Etichetta: Touch & Go
Paese: USA
Anno: 1996
Archivi tag: Beck
Voka Gentle – Writhing!
Etichetta: Leafy Outlook
Paese: UK
Etichette: 2021
Nastro – Nastro
Etichetta: To Lose La Track Paese: Italia Pubblicazione: 2009
L’ho bruciato
l’ombrello col ferro da stiro
l’ho buttato
nella vasca da bagno il fono
camminavo
col piede sul filo del rasoio
elettrico!
«Però guarda che dal vivo erano mille volte meglio eh! Facevano un casino pazzesco, c’avevano un muro del suono che lo TOCCAVI diocristo, lo potevi imbiancà!» Non lo metto in dubbio, caro amico romano che vedo solo una volta l’anno (per fortuna), però ‘sto album è comunque una bomba, una cosa inaudita per il panorama italiano, sopratutto oggi. Peccato che sia uscito quasi 10 anni fa nella totale indifferenza di tutti noi.
“Nastro” scorre (giustamente) come un nastro magnetico a 8 millimetri, con i suoi singhiozzi krautrock e testi epigoni di un Faust’o disincantato che non ha conosciuto il David Bowie berlinese. Teso nel cercare un compromesso tra melodia e rumore che non risulti imbarazzante come quello dei Subsonica, ma che piuttosto derivi dalla new wave più cerebrale, l’esordio dei Nastro ad un primo ascolto risulta sconclusionato e indigeribile. Poi, come una nebbia che si dirada, lascia scoperta la strada dalle quali convergono tantissime influenze senza prediligerne alcuna, risultando a tratti come un’opera dal profondo senso intellettuale e delle altre come una sonora cazzata, ma senza comprometterne mai la fruibilità.
Certi momenti, debitamente isolati, sembrano rifarsi ad una dimensione commerciale, tipo il secondo Beck per capirci (Blues e Cestino di frutta), altri rimandano al post-industriale, e ti ritrovi improvvisamente di fronte ad una versione spigolosa di “Dub Housing” (Ha Ha Ha), per cui orientarsi tra le influenze diventa inutile, perché lo spaesamento ti accompagna per ogni traccia.
Il punto però è: merita riscoprire questo album uscito ormai 10 anni fa? La faccenda per me è semplice in fondo, album come “Nastro” non hanno una data di scadenza perché non si rifanno a nessuna scena in particolare, non dialogano col loro contemporaneo ma spostano i confini di certe grammatiche che chiaramente li ispirano. Non siamo di fronte all’operazione di un Faust’o che in maniera programmatica decostruiva la canzone italiana portandola nella new wave, qui di programmatico non c’è niente perché ogni canzone è pensata, rimasticata ed eseguita con grande attenzione nei particolari, senza necessariamente però convergere verso un concetto legante che non sia il puro suono.
La componente rumoristica in questo esordio è forse una di quelle più peculiari che abbia mai ascoltato da parte di un gruppo italiano. Oggi il rumore è una costanza nell’underground nostrano. Album come “Φ” (2016) e “Stromboli” (2015) sono recensiti persino dalle riviste più mainstream, anche se magari non sono apprezzati quanto i nuovi eredi del cantautorato italiano (Young Signorino, Sfera Ebbasta, Stato Sociale, Thegiornalisti, Willie Peyote e il resto del circo equestre) in ogni caso stanno riscontrandosi con un pubblico progressivamente più eterogeneo e sempre meno di soli addetti ai lavori. Comunque, sebbene l’operazione portata avanti dai Nastro sia in linea con certe dimensioni caustiche italiche (penso all’esordio degli Arto, che avevo citato su Facebook tempo fa), riesce a dominare gli istinti radical-intellettuali del rumore fine a se stesso dentro una struttura-canzone che non scade nel melodismo adolescenziale, ma intercetta Neu! come J.G. Thirlwell, Alan Vega e gli Skiantos di “Pesissimo!” (Sul Parafulmine), risultando così mai accomodante ma comunque eccezionalmente piacevole.
Ho ricominciato ad intortarmi vero? Fottesega, blog mio, regole mie. Ora, per esempio, mi stapperò una bella birra ghiacciata da 66, la berrò, e poi finirò di scrivere questa recensione. Tra un rutto e l’altro.
Ecco, boh, in realtà non so cos’altro dire. Nell’invitarvi all’ascolto di questo disco non voglio instillarvi l’idea che questa sia la via per definire un sound underground originale, non bisognerebbe riprendere da dove i Nastro hanno lasciato (quello toccherebbe a loro), ma bensì assimilarne l’attitudine al cercare di spostare confini invece che superarli (spesso intellettualizzando eccessivamente) o peggio seguendone i bordi pedissequamente.
