguono come Glass Museum vorrei poter dire di più, ma sono tremendamente ignorante quando si parla di jazz e preferisco lasciare che la loro musica parli da sé.

Trovo fantastica la citazione pop di Keyboard Cat Jam >, una roba che Piero Bittolo Bon secondo me dovrebbe prendere in considerazione per i suoi Jümp The Shark.

Un album che non vi consiglierà NESSUNO, ma che vale la pena per almeno un ascolto. Lo potete trovare gratuito su Bandcamp, un ottimo modo per passare un po’ di tempo in pace e divertire un pizzico il cervello.

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a3759368139_2Burnt Ones – Gift (2014)

Barrettiana band della Castle Face Records dei Thee Oh Sees, ed in effetti questi Burnt Ones hanno dei palesi rimandi alla band di John Dwyer, anche se non sono di certo riconducibili alla sezione ritmica.

Se la batteria raddoppiata di Shoun e Finberg assieme alle folli cavalcate al basso di Petey Dammit erano il fulcro del garage rock dei Thee Oh Sees (capito Dwyer?), nei Burnt Ones non c’è un vero protagonista, il suono è impastato, quasi trasognato.

Un simpatico divertissement intorno al garage californiano e a Syd Barrett, quest’ultimo presente sopratutto nelle nenie psichedeliche (come Money Man e Bye Bye Floating Charm), ogni tanto sovvengono degli interventi elettronici e il ritmo cerca di essere più trascinante (Spell Breakers), la il mood rimane sempre sommesso. Non mancano momenti di puro imbarazzo, come in Caterpillar, in cui psichedelia, videogioco e gospel si uniscono all’unico scopo di non farci capire un cazzo.

Non c’è un pezzo che spicca fra gli altri, sono tutti discreti, ma dopo un solo ascolto sono quasi certo che finiscano dritti dritti in un cassetto, pronti per prendere la polvere per molto, molto tempo.

Ennesima con un bel sound ma nessuna idea.

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a3158177872_2Evening Meetings – s/t (2012)

Craig Chambers, Mattew Ford, Min Yee e Erin Sulivan, ovvero tre quarti dei geniali Dreamsalon, quelli di “Soft Tab”, l’album che ho recensito e ho lodato sperticatamente e che voi dovete ancora comprare. Stronzi.

Poco prima di esordire con il garage psichedelico di “Thirteen Nights” (2013) ecco i primi schizzi di quello che sarà “Soft Tab”, ovvero l’album che sto riascoltando di più da qualche tempo a questa parte.

Già in Wipe & Face si percepiscono gli influssi post punk, mentre in Shimmer Street il garage del primo album, ed è forse la cosa più affascinate dell’album questa costante dicotomia tra le due anime, quella psych garage e quella post punk.

Un album che, in sé, è interessante ma non trascinante, una curiosità per capire da dove arrivano tutte quelle idee che compongono il mosaico perfetto di “Soft Tab”.

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a4259119950_2Guantanamo Baywatch – Chest Crawl (2012)

Questo trio dall’Oregon sono tra le esperienze live più cataclismatiche degli ultimi cinque anni di garage rock. Un incontro incestuoso tra Cramps e Dick Dale, l’unico problema per i Guantanamo Baywatch è che questo “Chest Crawl” rende forse la metà della loro potenza dal vivo.

Deprecabili, osceni, sfacciati, con un cantante-chitarrista tra l’imbarazzante e l’ignobile, è praticamente impossibile non amarli. Fanculo le recensioni d’oltreoceano che gli danno degli striminziti 6, questi almeno un 7 se lo pigliano senza troppi perché, mi viene in mente l’acida Sad Over You che dal vivo è una perversione surf punk di incredibile efficacia, da sola per quanto mi riguarda vale il prezzo (basso) dell’album.

Momenti strumentali surf davvero fuori di testa, liriche demenziali e tanta voglia di sballarsi. L’unica cosa che potrebbe rovinare completamente la band è che imparino a suonare. Speriamo non gli accada mai.

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Corners – Maxed out on Distractions

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Ve li ricordate i Corners vero?
No?
E la mia recensione di inizio ottobre? Niente?
Certo che siete proprio una soddisfazione.

I Corners sono assieme ai The Monsieurs il miglior prospetto garage rock californiano, lo sono sopratutto alla luce delle recenti avventure glam di Ty Segall e la svolta tagliamaroni dei Thee Oh Sees. Dopo il selvaggio ma ponderato esordio targato Lolipop Records, il bellissimo “Beyond Way”, dove i Corners si scontravano col post punk dei Gun Club, ecco che i quattro californiani decidono di cambiare decisamente tono. E genere.

