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TAO Love Bus Experience, la ridicola moderazione ne Il Fatto Quotidiano e lo “spirito del rock”

Ho sempre desiderato aprire un post con quelle immagini del cazzo su cibo e bevande che impazzano su Instagram. BANG!
Ho sempre desiderato aprire un post con quelle immagini del cazzo su cibo e bevande che impazzano su Instagram. BANG!

Con un titolo del genere vi starete chiedendo quali sostante psicotrope io assuma abitualmente. Perlopiù il tè. Deteinato.

Qualche giorno fa ho avuto una illuminate diatriba con cantautore rock italiano nella sezione commenti del Fatto Quotidiano. Come saprete la versione online del FQ è una sorta di Novella 2000 dove ci schiantano blogger più o meno imbarazzanti (si va dagli ufologi fino a Andrea “Ciao Sic” Scanzi), ma se non siete nati ieri su internet questo lo sapete già, però è possibile che non conosciate TAO, né il suo Love Bus Experience.

TAO è un cantautore milanese che un giorno lesse “Peace & Love” di Guaitamacchi e decise (intorno ai primi del 2000) di portare il verbo del rock in tutta Italia. Un po’ in ritardo forse, ma non per questo il suo non è un percorso onorevole.

Quello che degli anni ’60 TAO decide di riportare alla luce è la musica più conosciuta e abusata in tutti gli anni ’90 e i primi del 2000, ovvero il beat. Non proprio una scelta controcorrente in un mondo che ha dovuto subire la seconda ondata britannica proprio in quegli anni (il dannato brit-pop di MTV), ma lo diventa in questi tempi, in cui sia in California che in Europa si stanno riscoprendo gli anni ’60 meno alla mano (il garage rock, Syd Barrett solista, la prima psichedelia e le solite cose di cui parliamo in questo blog).

Il suo esordio discografico è “Folìverpool” nel 2005, un album di imbarazzante fattura, pop rock melodico anni ’90 con ritornelli sdolcinati e citazioni beat (Solo Lei) che trova il suo manifesto compositivo e concettuale in La Musica Ed Io, una reminiscenza del “potente rock” delle Vibrazioni o dei catanesi Sugarfree. Un ritorno agli anni del Piero Pelù di “Soggetti Smarriti” di cui sentivamo proprio il bisogno. Da quel genere non si evolverà mai il buon TAO, anche le liriche sono perfettamente coerenti con la musica e con la scena rock pop italiana, un misto di Afterhours e Negramaro, provate se avete coraggio ad ascoltarvi L’Ultimo James Dean se desiderate una agghiacciante conferma (sono l’ultimo bohémien/ sono solo l’altro eroe della solitudine/ sono l’ultimo James Dean/ uno che si schianterà/ percorrendo la corsia/ fra l’amore e l’anarchia).

Un suo grande merito però va per il modo con cui ha deciso nel solito 2005 di portare la sua musica in giro (e no, non sto parlando della sua comparsa in metà delle reti televisive italiane o su X-Factor), ovvero in un pulmino Volkswagen (il leggendario Kombinazionenwagen) la versione anni ’70 di quello che negli anni ’50 scarrozzava le band di surf rock strumentale per le coste californiane, diventato un mito generazionale negli anni ’60. Se siete miei lettori da un po’ certamente vi pruderanno le orecchie sentendo una storiella del genere, ma andiamo con ordine.

Il 7 Novembre sul blog di Pasquale Rinaldis nel FQ esce questo articolo “‘Spirit of rock’: il primo ‘rockumentario’ è firmato Tao” preceduto l’anno prima da una intervista al cantautore sempre dello stesso Rinaldis. Io conoscevo già TAO perché l’avevo visto esibirsi nel suo bus qualche tempo fa, ma non sapevo che con lo stesso ci andasse in giro per l’Italia. Di solito non commento mai sul Fatto, eppure stavolta mi è scivolato il dito sulla tastiera: 

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano

Se seguite il mio blog sapete cos’è Jam In The Van, un progetto di crowdfunding nato intorno al 2010 che riprende la tradizione californiana (nata nei lontani anni ’50) di suonare rock in un pulmino. Mi dispiaccio però che sia proprio TAO a portare questa antica e gloriosa tradizione in terra italica, anche perché come vi ho detto il suo rock non è di certo una reminiscenza di Dick Dale o del garage californiano, ma piuttosto un cugino dei milanesi Vibrazioni.

Ma ecco che, dopo poco, arriva una risposta:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (1)

E qui Valerio “TAO” Ziglioli ci dimostra, nel caso ancora non l’avessimo capito, a che livello infimo è la musica italiana. Analizziamo insieme il commento.