Per i più curiosi eccovi il link ad una splendida intervista su acquanonpotabile.
The White Stripes – The White Stripes
[AGGIORNAMENTO ALLUCINANTE: in un momento di noia ho recensito l’intera discografia di Jack White, la quale contiene una versione aggiornata di questo post, se volete farvi un giro non avete che da cliccare QUI.]
Il primo disco è sempre il migliore. A volte il secondo, e a volte persino il terzo, ma dal quarto in poi sono casi davvero rarissimi. A questa statistica non si sottraggono nemmeno i White Stripes di Jack e Meg White, due nomi (d’arte) che hanno attirato attorno a sé una montagna di gossip di cui, sinceramente, non ce ne frega una benamata mazza.
Appena una band diventa famosa parte a bomba la divinizzazione della stessa, con la conseguente “fame” di gossip: di che si fa Jack White? Ma Meg se la scopa? Perché chiamarsi Jack White se poi non fai una band con Jack Black? E via discorrendo.
Peccato che la musica non c’entri un bel niente con queste idiozie. C’è da dire che è nato a Denver, il che è fondamentale per comprendere i vari perché della sua musica. White è un bianco che si sposa con il blues dei neri mischiandolo con una buona dose di garage-rock, cresciuto nella città dove poteva meglio conoscere i classici dei due generi.
Le sue prime uscite come musicista non sono certo formidabili, ma pian piano Jack inizia a trovare uno stile tutto suo, già percepibile in “Makers Of High Grade Suites“, tre pezzi registrati assieme a uno dei fratelli Muldoon dei The Muldoons, usciti soltanto nel 2000.
Probabilmente “Makers Of High Grade Suites” è il lavoro che segnerà in maniera indelebile il sound della chitarra di White nei White Stripes, suono che perderà progressivamente con i The Raconteurs, e poi con i Dead Weather (dove spesso suonava la batteria) e infine nel suo ultimo lavoro da solista, “Blunderbuss“ (2012), dove riecheggia qualcosa del suo retaggio garage in Sixteen Saltines, anche se l’esecuzione è una delle più anonime del focoso chitarrista.
La voglia di spaccare i culi, comunque, sembra ormai persa. Intuibile forse già ai tempi di un suo flirt poco conosciuto con Beck in “Guero” (2005) dove suona il basso in Go It Alone con fare tragicamente blues sulla solita verve noise-intellettuale del bravo Beck. La sua attenzione per una musica meno intuitiva del garage trova la sua totale definizione in un progetto assieme a Alison Mosshart, l’eclettica cantante dei The Kills.
I Dead Weather sono stati un po’ la negazione di un percorso fin lì fatto da White. Non c’è una reale evoluzione in “Horehound” (2009) e in “Sea Of Cowards” (2010), al massimo una unione di intenti nel far convergere il sound dei Kills, dei Queens Of The Stone Age, dei The Raconteurs e dei White Stripes. Il solito super-gruppo insomma, un primo disco interessante (perché propone suoni interessanti) e un secondo noiosissimo (perché li ripropone spudoratamente).
Il dramma di White è quello di non aver trovato una valvola di sfogo ideale per la sua straordinaria creatività dopo l’esperienza degli Stripes. In generale trovo che il suo meglio lo dia proprio in quel garage-rock con tinte blues che caratterizzano i suoi lavori iniziali, piuttosto che in questa sua veste moderna di vate del rock and roll in tinta twist, che sebbene produca dei bei pezzi non hanno nemmeno l’ombra dell’energia e della potenza di dischi come “De Stijl” (2000) e “White Blood Cells” (2001).
Poi ci sono i premi, le collaborazioni, i film (abbastanza divertente il corto dove Meg e Jack interpretano se stessi) e tantissima altra roba, però per la lista della spesa esistono le biografie.
Una di cosa di cui invece proprio non mi capacito è lo schieramento netto che si è creato contro il primo disco degli Stripes (che spesso si allarga ai primi tre). Ho letto addirittura che “White Blood Cells” sarebbe un disco studiato a tavolino perché è il terzo disco di una serie di album tutti uguali (che è una spiegazione del cavolo, a questo punto gente come Zorn, Segall e Zappa vanno a farsi friggere).