Sì è vero, questo “Maxed out on Distractions” te lo descrivono nelle note come un garage surf rock da spiaggia, da gustare con un mojito leggendo Hemingway, ed invece appena lo piazzi sul piatto e la puntina sfiora i primi istanti di We’re Changing capisci che qualcosa non quadra. Sintetizzatori? E ‘sto ritmo alla Devo? Ma che cazzo s’è fumato stavolta Tracy Bryant? Però… però funziona!

E sì, son proprio cambiati i Corners, quel sound ovattato quasi shoegaze del primo album è scomparso, questa volta i suoni sono caldi e i ritmi delle volte ballabili, questa ondata di anni ottanta è sì del tutto imprevista, ma questi quattro ingegneri del suono la cavalcano con una cura maniacale. Riot sembra un pezzo dei vecchi Thee Oh Sees ma senza la batteria raddoppiata e con Dick Dale alla chitarra, Caught In Frustration sono dei Talking Heads più pragmatici, Buoy con il suo ritmo da marcia punk è una specie di anti-canzone dell’estate, questi ragazzini che compaiono in tutti i festival assieme a garagisti comprovati come Mr. Elevator & The Brain Hotel e Froth sono praticamente l’unica band in controtendenza di tutta la West Coast!

Appena sono arrivato a Love Letters mi sono dovuto fermare per riascoltarla. E ancora. E ancora. I don’t wanna hear the cries/ I don’t care about times/ I don’t wanna know about the love letters/ I don’t believe in no ever after. Con la voce che imita un Ian Curtis stralunato, questo singolo che mi ha conquistato, mi piace l’idea che a qualcuno non abbia voglia di fare qualcosa, è così anni ’80!

La confusione interiore di Maxed out of Distractions con quell’assolo minimale sul finale mi lascia sempre in estasi, un pizzico di Spacemen 3 con The Spaceship a chiudere un album quasi perfetto.

I Corners vanno sostenuti, anzi: vanno incoraggiati! Ty Segall che decide di sposare il glam di Marc Bolan, John Dwyer che dà una svolta beatlesiana ai Thee Oh Sees, quest’anno ce l’hanno fatto a torroncino ‘sti gran bastardi, ma ecco che band come The Monsieurs, Froth, Dreamsalon, Mr. Elevator & The Brain Hotel e Corners non solo hanno ancora le palle e le idee (una accoppiata vincente sotto molti punti di vista) ma hanno anche il coraggio di reinventarsi senza scadere nella banalità!

Con questo “Maxed out on Distractions” la band di Tracy Bryant si avvicina al synth-punk dei Nun, restando comunque ancorata alla scena garage, e riuscendo a sfornare vere e proprie perle come Caught In Frustration, Love Letters e Maxed out on Distractions.

Uno dei miei album preferiti di quest’anno.

  • Link utili alla popolazione: volete ascoltarvi ‘sti Corners dato che vi ci ho rotto abbondantemente i cojoni? Bene, basta che voi clicchiate vigorosamente QUI, se volete dirgli che sono proprio dei fighi o sarebbe meglio che zappassero su Minecraft cliccate QUI per la pagina Facebook.

Ci spariamo qualche video? Ma sì, dai:

Eccovi il video (meh) di Love Letters.

Una live di We’re Changing.

Doppia razione live con Sometimes che apriva “Beyond Way” e Buoy da Maxed.

NOVITÀ ALLUCINANTE: dato che voglio ampliare le possibilità di discussione sul blog (la gestione dei commenti di wordpress.com fa cagare) ho aperto una PAGINA FACEBOOK che vi link comodamente QUI. È stata una scelta ponderata, ma che credo potrebbe giovare a chi legge e sopratutto a me. Da quando ho aperto il blog, oltre ai classici insulti intrinsechi nel web, ho conosciuto parecchie persone interessanti che di musica ne sapevano molto più di me (non che ci voglia molto, eh) ed ho imparato tante cose. Adesso vorrei impararne delle altre, vorrei scoprire più opinioni e nuovi album, per cui “amplio” il raggio d’azione del blog anche a Facebook. Insomma, se volte seguirlo pure là per commentare più agevolmente fate pure, sennò chissenefrega. Stronzi.

Minutemen – Double Nickels On The Dime

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Dopo il punk dannato e maledetto dei The Alley Cats, e quello beach e arrabbiato degli X, concludiamo questa brevissima e personalissima trilogia del punk californiano made in eighties con un disco che non è un disco, ma è il massimo risultato del punk come genere musicale.

Legati indissolubilmente al punk antagonista dell’hardcore anti-reaganiano, il loro sound è la geniale commistione di intuizioni musicali che spaziano dai Van Halen ai Bad Brains, dai Meat Puppets ai Hüsker Dü, fondendo jazz, funk e reggae il tutto nell’arco di canzoni brevissime ma sempre compiute.

