Etichetta: God Unknown Records
Paese: Italia (UK)
Pubblicazione: 2022
Archivi tag: Black Mountain
Shooting Guns – Brotherhood of the Ram
Che l’heavy metal non sia solo Sammy Hagar, Van Halen e i film fanta-porno ci si può arrivare, che dai vestiti fatti di jeans strappati ai lustrini ci sia un passo va altresì bene, ma che ora esista dell’heavy metal in salsa psichedelica forse per qualcuno è anche troppo.
Non che sia una novità, in fondo Iron Butterfly e ancor prima Blue Cheer non erano così lontani dalla psichedelia, ma oggi questa relazioni non è più tale, si è passati alla coppia di fatto e alla comunanza dei beni. Le jam infernali degli Harsh Toke e i riff pesantemente sabbathiani dei Kadavar sono solo la punta dell’iceberg, un genere che non è mai morto in questi giorni sta ri-vivendo per la prima volta.
Che ci siano dei contatti subliminali tra le nuove leve del rock americano e la Psichedelia Occulta italiana forse sono solo io che lo dico, essenzialmente perché è una cretinata pazzesca. Eppure quando sento gli In Zaire o gli Shooting Guns ci sono molte corde in comune che vibrano nel mio inconscio. Come al solito in Italia la forma spesso sovrasta la sostanza, anche se “Sette” de La Piramide Di Sangue prova che si può trovare un equilibrio anche da noi, ma va detto per onestà intellettuale che a ‘sti statunitensi vien proprio naturale.
Si ritorna con questo album al “no brains inside of me” ripetuto con un falsetto disturbante in Maze Fancier (Thee Oh Sees), siamo alla ricerca musicale di una perdita totale di coscienza, lontana dall’utopia felice degli Acid Test perché rassegnata e insensibile. Siamo negli anni ’10 del 2000, Grateful Dead, Acid Mothers Temple e gli altri figli dei fiori sono un punto di riferimento musicale, ma non concettuale.
Gli Shooting Guns sono canadesi, proprio come i Black Mountain di Stephen McBean, e qualche somiglianza nel sound la si trova senza difficoltà, ma se nei Black Mountain anche i riff più furiosi (Don’t Run Our Hearts Around, Tyrants) restano legati anche concettualmente ai seventies, gli Shooting Guns sono proiettati da tutt’altra parte, verso una nuova angoscia esistenziale (di carattere mondiale, per quanto riguarda la cultura occidentale).
I primi due pezzi di “Brotherhood of the Ram” (2013, RindingEasy Records*) sono potenti quanto introversi. Nella furia doom, stoner e psych si mescolano, sia Real Horse Footage che Motherfucker Never Learn sono pieni di rabbia. Il titolo della seconda è quantomeno esplicativo, da notare però come nessun urlo liberatore si faccia strada, i pezzi sono tutti strumentali in questo album e la mancanza di una voce umana porta ad interiorizzare ancora di più il flusso ipnotico dei riff.
Con Predator II mi sembra quasi di ascoltare qualcosa degli Zombi (il duo space rock Steve Moore e Anthony Paterra da Pittsburgh, ascoltatevi “Spirit Animal” del 2009) ma invece dei gentili sintetizzatori ci piazzano chitarre stoner a manetta, il tutto in salsa space crea un clima epico e dannatamente piacevole.
Go Blind ha un inizio obiettivamente perfetto. È come se gli Shooting Guns ci invitassero in un altro mondo, uno di quelli belli scuri pieni di tenebre e quant’altro, ma senza la vena spiccatamente tamarra del metal, e senza nemmeno ricercare chissà quale estetica di ‘sta ceppa, naturalmente loro non sono accanto a noi nel cammino, la solitudine durante l’ascolto è totale.
La title track è una bomba assoluta, sebbene dalle prime note mi sentissi a metà tra Mahogany Frog, Pink Floyd e Mike Oldfield, quando la potenza di Brotherhood of the Ram si svela è una botta di adrenalina mica da ridere.
Sul finale una rumorosissima No Fans chiude le danze, un velo di esoterismo si coglie qua e là, come se tra gli Shooting Guns e Torino non ci fosse un oceano.
Questo è il secondo album della band canadese, il primo probabilmente lo recensirò dato che qualcos’altro da dire c’è eccome, ma sono sfaticato e quindi me la sbottono qui.
- Lo Consiglio: a coloro che doom, stoner e metal assieme fanno rizzare i capelli (in senso positivo) ma se ci butti là anche una spruzzata di psych allora sei a posto almeno per un’oretta buona.