Il primo disco degli Stripes risente ancora tantissimo dell’esperienza con “Makers Of High Grade Suites”, è sopratutto garage, e di certo non è così banale come lo vogliono far passare. Inoltre parlare di banale nel garage è qualcosa di talmente idiota che è difficile da categorizzare. Dai The Castaways ai The Datsuns sono cambiati gli strumenti, sono migliorate le sale di registrazione, ci sono state tantissime influenze che hanno cambiato il sound tipico di questo genere, e il garage nei primi del 2000 ad un certo punto divenne un’accozzaglia di cose spesso difficilmente definibili (con questo non voglio certo dire che è tutta merda, diosanto! Cioè, quanto amo io “Electric Sweat” dei The Mooney Suzuki pochi al mondo!).
Quello che hanno fatto gli Stripes è stato portare indietro le lancette, riportare il garage ad essere diretto, sincero e ingenuo, quando ancora i metri di paragone erano Son House e gli Stooges. Se poi prendiamo in esame proprio questi anni c’è nel garage un ritorno alle origini pazzesco, si ruba ai MC5 ma anche al primo garage di origine psichedelica, si riprendono i Rats, si riprende Kim Fowley, si riprende anche gente fuori dagli schemi come Syd Barrett!
I primi tre dischi, sputtanati dalla critica italiana, hanno anticipato di almeno cinque-sette anni questa tendenza. Ty Segall, oggi, lo dimostra abbastanza bene.
Detto questo il garage degli Stripes si esaurirà ad una velocità sorprendente, e il minimalismo voluto da Jack White verrà ripreso solo in parte, anche se credo sia una delle cose più belle mai fatte nel garage, perché unica nella sua semplicità. Alla faccia dei detrattori.
Il disco è prodotto dalla Sympathy for the Record Industry, una delle più gloriose etichette americane, che annovera talenti del calibro dei Bad Religion, dei Suicide, i Von Bondies (con i quali White ha avuto un forte diverbio tempo fa), i New York Dolls e addirittura i The Gun Club. Non male!
L’album è decisamente eterogeneo nel sound, la chitarra troneggia con riff minimali, nessuna distorsione barocca, niente assoli da undici minuti, zero virtuosismo, siamo proprio tornati alle basi, solo energia.
Jimmy The Exploder è questo ed altro. Il punto di forza di White è certamente la facilità con cui introduce riff su riff. Il ragazzo non si prodiga in copia-incolla, è piuttosto ispirato, semmai.
Consideriamo un attimo la questione della batteria di Meg. Non è Meg che suona male, Meg suona semplicemente da cani, ma è questo quello che sa fare, ed è questo quello che Jack vuole da lei. White non fa la sua musica e poi ci mette Meg, ma costruisce i pezzi partendo proprio dai suoi ritmi da “scimmione” (definizione sua, mi astengo da giudizi estetici), in pratica utilizza i ritmi di questa batteria minimale per non uscire fuori dagli schemi, si pone un auto-limite antro il quale fare esplodere la sua creatività.
Poco originale?
Va bene…
Il disco scorre giù veloce e assassino, Stop Breaking Down, del grande Robert Johnson, è un pezzo forte, rapido e minimalista, ma in potenza anche lento e barocco, The Big Three Killed My Baby è uno dei singoli con più forza degli ultimi anni del garage, Suzy Lee viaggia sulle corde del blues e del garage come in Sugar Never Tasted So Good.
Bellissime Cannon e Astro, un paio di accordi, potenza e quella vocina straziante di Jack che urla al microfono.
I pezzi sono tutti i ottima fattura, come anche la cover di Dylan (One More Cup Of Coffee) e l’ennesima versione del classico blues St. James Infirmary, che, udite udite, trova in questo disco degli Stripes la sua consacrazione, almeno per me (mi fa tremare le budella, che ci posso fare?).
Il disco si chiude con la luciferina I Fought Piranhas, bellissima prova di slide e potenza.
C’è poco da dire su questo disco, ma molto da ascoltare.
Magari stavolta con un po’ più di umiltà.
- Pro: garage non purissimo, un ritorno alle origini del genere nelle sue venature più blues.
- Contro: troppo leggero. Sebbene ci siano delle sferzate anche importanti, pezzi come When I Hear My Name sono potenzialmente delle bombe, ed invece sembra che White preferisca la versione light.
- Pezzo Consigliato: amo Astro. Lo so che ho qualcosa di sbagliato dentro, ma sono fatto così!
- Voto: 7/10
[approfitto degli Stripes per informarvi che ho un nuovo blog (ancora???) di recensioni cinematografiche, Alla Ricerca Del Bellerofonte]