I Minutemen sono stati una grande rock band, almeno fino al 1984.

Un trio di ottimi esecutori, dal compianto D. Boon (voce e chitarra: e che voce e che cazzo di chitarra!) al veloce ma dannatamente preciso George Hurley (batterista e talvolta voce), fino a Mike Watt, un bassista che è più un mito che un uomo, ma che adesso segue Iggy Pop nella sua inutile riesumazione di un furore punk leggermente anacronistico.

Dopo due ottimi album, “The Punch Line” (1981) e “What Makes a Man Start Fires?” (1983) i Minutemen hanno come una sorta di divinazione.

Non si sa bene come cazzo sia potuto succedere, insomma, fino a un anno prima questi tre facevano soltanto della buona musica, dichiaratamente democratici e incazzati fino al midollo con le politiche repressive e la mentalità da cavernicolo di Reagan, una band hardcore da rispettare e onorare, ma nel 1984 decisero, inconsciamente, di cambiare la storia del rock.

Se le vendite esaltavano l’ennesimo disco copia-incolla dei Queen, “The Work”, arrivato al successo grazie al singolo Radio Ga Ga (che già dal titolo fa intuire la profondità culturale e musicologica intrinseca), nessuno poteva di certo aspettarsi il successo che arriderà a questo trio hardcore.

Double Nickels On The Dimeè stato un terremoto che ha scosso le fondamenta di tutto il rock autentico. Le 45 tracce che compongono l’originale LP del 1984 sono l’esempio lampante di come delle volte il genio si manifesti senza preavviso, e di come il rock possa anche innalzarsi dalle sue chitarre suonate alla meno peggio e diventare Musica.

Un album di questa caratura va considerato da almeno tre punti di vista:

  • quello musicale
  • quello letterario
  • quello storico

In generale per fare una buona critica a qualsiasi album i tre punti sopra elencati vanno presi sempre in considerazione, ma il terzo album dei Minutemen è uno di quei rarissimi casi in cui la rivoluzione comprende tutti e tre i punti.

Musicalmente D. Boon, Watt e Hurley spingono al massimo l’acceleratore, velocizzandosi e raffinandosi ancora di più. È straordinario constatare con quale facilità la band abbia fuso tutte le maggiori intuizioni degli anni ’80 e ’70, guardando all’avant-garde come ai più materiali Black Flag, riuscendo allo stesso tempo a non ripetersi mai in 45 tracce. Il sound complessivo ne esce incredibilmente compatto, creando nell’arco di una ottantina di minuti un’esperienza unica e irripetibile.

La musica, sebbene tecnicamente tutto tranne che scontata, è anche fruibile. Al contrario di un rock destrutturato, come quello reso celebre da Captain Beefheart, o a esempi di estremismo come nel bellissimo “Right Now!” (1987) dei Pussy Galore, i Minutemen riescono a distruggere ed estremizzare senza sodomizzare l’ascoltatore, il che è innegabilmente un pregio.

A livello letterario siamo di fronte ad una sintesi della storia del linguaggio punk-rock. Dagli inni pacifisti all’introspezione indie, dalla poesia di Patti Smith al linguaggio volgare e irriverente dell’hardcore, Double Nickels è un compendio irrinunciabile per studiare il linguaggio sociale del rock, le liriche che parlano allo stomaco senza dimenticarsi del cervello, la perfetta simbiosi tra ritmo, melodia e rumore assieme al testo.

Per la storia della musica siamo invece di fronte ad un lavoro inarrivabile, un punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere la carriera del rocker. Non solo Double Nickels si fa rappresentante musicale e sociale di un intero movimento, riuscendo al contempo a superarlo concettualmente, ma è anche un punto di incontro musicologico di altissimo livello che merita l’attenzione degli studiosi oltre che dei rimasti con le magliette dei Ramones tipo me.

Ammetto che sarebbe stimolante recensire pezzo per pezzo questo album, valutando con attenzione tutti gli spunti e le idee buttate all’interno di questo calderone infernale. Vi dico solo che comincia con l’accensione dell’auto di D. Boone, l’invito ad entrare in un viaggio modesto con tre amici punk che girano l’America tra concerti e avventure, che ne vedono e ne sentono di tutte, che te le raccontano spassionati tra una cerveza e l’altra, con i quali puoi scherzare, vomitare e magari confessarti, puoi dividerci una pizza o magari anche una ragazza, e che quando li lascerai andare via all’orizzonte non saprai mai dove e quando te li potresti ritrovare davanti.

Voto: 9,5/10.

X – Los Angeles

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Secondo disco di questa mia personalissima trilogia californiana punk anni ’80. Ricordo ai cagacazzo e ai precisini di ‘sta grandissima ceppa che non sono gli album più importanti o quelli fondamentali, ma quelli che a me me la alzano di più. Semplice, lineare e schifosamente soggettivo. OK? 