- Lo Sconsiglio: se siete poco avvezzi al metal strumentale e così ripetitivo, ovviamente c’è un senso se un riff viene ripetuto invece che progredire in millemila note, però se non lo cogliete forse questo album vi lascerebbe perplessi e annoiati.
- Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp di questa folle band, cliccate invece QUI per scaricare gratis questo album (fate come me, donate almeno due lire a ‘sti tipi, ok?), cliccate QUI se volete intripparvi nella home della label canadese degli Shooting Guns.
*La RindingEasy Records è il distributore dell’album fuori dai confini canadesi mentre l’etichetta di riferimento degli Shooting Guns è la Pre-Rock Records, fra l’altro nome spettacolare a mio avviso.
E ora qualche video:
Live ipnotica dei nostri, il pezzo in questione è Harmonic Steppenwolf, pezzo di apertura del loro primo album “Born To Deal In Magic: 1952-1976”.
Live di Motherfucker Never Learn in uno studio di Calgary nell’Alberta.
C’entrano come una capricciosa a merenda accompagnata da del tè caldo, però mi andavano quindi BANG! beccatevi gli Zombi.
Kadavar – Kadavar
No, non sono l’omonima band metal italiana, sono tedeschi e sono discretamente allucinanti.
Primo 7’’ e primo EP entrambi l’anno scorso ma possiamo già immaginarci un certo quantitativo di sfaceli da parte di questi Kadavar.
L’opening stoner-psichedelico di All Our Thoughts mette subito dei paletti che saranno poi le fondamenta di questo breve lavoro: potenza, riff ben congeniati, progressioni, grandissima qualità nella registrazione e nella composizione, potenzialmente dal vivo devastanti.
Saranno circa un migliaio le band che si cimentano nello stoner, ma sono pochissime quelle che riescono a scrivere dei pezzi che dopo due anni non vengano irrimediabilmente a noia. I Kadavar invece sembrano già un classico di cui non puoi fare a meno, una band imprescindibile per capire lo stoner (e anche la nuova ondata psichedelica) contemporaneo.
Il riff di Forgotten Past sembra uscito da “In The Future” (2008) dei Black Mountain, imperniato però dalle influenze che arrivano dalla solita California e non dalla nostalgia vagamente folk e alla lunga pedante della band di Stephen McBean.
Il rock contemporaneo è tornato al garage e alla psichedelia, e da due anni sta riscoprendo con la stessa profondità lo stoner e il rock-blues (Blues Pills), non che questi generi siano stati mai abbandonati, ma le esigenze storiche li riportano all’attenzione come il più importante fenomeno rock underground. Si è passati dall’interiorizzazione della ribellione col punk post-hardcore (vedi “Zen Arcade” degli Hüsker Dü) all’interiorizzazione e basta dell’indie rock (vedi “2” dei Black Heart Procession) per tornare alla ricerca dell’effimero (il garage) e dell’estraniazione dalla realtà (la psichedelia) con suite lunghissime, che non sono quelle geniali quanto classiche e manieriste alla Acid Mothers Temple, ma sono quelle scarne, piene di feedback e errori alla Harsh Take.
L’età contemporanea tra crisi economica e perdita dei valori (la stretta correlazione tra globalismo e relativismo) si concretizza nei riff portentosi e ipnotici di Zig Zags, nel garage cafone di Ty Segall, nella psichedelia lisergica dei Thee Oh Sees.
L’epica cavalcata di Goddess Of Dawn rende bene l’idea, fino a qualche anno fa questo pezzo poteva essere considerato del mero revival, mentre oggi è dannatamente più contemporaneo di qualsiasi album indie (e sicuramente più sensato di qualsiasi nuovo aborto degli Arctic Monkeys).
Ah, fra l’altro i Kadavar sono anche dei discreti musicisti. Una Creature Of The Demon dal vivo dev’essere una jam infernale fottutamente estraniante (quanto di più ricercato anche nelle avanguardie italiane tipo In Zaire).
L’impressione che mi resta di questa band dopo qualche ascolto è di tre tizi che ci tengono davvero e hanno del talento da vendere, e credo che ci metteranno un bel po’ prima di sfornare qualcos’altro, questo perché la cura della registrazione e delle composizioni è altissima, maniacale per certi versi.
Se vi piacciono i riffoni ben mescolati con un pizzico di psichedelia (più Black Mountain che Hawkwind, tanto per capirci) allora acquistateli senza ulteriori indugi, rimarrete estasiati.
- Pro: stoner devastante che deve tanto al primo rock-blues, non semplice revival ma ottima musica.
- Contro: se preferite lo stoner più legato allo space rock rimarreste delusi.
- Pezzo consigliato: All Our Thoughts.