TAO esordisce dicendo che non sa proprio cosa sia Jam In The Van, e con questa certezza deduce che io non sappia cosa sia il TAO Love Bus Experience. Qualcuno mi spiega dove sta il sillogismo? Come fai sapere che le due cose non c’entrano un benamato cazzo se non conosci una delle due? Telepatia? Onniscienza? Sostanze psicotrope? Al limone o alla pesca?

Accortosi in corsa che forse si stava contraddicendo mi chiede un link di conferma. Scusa TAO, ma a te il bambin Gesù non ti ha donato delle mani? Larry Page e Sergey Brin non ti hanno fatto dono di Google? Blocchiamo la nostra disamina solo per un secondo e proponiamo al caro TAO, che essendo un nostalgico ha poca confidenza col web (sebbene il suo canale YouTube carichi video dal lontano 2006), un breve tutorial su come cercare le cose su Google:

1) Vai sul tuo browser di fiducia e digita sulla barra di ricerca “google”, clicca sul primo link indicato e dovresti trovarti di fronte questo:

Google

2) Ora digita sulla barra sotto la scritta colorata l’oggetto della tua ricerca:

Google (2)

3) Clicca su “Cerca con Google” e ti troverai di fronte a questo bel panorama:

jam in the van - Cerca con Google

4) Clicca sul primo link e scoprirai nell’arco di trenta secondi tutto quello che ti serve sapere per dare un giudizio sul mio commento. Ma immagino che il tuo tempo sia troppo prezioso per fare una lunga ed estenuante ricerca nel meandri del deep web.

Detto ciò, caro TAO, ma dove l’hai letto il “commento poco carino” sulla tua persona? Ti è mai sortita in mente la possibilità che dato che stavo parlando di musica io mi riferissi alla tua musica? Oppure ogniqualvolta qualcuno commenta qualcosa su un gruppo o un musicista si riferisce a lui personalmente?

“Suggerisco, prima di spararle grosse di informarti” e che purtroppo TAO non possedendo i tuoi poteri extra-sensoriali sono costretto a seguire il tutorial qui sopra! Me tapino…

Ovviamente gli rispondo:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (2)

Come vedete nessun insulto, solo un giudizio, forse troppo laconico, sulla musica. Gli dò pure un cristo di link (questo). Credo che, nel 2014, mi sia permesso dire che la tua musica è divertente e smuove i fianchi ma non va oltre una ballad dei Bisonti.

Ecco, se avesse voluto incularmi gli sarebbe bastato un bel «Il rock parla delle cose banali, la vita è banale, quindi se mi dici che la mia musica è banale è solo un complimento.» Chapeau, cazzo, m’hai proprio colpito! Sarebbe stata una risposta non solo intelligente, ma anche convincente, che mi avrebbe fatto rivalutare anche quel doppio mattone di “Love Bus/Love Burns”, ed invece:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (3)

[Prima di tutto un appunto ai giovani lettori: il “né” è una congiunzione negativa che si scrive con l’accento acuto. Delle volte queste cose possono scappare, lo so bene anche io che scrivo recensioni senza nessuno le corregga, ma in un commento di 9 righe su disqus cercate di evitare queste… chiamiamole pure “sviste”.]

Come sapete Jam In The Van è un gruppo di ragazzi che vanno in giro in pulmino e filmano le esibizioni delle band al suo interno. Ovviamente non è esattamente come il bus di TAO, trasformatosi in palco ambulante, eppure si rifanno entrambi ad una tradizione californiana degli anni ’50 (che TAO ignora bellamente), non solo, avevo specificato che il progetto di Jam In The Van nasce intorno al 2010, mentre il suo è del 2005. Perché incazzarsi? Non si sa.

Ma poi arriva una delle frasi più assurde cha abbia mai letto: “Sinceramente della attuale scena italiana non me ne frega assolutamente niente, anche perché non esiste una scena italiana e se esiste non mi ha minimamente colpito.” mi ricorda il Gorgia di Platone, solo molto più imbranato. È come se non conoscesse l’esistenza del tasto backspace della tastiera, per cui è costretto a rincorrere quello che lui stesso scrive. Dì che della scena italiana non te ne può fregare di meno e finiscila lì! È già sufficiente per giudicarti come musicista, non abbiamo bisogno d’altro! Prima di tutto esistono parecchie scene in Italia, una poi degna di attenzione internazionale (la Psichedelia Occulta), se non ti ha minimamente colpito ci fa altrettanto piacere, ma ti prego, non dire che “non esiste”, che cazzo di figura ci fai?

Riguardo a come definisco la tua musica (che di rock ha solo la strumentazione) non sono “punti di vista” perché come il punk è diverso dall’hard rock anche il tuo cantautorato anni ’90 è diverso dal beat o dalla figura “rockettara” che vuoi dipingerti addosso, con tanto di furgoncino da figlio dei fiori e il capello alla Bill Haley. Se quello che suoni è tutt’altro che banale allora Tiziano Ferro è sperimentale.

