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Bidons, Mirrorism, For Food

Finalmente ho trovato un po’ di tempo per annoiarvi con le solite recensioni MA stavolta si cambia aria! E basta con ‘ste cazzo di band californiane, e che siamo una colonia americana? Ah, “sì” dite?

RECENSIONI DI BAND ITALIANE come avete più e più volte richiesto per mail e su Facebook maldetti stalker bastardi schifosi luridi «Oh, finalmente le recensioni di Tab_Ularasa, VAIRUS e La Piramide Di Sangue che ti chiediamo da secoli!» ehm, in realtà non proprio eh. Però quasi, come cantava Freak Antoni.

La Salerno garage dei Bidons

Un minuto di silenzio per il nome della band.
Proseguiamo.

Come indica in maniera vistosa il loro logo su Bandcamp i Bidons suonano un “garage per le masse”, una musica democratica e fiera della sua immediatezza, come ci hanno insegnato papà Bangs e mamma Sonics. I ritmi del loro primo album del 2012 “Granma Killer!!!” sono però deliziosamente rock and roll più che punk-garage (vedasi il pezzo 2009) con venature power pop ma senza l’egemonia della chitarra a tutti i costi, sono persino ballabili i bastardi!

Per cui è ovvio, come i più intransigenti di voi avranno subito capito, che qui siamo su una sponda più catchy del garage, compiacente e divertente, il che di per se non dev’essere un male a prescindere però è chiaro che se preferite suoni abrasivi e gli sputi in faccia i Bidons non fanno per voi (come anche la società civile, ma questo è un altro discorso).

Due cover eccellenti, Be A Caveman degli Avengers e Night Time dei Strangeloves, gli ululati alla Cramps di Wolves of Saint August, un album che si mastica bene e si dimentica altrettanto facilmente… Avrebbero anche i numeri questi quattro salernitani, ma manca il singolone spaccadenti, l’ariete d’assedio, la HIT insomma. Ci provarono subito l’anno dopo col singolo Raw, Naked & Wind, misto di White Stripes e sixties ben congegnato, apripista per il loro secondo album: “Back To The Roost”.

Si alza il volume stavolta, meno rock and roll e più furia Nuggets, leggermente più vintage ma non lo-fi e con una title-track memorabile. Meno paraculi dei Double Cheese ma altrettanto bravi nel combinare riff, assoli brevi ma cazzuti e ritmi forsennati. Non sono proprio la band per cui vado pazzo di solito, però come spinge (Shout it out) Burn Down! e come galvanizza il riff di I don’t mind!

Insomma: di sicuro il loro lavoro migliore, sopratutto alla luce dell’ultimo album “Clamarama”.

Non voglio partire prevenuto quando recensisco un album, mai, però già dopo aver ascoltato il pezzo d’apertura, Do it alone, mi è scesa parecchio la scimmia che si era arrampicata faticosamente nel 2013 per “Back To The Roost”. Più power pop che garage, assoli da masturbazione seriale, riff troppo troppo troppo orecchiabili, cazzo è come spararsi nelle orecchie un misto di Bass Drum of Death-Jet-Double Cheese tutto patinato e ripulito fino all’inverosimile.

Dal punto di vista compositivo probabilmente siamo di fronte al loro album più riuscito, se sparato a tutto volume dalle casse sembra inciampare clamorosamente con i suoi stessi cliché ma senza auto-ironia. Probabilmente a quelli di voi che preferiscono gli Smithereens agli Oblivians questo album provocherà orgasmi multipli da qualsiasi orifizio, perché i Bidons ci sanno fare eccome. Personalmente ho faticato non poco ad arrivare alla fine dell’album.

Passiamo alla roba seria, passiamo alla scena Ferrarese.

Captain Beefheart è sceso a Ferrara: ovvero come i Mirrorism mi hanno spappolato il cervello

Io la prima demo dei Mirrorism non so dove cazzo cercarla. Probabilmente dovrei contattare la band, ma tra tutti i contrattempi della vita mia non ho mai trovato lo spunto per decidermi e rompergli il cazzo, così la roba più vecchia che ho trovato è del 2012, un EP titolato “Fly Eye”.

E nulla, già dopo S.P.O.W. ho dovuto spararmi una sega per svuotare tutta l’emozione che mi si era accumulata nelle palle. Post-punk? Un po’, per nulla nostalgico dei tempi che furono, ma che ne riprende le cose migliori, i ritmi sghembi, le chitarre inquietanti, la voce che passa dalla narrazione alle urla più agghiaccianti, sicuramente caratterizzato da una attitudine tutta loro. Sembra che i titoli stampati nella musicassetta fossero pure sbagliati e questo gli vale cinque punti in più a bocce ferme.