- Voto: 7/10
LINK ALLA PAGINA BANDCAMP (dato che ogni volta che metto mini-player dopo qualche ora scompare misteriosamente)
Black Mountain – Black Mountain
I Black Mountain sono una band relativamente giovane conosciuta più dai critici rock che tra gli appassionati di rock, il che è un po’ quello che accadde per esempio ai Rare Bird di cui avevo parlato l’ultima volta.
Al contrario dei Bird i Black Mountain non sono certo avanti coi tempi, anzi, sono un po’ indietro.
La smodata passione di Stephen McBean per i ’70 e i ’60 non è certo un mistero, già nel suo primo ensemble, i Pink Mountaintops, progetto parallelo ai Black Mountain, McBean e compagnia bella si sdavano sul rock psichedelico, con un’anima però un po’ pesantuccia.
McBean fuori dai Black Mountain sembra Syd Barrett imbottito di valium, una noia tremenda. Dicono che per chi ama la musica psichedelica dischi come “Outside Love“, del 2009, sia un gran bel disco. Beh, a me piace la psichedelia, eppure “Outside Of Love” mi fa sinceramente schifo. Noioso oltremodo, ripetitivo, i testi che dovrebbero essere strappalacrime invece si rivelano banali e melensi. Sarà una questione di sensibilità, non lo metto in dubbio, ma a tatto i Pink Mountaintops mi fanno venire prurito alle parti basse.
Tutt’altra storia i Black Mountain che nel 2005 si presentarono con il miglior disco mai prodotto dalla Jagjaguwar. Ovviamente omonimo il primo album dei Black Mountain sembra a tutti un ottimo tributo ai Black Sabbath, ma niente di più, ma per me non è così semplice.
Dopo il successo McBean continua a scrivere canzoncine per la nonna con i Pink, ma nel 2008 stupisce ancora con “In The Future“, secondo disco dei Black Mountain, con una quantità incredibile di pura genialità, banalità, prog-rock, noise e ballate degne, al massimo, di Lenny Kravitz. Ce n’è per tutti i gusti!
“In The Future” è davvero una piccola perla nel 2008, un disco incompreso ancora una volta dal pubblico ma non dalla critica. È difficile nel 2000 poter ascoltare riff potenti e fughe psichedeliche come in Tyrants, e nello stesso album potersi fare un viaggio con Queens Will Play e la folle Bright Lights, oppure infilarsi nel trascinante rock tribale di Evil Ways. Tutti i lavori di questa band sono seguiti spesso da innumerevoli tracce che non rientrano nel cd, ma che sono tutt’altro che riempitivi, piuttosto spingono ancora più in là le idee della band, come in Black Cats, dove il sound è molto moderno, con una strizzatina a tratti alla new wave.
Trovo che nella gioiosa ecletticità dei Black Mountain ci sia tanta ingenuità, ma anche tanta sincerità. La band sperimenta i suoi limiti, niente di nuovo o di rivoluzionario, ma non c’è la pretesa di esserlo. Questa umiltà traspare decisamente nei primi due lavori dei Mountain.
Per i primi due dischi si parla fin troppo spesso di Led Zeppelin, quando in realtà degli Zep c’è solo qualche rimando, certamente McBean tende di più verso i primi monolitici Black Sabbath, i Blue Öyster Club e i Blue Cheer, ma anche i Dead Meadow senza contare gli Hawkwind, questi ultimi molto rivalutati in tempi recenti anche dal garage rock (vedi il californiano Ty Segall).
Non disdegnano ogni tanto qualche rimando jazz e al pop raffinato (Angels) ma continuo a premere sulla sincerità, che poi non è che sia un merito soltanto della musica, diciamo, fuori dal mainstream, perché anche giovanotti di belle speranze come Mitch Laddie fa revival (blues) ma meccanicamente, senza l’energia di gente come McBean, che pure nei soporiferi Pink Mountaintops ci mette l’anima, e si sente.
Inoltre anche se spesso ci vanno giù di wall of sound non essendo fanatici del low-fi a tutti i costi, tipo i Purling Hiss, il loro suono è sempre pulitissimo e molto calibrato. Nessun eccesso, nessuna nota storta, c’è un grande controllo, forse anche troppo. In effetti una caratteristica fondamentale del loro sound nei primi due album è un po’ questo eccessivo controllo, che alla lunga estranea, crea come una sorta di vuoto mentale nell’ascoltatore, si percepisce spesso nelle tracce dei Black Mountain un malessere esistenziale affascinante. La ripresa di Tyrants, la terribile ripetitività del riff in Don’t Run Our Hearts Around distruggono lo spazio e il tempo, inconsciamente ci finisci dentro, assieme a loro. Guardate che c’è una grande consapevolezza nella psichedelia dei BL, il che mi sembra sia stato poco sottolineato anche dai critici più entusiasti, i quali si sono decisamente soffermati sui ricordi rock che i riff rimandano, senza invece prendere in considerazione le qualità intrinseche alla band.