Ma ecco che colpisce con la supercazzola definitiva: “lo Spirito del Rock”! E che è, il nuovo superalcolico di Marilyn Manson? Dai amico, sul serio? Mi ricorda una tizia ad un convegno che se ne uscì con «L’arte di Leonardo Da Vinci non va studiata accademicamente, perché è energia» e quando la interruppi per chiederle secondo lei quanti joule aveva L’Ultima Cena non mi volle rispondere. Questa idea di rock mi ricorda tanto «La mia “arte” fotografa la realtà, non la inventa. Questo è il linguaggio del rock. Chi vuol capire veramente ascolti. E se a qualcuno dà fastidio, tanto meglio. È ora che si svegli» di Vasco Rossi, giustificare la propria libertà di fare musica dietro parole a caso come “arte”, “anima”, “spirito”. Però in effetti con “arte” si rientrerebbe nel contesto “snob” che il buon TAO snobba, per cui forse il suo mentore è lui:

billy idol 2

Ma poi mi sovvengono anche dei dubbi sulla sua conoscenza della materia. Da quando l’indie rock è snob? Volete dirmi che gli Arctic Monkeys ora sono un gruppo di nicchia solo per intellettuali? E quelli che ascoltano John Zorn che sono, eremiti?

Ho provato a rispondere anche a questa sequenza di deliri rimanendo sempre educato, cercando di criticare la musica, non la persona (di cui, dopo questo battibecco, forse ho meno stima di prima) ma il moderatore mi ha rispedito al mittente il commento. Come mai? Valutiamo i termini della moderazione nel FQ:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (4)

Ok, niente insulti, niente off topic, niente accuse di alcun genere, ma allora perché non mi avete accettato questo (lo screenshot è dalla mia home di disqus):

Disqus Profile - Callimaco

Volete dirmi che perché ho scritto “banale” l’ho insultato? Una risposta al musicista di cui parla l’articolo è off topic? L’ho accusato di seviziare bambini? Ho persino detto che quella ciofeca immensa di “Love Bus/Love Burns” era un pop-rock accettabile, proprio per stemperare lo spirito rock di TAO (che gli annebbiava la vista mentre leggeva i miei commenti), per quale motivo non far passare il commento?

Gentile Pasquale Rinaldis, non so se è lei stesso o altri a moderare il suo blog, però chiunque sia ha dei seri problemi di comprensione del testo.

Detto questo a me dispiace parlare in toni così acidi di un musicista italiano, però TAO oltre a dimostrarsi poco incline alla lettura dei miei commenti si è pure prodigato a sparare una serie di frasi fatte sul rock che uccidono la bellezza del rock stesso, denigrandolo come vorrebbe Billy Idol ad un semplice linguaggio tra camionisti per scaricare la stanchezza della giornata.

Beh, non è così. Il rock nasce per provocare, lo si può fare in maniera becera eppure poetica come i Ramones o cercare un linguaggio più complesso come nei Pere Ubu, ma lo sostanza non cambia, che sia il primo album dei Velvet Underground o uno dei Thee Oh Sees non cambia, il rock si riconosce sempre perché ti infastidisce, di fa ridere, ti fa pensare, mentre il beat in chiave anni novanta e la poesia spicciola di TAO non è rock, è mediocrità.

TAO fa bene quello che fa, e non lasciatevi ingannare dai miei giudizi sulla musica perché io sostengo questo Love Bus Experience. Ognuno può imbracciare una chitarra e cantare, lo diceva anche Lester Bangs che il rock non è una cosa seria, e lo credo fortemente anche io, ma non per questo la tua musica diventa intoccabile. Non è che se ti senti un rocker lo sei. E non è che se il tuo rock suona come un pezzo dei Corvi riadattato dagli Sugarfree o da Daniele Silvestri allora non sei banale.

Se volete fare un po’ di casino con un chitarra, vi prego, non dite mai che lo fate per lo spirito nobile del rock, così sembrate usciti da un film con Meat Loaf, dite la verità: dite che lo fate per divertirvi e perché credete sia la cosa più bella del mondo. Niente stronzate auliche o pseudo-hippie. E se qualcuno vi dice che fate cagare vi consiglio vivamente di rideteci sù, perché il rock non è un cosa seria.

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E dopo tutta ‘sta manfrina eccovi dei video del buon vecchio TAO, della roba così non ve la proponevo dai tempi degli Scotch!

Un po’ di Bono e tanto pop anni ’90 con L’Ultimo!

Ecco un singolo perfetto per le radio più intraprendenti (radio Subasio, se ci sei batti un colpo!):

Un po’ di rock più politico e socialmente rilevante, roba da fra tremare i CCCP:

La mia (modesta, inutile e annoiata) opinione sui Beatles

beatles-yellow-submarine

[ALERT: Questo articolo è brutto e invecchiato male, leggiti QUESTO QUI che è meglio!]