Night Flight mi ricorda i cambi repentini e la frenesia di alcuni pezzi degli australiani Total Control ma l’aggiunta del sax (per nulla Morphine ma mooolto beefheartiano) è un tocco di classe ineguagliabile, bellissime anche la lenta Slow Homo, la punkettona Exit The Loop e Anti Bodies.

È come trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo, come quando ascoltai per la prima volta i VAIRUS «Ma allora è possibile fare della merda di qualità pure in Italia!»

Sarà addirittura la Trouble In Mind a produrgli il 7’’ con Night Flight e Exit The Loop nel 2013. Ovviamente sarà un successo nazionale ed internazionale, li avrete sicuramente visti a Sanremo, a Lollapalooza, agli Oscar e dal Papa vestiti da chierichetti.

E poi, due anni fa e due giorni dopo il mio compleanno, arriva il regalo più bello: “Mirrorism”, la loro consacrazione, il loro primo vero album, caricato free su Bandcamp. E in concomitanza la notizia del loro scioglimento. MAPORCODIO.

Amici: possiamo urlare al capolavoro e non vergognarci. Cazzo bisogna dire di un album così? Infiltrazioni psichedeliche deliranti, un theremin mai così psicotico prima, ogni cristo di pezzo sembra partorito in un momento di lucida creatività mai più raggiungibile, come se in quel preciso momento le sfere celestiali e le loro palle si fossero congiunte su una linea retta cosmica, anche se non lesinano coi rumori/suoni e le distorsioni sembra tutto estremamente controllato e calibrato.

Solo White Jam se magna a colazione gran parte della produzione australiana e californiana contemporanea, se poi vai avanti è sconcertante la facilità con cui le idee scorrono fluide e sempre brillanti, fino alla deflagrazione finale: quei sette minuti e ghianda di Loose End che da due anni a questa parte il mio pezzo rock italiano preferito in assoluto.

Compratelo se potete, in digitale of course, ed amatelo fisicamente.

E dopo tutti ma prima di tutti: i For Food

Prima o poi anche di loro bisognava parlare.

Probabilmente preceduto da qualche EP che mi sono perso, i For Food hanno all’attivo un solo album uscito nel 2014 e composto da sette pezzi che provocano uno spaesamento totale. Agghiacciante ed estetica in modo malato la prima vera traccia, Love, Sex & Drugs, ci colpisce subito per una cifra stilistica unica e destabilizzante, qua mettersi a fare troppi discorsi attorno al genere diventa pericoloso ma purtroppo necessario.

Categorizzare in musica, in particolare negli studi musicologici più che nella critica la quale etichetta a caso un po’ tutto, serve a collocare nel tempo e nello spazio un dato fenomeno musicale e di solito aiuta a comprenderne tutte le unicità. Però con i For Food è davvero un macello. Insomma, con i Mirrorism l’etichetta post-punk gliela affibbi e per quanto gli possa stare stretta se la tengono e non devono rompere il cazzo, ma con i quest’altri ferraresi c’è da bruciarsi le sinapsi.

Cos’è una City Light? Io un nome l’avrei: capolavoro, di nuovo, ma non ci aiuta. Ci sono rimembranze delle sperimentazioni post punk e ovviamente art rock, ma addirittura possiamo cogliere echi di trip-hop e psichedelia che non riesce a scadere mai nel revival. Psichedelia Occulta forse? Mmm, non direi, siamo troppo lontani dalle influenze jazz degli Squadra Omega o da un certo misticismo misto a tribalismo di altre band, come anche dal prog di In Zaire, questi son di Ferrara mica di Torino!

È davvero un unicum questo “Don’t Believe In Time” e non soltanto per il nostro paese.

Giocano i For Food, ma sempre rimanendo fottutissimamente seri. Ci disorientano, ci buttano in un altro spazio e in un nuovo tempo, la melodia non solo c’è ma è l’elemento fondante di tutti i pezzi, anche se poi quasi la si dimentica nell’avvolgente tempesta sonora, mai satura però come nei complessi garage-sperimentali tipo i teramani Inutili.