L’ultima fatica in studio dei Black Mountain è il mediocre “Wilderness Heart” (2010), più in linea con le altre band prodotte dalla Jagjaguwar, roba perlopiù pseudo-intellettuale o triste-intimistica, o semplici scempiaggini come i Foxygen, gruppo californiano di grande successo ma senza un bel niente da dire.
Ma andiamo a conoscere meglio l’album d’esordio dei Black Mountain.
Modern Music è un inizio sconcertante. Avevo detto Black Sabbath e Hawkwind, ed invece eccoci a partire con un pezzo pieno di ecletticità e allegria, e un istrionico McBean che ripete: we can’t stand your modern music, we feel afflicted! e a chi si riferisce? Probabilmente a tutto il movimento della new wave più afflitta, all’indie più autolesionista, al brit pop senz’anima, o più in generale a tutta quella musica moderna senza passione, meccanica, vuota. Ok, ci dicono, ci rifacciamo al passato, ma solo alla sua musica.
Netto lo stacco con Don’t Run Our Hearts Around, un riff potente ma imperniato di psichedelia pura, il pezzo è un susseguirsi di variazioni imprevedibili ma mai eclatanti (mi piace un casino).
Ennesimo salto con Druganaut, si può parlare di prog, ma sempre senza orpelli inutili, duetti di ottima fattura tra McBean e Amber Webber, psichedelia e chitarra elettrica che passa dall’essere protagonista di sostanziosi riff all’essere totalmente disassemblata in suoni distorti ma sempre espressivi.
In No Satisfaction la band si lancia in un folk leggero. Mi piace il ruolo del testo, la ripetizione ritmica di: ‘cause everybody like to claim things, everybody shame things and everybody likes to clang bells around è un po’ più sofisticata di come si presenta. McBean ragiona su alcuni luoghi comuni del loro far musica, del revival, sul modo di vivere questa esperienza, cantando we can’t get no satisfaction per me rivela una sorta di “costrizione”, un modo di apparire che però non si confà con la realtà che si cela dietro, la mancanza di un reale sentimento di appartenenza verso la comunità, esplicata bene nel pezzo successivo (inoltre si citano i Velvet di Lou Reed, avete presente I’m Waiting for the Man?).
Set Use Free è un pezzo semplice ma costruito con grande maestria, terribilmente malinconico ed estraniante. Rimandi a Killer dei Van Der Graaf Generator sono da vedersi nel testo, questo sentirsi killer, assassini delle emozioni che ci circondano, il tema della liberazione dalle macchine (=società) per tornare ad essere davvero, a poter amare, a poter essere liberi è di una banalità sconcertante, ma ben esplicato.
Invece No Hits rivela una propensione all’elettronica (moooolto velata) che si ripresenterà in vari aspetti in tutti gli album dei Black Mountain, ma ad oggi non ha trovato ancora un sviluppo interessante. Molto prog, ma senza una direzione precisa.
Heart Of Snow si presenta con un prog classico, ma il sound della band riesce a far riscoprire il gusto di ascoltarsi anche la più banale struttura prog pensabile. Un pezzo molto delicato e tragico.
Devo dire che dal 2005 ad oggi ancora non sono riuscito a trovare niente di interessante nell’ultima traccia dell’album, Faulty Times, buttata lì così, un pezzo alquanto insipido e senza il piglio dei Mountain, più scolastico diciamo.
Credo sia un disco che merita, come anche il secondo, “In The Future”, forse nel 2005 avevate altro da fare mentre la critica adorava questo album d’esordio, ora però non avete troppe scuse per non ascoltarlo.
- Pro: non è semplice revival, la band non ha enormi qualità, e probabilmente non ha già più niente da dire dopo soli due album, ma c’è molta passione e tanta sincerità, che al giorno d’oggi è merce rara.
- Contro: se non vi piace lo stoner rock non è esattamente un disco che vi consiglierei. Riffoni che si perdono in ripetitivi momenti psichedelici, voci suadenti e mai un momento di vera rabbia rock, praticamente una palla.
- Pezzo Consigliato: è difficile perché alcuni pezzi sono molto slegati tra di loro, comunque credo che Druganaut sintetizzi efficacemente il sound e le idee dei Black Mountain.
- Voto: 6,5/10