LA PREMESSA NECESSARIA:

La prima cosa che vorrei eliminare da questa discussione è la figura di Piero Scaruffi. E con essa quella di qualsiasi altro critico. Non tanto perché io non creda nel valore della critica musicale, o della critica in senso lato.

Vorrei ricordare che la figura del critico serve per comprendere meglio un dato fenomeno artistico tramite gli studi, le comparazioni e il giudizio quanto più obbiettivo dello stesso. Chiunque creda davvero di comprendere un’arte, qualsiasi essa sia, senza studiarla perché a suo dire: “l’arte è un qualcosa che ci viene donato dall’artista è dev’essere universalmente comprensibile” è meglio che giri a largo da questo blog e dal suo blogger, che se m’alzo male lo lego alla sedia e lo costringo ad ascoltarmi mentre faccio una orrenda disamina di sedici ore su La Mariée mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp. Fidatevi, riesco a mala pena a sopravviverci io.

In questo caso particolare lascio stare la critica, come lascio stare anche ogni idea di giudizio soggettivo.

A me piacciono un casino, ma davvero un casino, gli Spirit. Avete presente Fresh Garbage? Ecco, per me I’m Truckin’ è uno di quei pezzi che potrei ascoltare giorno e notte. Ma non per questo se dovessi fare una disamina storica degli Spirit sparerei solo i miei segoni mentali su quanto questa band mi ecciti sessualmente, no, dannazione, proprio no!

Il mio pezzo dei Pere Ubu preferito è Blow Daddy-O, quello del rock in generale Kick Out The Jams!, sono malato? Non lo so, secondo mia madre certamente, ma in questi anni che studio rock da un punto di vista leggermente più serio e storico oltre a scoprire altri pezzi che me la alzano ho anche scoperto che, come nella grande arte, ci sono vari livelli di godimento.

«Ehi stronzetto, ma ancora non stai parlando dei Beatles!»
Sì, lo so, sto cercando di tirare fuori un concetto invece del solito stronzo.
«Ok, ok, amico, pensavo solo ti fossi perso tra le tue solite menate.»
Grazie che mi tieni d’occhio.
«Non c’è di che.»

Dicevamo dei vari livelli di godimento.
Tutti possiamo apprezzare le doti tecniche di un pittore rinascimentale, ma non tutti possono capirne il valore effettivo.

Pala-di-BreraMi stupivo quando alle mostre molta gente snobbava gente come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Masaccio per pittori magari minori ma che in alcuni casi erano più realistici. Per quanto uno possa apprezzare La Pala di Brera di Piero della Francesca, vorrei sapere quanti conosco il modo con cui l’opera fu accolta, per cosa e da chi fu commissionata, se fu commissionata da qualcuno (a qualcuno il dubbio potrebbe anche sorgere), se oltre la mera raffigurazione c’è qualcos’altro, che tipo di simbologia e iconografia vengono usate, in che modo e perché la tecnica di questo quadro è la fusione delle esperienze dell’artista e via dicendo.

Al passante che apprezza l’arte nella sua forma più effimera non gli importa un fico secco di tutte le questioni che incorniciano un’opera d’arte figurativa. E questo è giusto, se gli piace da impazzire già così dove sta il problema?

A me dà fastidio vedere certi “critici” insultare appassionati amatoriali solo perché gli sfugge il significato del corallo rosso su Gesù Bambino o dell’uovo di struzzo appeso che pende sulla testa della Madonna (/Battista Sforza). Ognuno ha il diritto di poter apprezzare l’arte anche senza uno studio approfondito.

Ma mi dà molto, molto più fastidio, quegli appassionati che vogliono fare i “critici” perché conoscono un paio di date, oppure vita, morte e miracoli di un artista, come se la biografia fosse l’unica cosa che abbia un valore.

Badate bene: per ogni artista di ogni campo, la biografia ha un valore minimo quando non nullo per definire le caratteristiche della sua opera. È ovvio che I’m Waiting for the Man descrive l’esperienza diretta di Lou Reed, ma il suo valore storico e musicologico sono altra cosa, e hanno ripercussioni e significati diversi dall’esperienza dell’artista.

Inoltre ricordate sempre di non ascoltare mai il giudizio degli artisti stessi, sulla propria e sull’opera altrui. Sono rarissimi i casi di artisti intellettualmente validi al di fuori della loro sfera di competenza. Detto in parole povere, Scorsese potrà dire che Bellocchio è il regista più importante della storia, ma ciò non significa che lo sia, sebbene Scorsese sia uno dei registi più influenti della storia.