L’attacco di Opium New Year potrebbe benissimo essere quello di una band indie rock americana per poi concludere con un riff genuinamente punk e la bellissima voce di (credo, perché non ho trovato moltissime informazioni) Agnese “Aggie Rye”, che spazia da Beth Gibbons a Exene Cervenka passando per Grace Slick come se nulla fosse, incantandomi ogni volta.

Punta di diamante la conclusiva La Petit Mort, un po’ Doors un po’ Jefferson Airplane nei primi istanti, per poi perdersi finalmente saturando, un vero e proprio orgasmo finora ritardato e che esplode su chitarre dapprima orientaleggianti poi shoegaze.

Un album di cui non dobbiamo sottovalutare l’influenza non solo sulla scena Ferrarese (che comunque li venera, giustamente) ma su tutto l’underground italiano.

Beh, che dire gente, questo è tutto, tornate pure a fare quello che stavate facendo. Alla prossima.

Pere Ubu – Dub Housing

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Quando nel 1896 Alfred Jarry si presentò al Théâtre de l’Œuvre di Parigi sapeva bene quali sarebbero state le reazioni al suo Ubu Roi. Sdegno, orrore, disgusto e scandalo, non necessariamente in quest’ordine. A Jarry non interessava rivoluzionare il teatro a questo ci pensavano gli altri. A Parigi era già passato Ludwig Chronegk con la sua compagnia di Sax Meiningen e soli nove anni prima della pièce di Jarry tra i punti di riferimento rivoluzionari per il teatro c’era il Théâtre Libre di André Antoine.

Chronegk e Antoine sono due seri e colti protagonisti del nuovo teatro naturalista (più il secondo in realtà) nato sotto l’egida di Émile Zola, la grande rivalsa intellettuale della borghesia, l’inizio di un nuovo modo di vedere la realtà, e di tutto ciò a Jarry non poteva fregare di meno.

Quando nel 1975 i Pere Ubu nascono dalle ceneri dei Rocket From The Tombs siamo negli anni d’oro della disco music. Mamma Mia, singolo del terzo album degli ABBA, spopola in tutto il globo, gli Earth, Wind & Fire si auto-celebrano con una live che prende il nome di un loro successo “Gratitude”, tra i dischi più ballati in discoteca c’è il secondo album dei K.C. and The Sunshine Band. Il rock dichiaratamente estetico trova la sua definitiva consacrazione in “Alive!” dei Kiss, ma dove sono i veri rockettari?

Era l’anno delle seghe mentali, dal kraut-rock dei Neu! all’ambient di Brain Eno, fino allo sconvolgente e improbabile “Metal Machine Music” di Lou Reed, in classifica compariva soltanto il soft rock dei Pink Floyd, mentre gli Henry Cow pubblicavano il loro capolavoro. La rivoluzione ambient era agli albori, gli altri miti erano Queen, Journey e Springsteen, e di tutto ciò ai Pere Ubu non poteva fregare di meno.

Ciò che lega Jarry ai Pere Ubu non è solamente il nome del protagonista dell’Ubu Roi (Père Ubu, ovvero Padre Ubu) , ma è uno stile di vita e una genialità fuori dagli schemi usuali. Chi dice che la grande Arte è tale perché universalmente comprensibile oltre a dire una scemenza non può assolutamente capire queste due entità che proprio dell’incomprensione e della incomunicabilità fecero un’Arte tra le più universali di tutte.

Recensire i Pere Ubu è un compito difficile perché il contesto socio-culturale che gli appartiene si ingrandisce di anno in anno in maniera indiretta, ovvero tramite una progressiva oggettivazione della storia della musica. In pratica più il tempo passa e più le tematiche legate agli album dei Pere Ubu diventano chiare e fungono da imprescindibile chiave di lettura per gli anni ’70.

Quando si parla di questa band, almeno per quel che concerne i primi album, è quanto mai limitativo parlare semplicemente di rock. La new wave (il movimento a cui generalmente vengono legati i Pere Ubu) ha le sue fondamenta in “Marquee Moon” dei Television e “Blank Generation” di Richard Hell & The Voidois, ma quanto di quelle fondamenta è presente nei Pere Ubu? Assolutamente tutto, ma immerso e diluito in tanto altro.

Il problema che di solito si incontra nel parlare di questa band è nel descrivere la loro musica a parole senza risultare dannatamente criptici. Chiaramente col primo paragrafo di questa recensione mi sono giocato il 99% dei visitatori casuali o di chi voleva semplicemente “quella cazzo di recensione!” ma mi sta bene, perché dell’Arte o se ne parla in maniera esauriente o è meglio stare zitti.