Come dicevo anche per gli Alley Cats siamo in una dimensione punk più vicina a Patti Smith che agli Stooges, e la presenza carismatica di Exene Cervenka lo prova ancora più. Se la Dianne Chai era calata nella dimensione pessimistica degli Alley Cats, la Cervenka dal canto suo è la nuova poetessa maledetta del punk, più arrabbiata e meno raffinata di chi l’ha preceduta.

Sebbene preceda solo di un paio d’anni “Escape From The Planet Earth” (The Alley Cats, 1982) il punk degli X è davvero diverso.

L’alienazione che si prova ascoltando il secondo album degli Alley qui scompare, la rivalsa sociale dei giovani oppressi dalla nuova società industriale trova sfogo in questo frizzante beach punk. Sebbene a mio avviso sia il sotto-genere col nome più idiota di sempre, spacca decisamente i culi.

Come una band di reietti bipolari gli X guardavano al rockabilly anni ’50-’60 come ai Doors, la decadenza di Jim Morrison assieme alla sua decantazione intellettuale (Patti Smith) trovano così un raccordo riuscitissimo con l’infiammata chitarra di Chuck Berry. Dai cazzo, ditemi che non prende bene solo a leggerla ‘sta roba!

Per vostra fortuna è molto meglio ascoltarli gli X.

La band si fondava principalmente sulla voce della Cervenka e quella sporadica del suo bassista (e se non ricordo male anche marito) John Doe (un nome che negli USA si utilizza per quelle persone che giuridicamente nascondo la propria identità reale, o per nominare quelle tombe abitate da scorbutici sconosciuti), un ritmo indiavolato, riff brevi, intensi e geniali e una autenticità spaventosa.

Sono così pochi gli album così punk!

Per quando la band sia convinta che il terzo album, “Under the Big Black Sun” (1982), sia in assoluto il più riuscito, credo sia inutile farvi notare come la rivoluzione dei X sia cominciata con “Los Angeles” il loro esplosivo esordio.

Rivoluzione sì, perché mentre Richard Hell aveva teorizzato il nuovo punk (quella che sarà chiamata new wave) gli X lo rimodellano a loro immagine e somiglianza, con testi che invece di fare dell’introspezione sulla generazione vuota (sì ok, vuota ma da riempire, bravi avete letto l’intervista di Lester Bangs a Hell, siete proprio dei figoni del cazzo) o immaginare una fuga dal nostro pianeta di fango e merda proposta dagli Alley Cats, qui c’è una visione reale della società moderna vista da dei bravi ragazzi californiani, stufi della merda ma che la accettano per quella che è.

Hell fa del punk una filosofia, gli Alley Cats ne fanno misantropia, gli X s’incazzano come delle belve e basta.

Ma una nota che impreziosisce in modo ancora più allucinante questo già tosto album è la produzione di Ray Manzarek. Il mitico tastierista dei Doors viene spesso etichettato come un musicista molto sopravalutato. Che coglionata. Manzarek oltre a produrre questa bellezza suona col suo vecchio hammond, e che robette acide e punk ci tira fuori ‘sto povero sopravvalutato nemmeno non ve lo immaginate.

I pezzi che compongono questo capolavoro sono tutti geniali, uniti da un sound molto preciso (beach punk, che nome di merda…) ma senza mai ridondare, cazzo: sono nove gemme punk tutte di alto livello!

Si parte fortissimo con Your Phone’s Off The Hook, But You’re Not, a cui segue il celebre attacco alla Chuck Berry che introduce a Johnny Hit And Run Paulene, subito dopo una versione irriconoscibile di Soul Kitchen dei Doors, e chissene sei già saturo dalla troppa roba buona, perché il riff bestiale di Nausea, con quelle incursioni strazianti e orgasmiche dell’organo di Manzarek, te la fa rialzare subito. Sveglia amico, stai ascoltando un fottuto capolavoro!

Cosa c’è di più perfetto di una Los Angeles con un testo così:
all her toys wore out in black and her boys had too
she started to hate every nigger and jew 
every mexican that gave her lotta shit
every homosexual and the idle rich

Cosa ti foga di più del ritmo punk di Sex And Dying In High Society, abbastanza anni ’80 da non sfigurare neanche in una radio di GTA Vice City?

Cosa ti attizza di più del l’irreprensibile riff di The Unheard Music, malinconica senza scassare i coglioni?

E la sapete qual’è la cosa più bella? Che anche i due album seguenti sono splendidi.

  • Pro: capolavoro del punk, un disco imprescindibile per gli amanti e per chi vuole farsi una cultura su questo genere.
  • Contro: dura solo 27 minuti.
  • Pezzo consigliato: Los Angeles.
  • Voto: 8/10