«Ma se tu c’avessi rotto il cazzo?»
Oh, non è mica una cosa semplice! Sto cercando di fare un discorso serio!
«Oh, ma stai calmino! Hai mica mangiato pane e allegria a colazione?»
Sigh…

La gente tende ad apprezzare l’arte figurativa e a dispregiare l’arte contemporanea perché se in una può leggere una abilità tecnica (che è solo una caratteristica, non sempre fondamentale, per giudicare un’opera d’arte, in mezzo a mille altre altrettanto importanti) nell’altra non ha la chiave di lettura adeguata, ovvero: non ha studiato. Pochi cazzi.

Se credete che certa arte sia sempre stata grande vi ricordo che anche a Leonardo Da Vinci e a Michelangelo gli rifiutavano opere già concluse o progetti in via di sviluppo, e che Leonardo ha dipinto L’Ultima Cena in una mensa per frati affamati e le più grandi intuizioni di Michelangelo (il non-finito) ancora oggi sono quasi del tutto sconosciute ai “critici” amatoriali.

Parliamo di rock?
Bene, per il rock vale tutto il discorso fatto sopra, come vale per la musica in generale e tutte le arti di ‘sta ceppa.

The-Beatles-the-beatles-33526367-500-492Sui Beatles abbiamo la fortuna di possedere una quantità di dati critico-biografici a dir poco esaustivi. Come per tutti i fenomeni artistici non ancora storicizzati anche per il rock è ancora difficile riuscire a trovare un metro di giudizio oggettivo per giudicare le opere e gli artisti.

Di quanta gente, come per molti artisti del passato, è stata rivalutata l’opera a posteriori? 
Velvet Underground, Fifty Foot Hose, Fugs, Replacements, Captain Beefheart, Death, Sonics (non comincio a fare liste adesso perché se no non finiamo più) e quanti ancora sarebbero da riscoprire (sì, anche più di adesso).

Altri invece, grazie alle vendite smodate, hanno dalla loro una maggiore storicizzazione, anche se spesso viziata dall’influenza delle majors sui mass media, e dunque sulla narrazione popolare che viene fatta e della insulse agiografie che costellano il mercato editoriale.

Il fatto che i Bay City Rollers abbiano venduto milioni di album li rendono importanti per la storia del rock? Non vi immaginate quante biografie esistano di questa band, e quanti fan si strappassero i capelli per andarli a vedere spendendo cifre astronomiche. Pensate davvero che questi fan siano scomparsi? Non è affatto così! Non è che ignorando un fenomeno commerciale che esso scompare!

Beyoncé vende milioni di album, gli Strokes pure, senza parlare dei Muse, dei Black Eyed Peas e moltissimi altri gruppi che molti ignorano, o che credevano sarebbero durati un paio di dischi ed invece continuano a vendere milioni di album sfondando record su record.

Ancora mi ricordo quei profeti che dicevano che “Britney Spears non ha contenuti, vedrai che scomparirà, un paio d’anni e nessuno se la cagherà” peccato che il settimo profilo Twitter più seguito AL MONDO sia quello della Spears con 33.761.000 followers. Quindi qualcuno che la valuta ancora c’è.

Come vedete è inutile valutare in modo positivo un artista per l’universalità del suo linguaggio o per il suo successo commerciale. Britney faceva musica di merda e continua a farla. Non è bello da dire, perché così facendo insulto in maniera indiretta chi la ascolta e la ama. Però il 99% di chi ascolta (anche a livello superficiale) rock odia i fenomeni pop in modo del tutto irrazionale.

COMINCIAMO:

I Beatles, come stavo dicendo, hanno venduto moltissimo. È un dato di fatto. È rilevante ai fini di una critica musicale? Sì, ma non così tanto.

Partiamo subito dicendo che i soldi sono indiscutibilmente una delle caratteristiche fondanti per la band. Ringo Starr entrò sotto la pressione di Epstein, non sotto quella degli altri membri della band, e George Martin controllò l’azione creativa della band fino al 1965, ovvero fino a “Rubber Soul”, perfino storici amanti della band come John McMillian ne descrivono le vicende interne come molto conflittuali, ma non per motivi artistici quanto di avarizia.

Fin qui ho detto solo delle ovvietà, e continuerò probabilmente a dirne altre.

Per molti i Beatles sono stati:

  • abili mistificatori, bravi solo a seguire le mode e a fornicare groupies stra-bonissime;
  • il più grande complesso di sempre, gli anticipatori di tutto, anche della dubstep;

Definire in due modi così diversi una sola band è sintomo di come la critica rock sia ancora agli albori per quanto concerne una scientifica storicizzazione. Da entrambi gli schieramenti ci sono molti critici affermati e tantissimi, troppi, appassionati.

La mole dei fans e degli haters dei quattro di Liverpool è tale da rendere semplicemente impossibile un ragionamento di tipo storico sul web, perché tanto è il cuore che comanda e ci trascina verso il baratro delle pernacchie via email.