Di cosa parlano i Pere Ubu?
Prima di tutto dobbiamo capire che più che raccontare qualcosa i Pere Ubu esprimono qualcosa. Quello che ne esce fuori è la vera blank generation, quella che Richard Hell ci svela con una formula semplicemente punk i Pere Ubu riescono a farcela vivere con espedienti che si avvalgono di una esecuzione “teatrale” del loro essere punk, uno spettacolo uditivo non dissimile da una pièce teatrale radiofonica.

Quando un critico etichetta una band art-rock, art-punk o cose così, di solito sta a significare che non c’ha capito un cazzo di quello che ha ascoltato, ma gli è piaciuto. In questo caso art-punk è una denominazione perfetta, se non l’unica, che possiamo affibbiare a questa band.

I suoni industriali e post-apocalittici che pervadono i primi album dei Pere Ubu sono pennellate che colgono gli aspetti più introversi del nichilismo giovanile a metà degli anni ’70; se il punk è un’arte naturalista che punta a rappresentare in modo scientifico l’età industriale (vedi il sound sporco della Detroit di MC5 e Stooges) e il disagio adolescenziale (Sex Pistols, Clash, Richard Hell, etc.) quello che fanno i Pere Ubu è descrivere l’universale partendo dalle piccole impressioni vicine al particolare.

Non vorrei che qualcuno leggendo pensasse che uso dei giri di parole solo per masturbarmi mentre mi rileggo, per evitarlo sintetizzo quanto detto affermando che i Pere Ubu sono difficili da approcciare perché il loro sound è piuttosto peculiare e unico, ma essendo l’eccezione ad un panorama musicale già delineato sono anche quelli che propongono un nuovo punto di vista grazie al quale possiamo comprendere fino in fondo il quadro generale.
Questa aura ermetica che avvolge i Pere Ubu è la stessa che immergeva Jarry e la sua Patafisica, una corrente di pensiero che non a caso sarà molto cara alla band.

I rumori fastidiosi, i suoni acidi e il nervosismo che pervade le prime opere della band americana altro non sono che la trascrizione in partitura delle paranoie mentali che ben si sposano delle volte con un certo senso di inconcludenza.
Si può tranquillamente affermare che i più onesti cantori dell’era moderna sono proprio i Pere Ubu.

Ma ora è meglio se passiamo alla recensione vera e propria.

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Recensisco “Dub Housing” (1978) non perché sia il miglior disco dei Pere Ubu (anche i sassi sanno che il loro primo album, “The Modern Dance”, è inarrivabile) ma perché è l’album a cui sono più affezionato.
Sì, sono un cazzone, portate pazienza.

Quella che considero la migliore e sintetica descrizione di questo capolavoro assoluto del rock è la seguente:

Lo stile straordinariamente vivo di colore e di metafora, inzeppato di allusioni e trasposizioni culturalistiche, impastato di terminologie classiche o rare, come di parole di un gergo […] provinciale, per quanto di una costante acutezza e finezza, rivela, a contrasto, una sorta di voluta atonalità, come di un discorso costantemente tenuto sulla corda più tesa, prossima a spezzarsi.

Queste parole non sono di un esperto musicologo o di un critico di Blow Up, le ho tratte da una straordinaria introduzione scritta da Sergio Solmi (notevole poeta e grandissimo saggista particolarmente legato a Leopardi) al testo teatrale dell’Ubu Roi di Jarry. Mentre leggevo in treno questo passaggio non mi sovvenne nulla, ma ascoltando quello stesso giorno “Dub Housing” mi resi conto che l’humus non era poi così diverso da quello dei pazzi testi recitati da David Thomas, dalle finezze di Tony Maimone al basso, dallo spezzettato e nervoso lavoro al synth di Allen Ravenstine (il vero protagonista di questo secondo album dei Pere Ubu).

Si comincia con Navvy, forte del ritmo serrato della batteria di Scott Krauss mentre Dave Thomas interpreta un ragazzo che ciondola scomposto e che di tanto in tanto urla un “libertà!”, i nervosi interventi di Ravenstine sono semplicemente geniali, il pezzo in sé è un classico imprescindibile.

Dal dialogo tra il basso di Maimone e un giro di synth pregiatissimo veniamo introdotti in On The Surface, quasi un pezzo surf rock ma pregno della nevrosi che caratterizza l’album, il filo teso sempre in procinto di spezzarsi tra festosità e nevrosi totale è un must ricorrente nel sound di molti dei primi pezzi dei Pere Ubu.