È facile infatti trovarsi di fronte a milioni di fan di Piero della Francesca, che vedono nella sua unione ideale tra l’iconografia rinascimentale e la tecnica fiamminga il massimo raggiungimento di un genio (anche teorico), mentre altrettanti milioni lo ritengono sopravvalutato, un conservatore in confronto ad artisti più sperimentali come Paolo Uccello (e anche un po’ borioso).

Sinceramente tutte queste critiche fatte “per passione” trovano il tempo che trovano, e mi procurano solamente un gran mal di testa (altro che quelli di Morgan o degli Windopen).

I Beatles sono stati solamente moda?
No.

I Beatles sono stati i più rivoluzionari?
No.

I Beatles sono stati un avanguardia?
No, cazzo.

I Beatles sono la peggior band del pianeta?
No, no e no cazzo!

I Beatles sono stati una grande band pop! Letto bene? POP! Tutta la musica popolare di massa contemporanea  (che forse inizia con la musica folkloristica che con le radio è divenuta di massa) deve la sua struttura musicale, produttiva, distributiva, aziendale e pubblicitaria a quel fenomeno pop che sono stati i Beatles.

La band assimilava gli impulsi dall’America e li trasformava in qualcosa di loro. Prima tramite la grande esperienza di Martin, poi grazie alle doti acquisite da Lennon&McCartney e dalle loro eclettiche passioni musicali che spaziavano da Buddy Holly al blues del Delta.

I Beatles, fino al 1969, non solo assimileranno tanta roba a giro, ma saranno anche quelli che con le loro hit definiranno il sound di una breve epoca. Dal ’67 in poi i Beatles saranno ampiamente superati come fenomeno musicale (ma non come fenomeno di massa), mentre loro traducevano in pop il rock psichedelico le band proto-punk (Troggs, Sonics, Velvet Underground, Stooges, MC5) stavano cominciando ad avere le prime influenze sulla scena internazionale, l’hard rock era ormai prossimo ad affacciarsi, e la psichedelia negli UK invece che trasformarsi nel pop di Sgt. Pepper’s si stava evolvendo nel prog (l’esplosione arriverà nell’anno successivo con Henry Cow, Family, Move e senza considerare gli americani It’s a Beautiful Day, da alcuni considerati come i padrini nobili del progressive rock).

BeatlesPopart

Inoltre dire che all’inizio il fenomeno dei Beatles fosse seguito perlopiù da ragazzini e molte ragazzine quindicenni non è una bestemmia! Ricordo una bellissima testimonianza di Franco Fabbri (musicologo, chitarrista dei mitici Stormy Six) che racconta di come i “duri e puri” all’inizio preferivano gli Shadows ai commerciali Beatles. Anche nel libro che McMillian dedica allo smitizzare certe scemenze sulla biografia dei quattro, si ricorda come nelle prime tournée il pubblico fosse composto al 90% da ragazzine sovreccitate. Questo perché i Beatles nascono come un fenomeno più pop che rock. Non capisco però perché per alcuni questo dovrebbe essere offensivo!

A me piacciono davvero gli album degli Earth, Wind & Fire, se qualcuno mi dice: ma sono fenomeni da baraccone disco-pop! ci sto alla grande, l’importante è che mi piacciano! C’è gente che ti insulta la mamma se gli fai notare che sì: i Beatles sono una band che ha avuto delle grosse influenze sul rock (come su tutta la musica leggera) anche perché vendevano a palate, ma sono una band profondamente pop prima che rock. Qualcuno mi spiega dov’è il problema? Le categorie esistono per un motivo, non solo di semplificazione nell’ambito della divulgazione, ma anche per specificare le declinazioni estetiche.

Un’altra grande dote della band è ovviamente quella di essere riuscita a creare un formato canzone altamente fruibile. Le geniali melodie di Eight Days A Week sono semplici quanto trascinanti per gran parte delle persone. Poi ci sono strani episodi come quello di Taxman l’unica vera canzone politica della band, ma un po’ ridicola nei contenuti. Ricordo a tutti che le lamentele dei quattro non erano mica sulla pressione fiscale che attanagliava gli inglesi, ma su quella che attanagliava loro! Pressione ingiusta, e lo era sì, ma cazzo, se una cosa del genere me l’avesse scritta un Bob Dylan altro che le rappresaglie per la svolta elettrica!

Lo stesso Fabbri che prima ho citato definisce I Feel Fine come “complessa e sorprendente” ma al contrario di qualche sciroccato sa bene che non è un esempio di proto-prog, perché è un dannato musicologo che di rock ne sa e ne ha ben studiato (oltre che ben suonato e dunque masticato).

Ho seguito tantissimi congressi (o volevo dire sedute degli Alcolisti Anonimi? Non ricordo…) e discussioni di esperti impantanarsi su Tomorrow Never Knows. Definirla come la prima canzone psichedelica, solo perché vengono usati degli effetti con una qualità che nessuno si poteva permettere, e perché Ringo la suona “strano-strano” è a dir poco snervante. Sì, la struttura del pezzo propone soluzioni interessanti, ma non è mica l’unico pezzo interessante dei Beatles! Però per definirlo proto-psichedelico ci vuole una fantasia davvero fervida. La psichedelia non è semplicemente uno stile, non è un caso se è esistita una scena texana che è considerata fondante di quella americana e una inglese con componenti sia musicologiche che ci concetto molto diverse tra di loro.

Poi è abbastanza avvilente che canzoni straordinarie come Isolation di John Lennon non vengano riviste dal punto di vista del binomio biografia-artista (qui, una volta tanto, non solo rilevante ma chiave di lettura imprescindibile di uno dei pezzi più autentici della storia di questo musicista), mentre su molte biografie ci sono intere pagine sull’origine di Ob-La-Di, Ob-La-Da.

Dunque.
Grandissima band pop forse la più grande (ma non mi piace fare classifiche), fino al 1969 hanno prodotto un pop-rock da antologia collezionando canzoni allucinanti, battendo record su record e riuscendo a comunicare a tantissime generazioni. Contenuti pochini, perlopiù buonisti – e sui quali si dividerà proprio la coppia d’oro Lennon-McCartney, però siamo lontani da esempi di musica seminale come Bob Dylan, Fugs e Frank Zappa (per dirne tre a caso). Grazie ad uno studio di registrazione, quello sì all’avanguardia, doneranno alla discografia mondiale album di pura perfezione ingegneristica, con effetti e suoni stralunati per l’epoca davvero eclettici. Come ogni band hanno avuto momenti davvero bassi e momenti più alti, ma col merito di essersi sciolti prima che arrivassero album indecenti.

Non hanno inventato tutto, ma nella storia del rock  c’è un prima e c’è un dopo i Beatles.

Arctic Monkeys – AM

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Trovo che tutta l’attesa che ha preceduto questo album sia sintomatica di come il mainstream stia cercando (inutilmente) di uccidere il rock, e penso che sia anche rivelatore di tutti questi finti rocker o critici di rock i quali a casa ascoltano Oasis, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Strokes, Foo Fighters e compagnia cantante, però commentano e criticano album dei Faust, dei Pere Ubu o chennesò dei Thee Oh Sees*.

Grazie ad internet tutto va più veloce, in particolare la comunicazione. Il rock definito giustamente e onorevolmente “underground” ha trovato la sua rivalsa a 196 kbps. I vari Captain Beefheart, Can, Amon Düül II, si sono rinsaviti come mai nella loro vita discografica e hanno cominciato a girare in quelle bancherelle (o librerie di iTunes) dove prima si spacciavano solo Muse, Kaiser Chiefs e Queen of the Stone Age.

E quindi, dai primi eroi dell’underground a 196 kbps, molti hanno potuto percorrere una strada che continua tutt’ora: quella del rock autentico, quella di quel genere così particolare da ispirare i sentimenti più bassi fino alle riflessioni più alte.

Cos’abbia dunque a che fare il rock col brit-pop o con l’indie da classifica proprio non l’ho afferro. È un mio limite, lo ammetto.

Gli Arctic Monkeys non provocano, non feriscono, il loro linguaggio da bulletto di strada inglese fa però breccia in una intera generazione (come ci dimostrano gli straordinari dati di vendita) ma nel momento stesso in cui si rivelano in tutta la loro bellezza, evaporano. Gli album di questa band sono come i nastri di 007, dopo che li hai ascoltati si auto-distruggono.

Dall’indie che strizza l’occhio al fenomeno brit-pop ai ritmi da rock discotecaro di questo ultimo album, i Monkeys si sono affermati come La band inglese per eccellenza, le loro songs sono una sfilza allucinante di hit per caratteri sensibili e indie e critici con vergognose pulsioni verso “The Next Day” di David Bowie.

Di colpo gli album usciti quest’anno di Thee Oh Sees, Has A Shadow, Fuzz, Harsh Toke,  scompaiono e le bocche si riempiono di lodi sdolcinate verso “RAM” dei Daft Punk (un dannato disco funk, oltretutto innocuo e spudoratamente commerciale, alla faccia dei Monophonics) , verso “Right Thoughts, Right Words, Right Action” dei Franz Ferdinand, e ora su quest’ultimo gingillo pop degli Arctic Monkeys.

Spero non mi fraintendiate, la musica della band di Alex Turner merita il plauso della critica. Un gioiello perfetto che ritrae con i suoi accordi spensierati tutto il nulla che ci circonda, il solito album autistico di chi guarda il mondo dall’alto del suo piedistallo. A livello filmografico lo si potrebbe tranquillamente accostare ad un blockbuster di enorme successo, ma senza la ricercatezza o la profondità di chi con il blockbuster, o col mainstream come usa adesso dire, cerca di veicolare messaggi un po’ più profondi (le differenze tra Transformer e Pacific Rim vi dicono niente?).