Dub Housing esprime e racconta i suoni e le sensazioni della band durante la registrazione di questo album in questa abitazione residenziale nella quale vivevano. Se vogliamo potremmo un sintetico manifesto di questo secondo disco.

Caligari’s Mirror fa della dicotomia tra festosità e nevrosi il suo sound. Il testo tra il parodico e il grottesco fa riferimento ad un certo specchio di Caligari, probabilmente si tratta di un gioco, più precisamente di una deformazione, quella da Calibano a Caligari (uniti entrambi da diverse accezioni di grottesco), in questo modo la band citerebbe lo specchio in cui Calibano non accetta la sua natura mostruosa ne La Tempesta di Shakespeare* e avrebbe anche maggior senso contestualizzato col resto del testo (la deformazione di citazioni shakespeariane è il fulcro di gran parte dell’opera di Jarry).

Thriller! è una gemma di angoscianti impressioni sonore da vero film di serie B dell’horror, un momento anarchico che sembra uscire da alcuni dei passaggi più angosciosi di Sysyphus di Richard Wright (lo so, è quantomeno azzardato in termini strettamente musicali come paragone) ma se Wright in “Ummagumma” sperimenta seguendo fedelmente le orme del maestro John Cage, i Pere Ubu invece disegnano un quadro paranoico fatto di suoni legati alla modernità alquanto “avanguardistico”, l’angoscia è voluta e ricercata con accuratezza.

Il lato B si apre con le visioni nonsense di Thomas seguite da un rock de-strutturato alla Captain Beefheart, la sinergia tra i membri della band in questa I, Will Wait è davvero spettacolare.

Su questo tenore anche la successiva Drinking Wine Spodyody, un’orgia sconclusionata magistralmente eseguita.

(Pa) Ubu Dance Party ancora una volta è in equilibrio tra un vero e proprio party e un sound più “industriale”, è anzi il pezzo che sviluppa maggiormente questo dialogo con un riff surf-rock e una coda che è un crescendo nevrotico disarmonico.

Blow Daddy-o è un breve divertissement con il synth che si ripete come in un loop accompagnato da brevi e veloci fraseggi degli altri strumenti. Non c’è un vero inizio né una vera fine. Nel titolo “daddy-o” si riferisce ad uno slang che purtroppo si può ricondurre a molte cose, in questo caso credo sia al dispregiativo che si affibbia a chi è più vecchio di te ed è anche un po’ rompicazzo.

Le prime note di Codex ci trasportano in uno scenario post-apocalittico, Thomas esprime in modo sublime lo scorrere lento e inesorabile del tempo nella mente:
I think about you all the time
step after step
block after block
laconico ma esaustivo. Le ultime note in coda suonano come mai definitive, l’unico modo con cui poteva concludersi ”Dub Housing”.

Questa recensione è stata per me necessaria, ovviamente non esaurisce in alcun modo la questione Pere Ubu, e forse non avvicinerà nessuno a questo splendido album. Questo perché è davvero lunga, pesante e a tratti semplicemente scritta da cani, ma non mi sarei sforzato tanto se non ne valeva pena.

“Dub Housing” è uno dei capolavori del rock, della musica e non mi sento un’idiota ad asserire che lo è anche dell’Arte in generale.

  • Voto: 8,5/10

UN CONSIGLIO:
in Italia è stata prodotta probabilmente la miglior versione in vinile di questo disco. È della Get Back, sfortunata etichetta toscana legata principalmente al garage rock, la quale ha avuto la straordinaria possibilità di incidere dai nastri originali dei Pere Ubu. Con questa edizione possiamo assaporare il fantastico lavoro ingegneristico che Ken Hamann fece per rendere giustizia alla complessità sonora della band. Se la trovate acquistatela senza esitazioni. Ah, tranquilli, non sono ammanicato, quando la Get Back ha chiuso i battenti non avevo neanche diciotto anni.

[i Pro e i Contro non sono presenti alla fine di questa recensione perché credo di essere stato esauriente, quindi sì: pecco di presunzione e non è una novità]

*lo specchio di cui parlo non è nel testo originale, ma è una figura ormai legata al Calibano shakespeariano. L’iconografia di questo celebre specchio è stata introdotta nell’edizione del 1891 del romanzo Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Entrata nell’immaginario collettivo (per ben ovvi motivi) la figura di Calibano e il suo specchio sono quasi inseparabili.