Perché fare una bella revisione dei dischi meno conosciuti dell’hardcore anti-reganiano quando puoi fare l’ennesima lista degli album che preferisci di David Bowie? Perchè non proporre numeri speciali di riviste sugli Amon Düül II o su Arthur Brown quando puoi fare l’ulteriore review da ottomila pagine sui Led Zeppelin o addirittura lo specialone sui Green Day? 

La verità è che sia anche a 33 o 45 giri, o a 196 kbps piuttosto che a 320, il rock autentico rimane una passione per pochi sfigatissimi, che non voglio chiamare “eletti”, perché per essere uno sfigato che adora Moonlight On Vermont e la favorisce a qualsiasi canzone dei Toto, o che preferisce “MMM” a qualunque album degli Strokes, o che venera i Sonics a discapito dei Franz Ferdinand di ‘sta ceppa non c’è bisogno di una spada regale poggiata sulla spalla, ma solo di una birra economica in mano e un film di Kevin Smith in VHS.

Arctic-Monkeys-AM-recensione

Prodotto dalla Domino e col titolo di “AM”, voluta ma quanto mai disgraziata citazione ai cari Velvet Underground del finito Lou Reed, l’album si apre con la super-hit Do I Wanna Know?. Già da questa piccola perla indie-pop possiamo riflettere sui generi che sono stati accostati a questo album, ben riassunti dalla sintetica scheda della sempre inutile Wikipedia: indie rock, rock psichedelico (!), garage rock (!!), post-punk revival (!!!). Ci mancava il folk-metal ed eravamo a posto.

Una cosa alla volta. Do I Wanna Know? sono le riflessioni di un invertebrato verso una bonazza qualsiasi, il che, sia chiaro, potrebbe anche andarci bene, se non fosse la conclamata mancanza di palle nel genere indie che ci fanno rimpiangere i tragici testi dei Deep Purple o dei Led Zeppelin, che tra il nonsense e i riferimenti a Tolkien erano comunque un po’ più dignitosi. La musica è il solito brit-pop-indie che già i Monkeys hanno sperimentato nei primi album, con un tono più “elettronico”.

R U Mine? potrebbe essere una demo perduta di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, il primo e più riuscito album dei Arctic Monkeys. L’unico problema sono questi coretti davvero troppo brit-pop per essere sparati a cassa piena. La sensazione è che dal primo album ad oggi i Monkeys siano sempre più attratti dalle classifiche piuttosto che dalla musica.

One For The Road è una hit pop che gioverebbe di una bella cover degli Scissor Sister.

La “rockeggiante” Arabella dovrebbe essere la prima e “pesante” nota rock dell’album, ma qui mi sono messo le mani nei capelli. Intendiamoci, questo album l’ho comprato perché ne parlano come il nuovo Salvatore, e il primo mi piacque a sedici anni (anche se ora fatico ad ascoltarlo), ma qui siamo su un piano davvero diverso. Tralasciando i testi, perché nel rock sono importanti in modo piuttosto relativo, io sono rimasto sconvolto da chi mi definisce tutto ciò “rockeggiante”! Sembra la parodia di un pezzo rock, non rivoluziona i paradigmi del genere, né li rispetta a pieno perché altrimenti i Dirty Streets quest’anno avrebbero sfornato un album capolavoro mentre è semplicemente un album hard-rock che sfiora la sufficienza.

Passiamo a I Want It All, e qui mi faccio delle domande. Se “AM” è il disco dell’anno cos’era “Carrion Crawler/The Dream (2011) dei Thee Oh Sees? Porto spesso questa band ad esempio perché non sono dei fenomeni, ma fanno del rock con le palle, e neanche tanto scontato, ma qui stiamo parlando di canzoncine da classifica. Ma solo l’unico che se ne accorge?
Arriviamo ad un pezzo sulla bocca di tutti ‘sti “critici”: No. 1 Party Anthem mi fa riflettere ancora più del precedente. Mentre ascoltavo questa bestemmia mi viene in mente che una roba del genere, però decente, l’avevo già sentita. Queste sonorità molto più mature, molto più quadrate e sviluppate e con un romanticismo nei testi ben più aulico lo troviamo in un recente album rock ITALIANO, ovvero “Midnight Talks” (2010) degli A Toys Orchestra! L’album sforna un indie molto vicino a quello di “AM”, ma molto meno imbarazzante.
Inutile Mad Sounds, con quei “ullallallà” che mi fanno venire l’orticaria più o meno come come i “powpowpow” di Satellite Of Love. Altrettanto prevedibile e pop Fireside, finora questo album non ci pone di fronte né un sound nuovo, né delle idee nuove, né qualcosa che possa essere categorizzato nel rock, al massimo lo inquadrerei bene in quelle classifiche che vedono Strokes, Justine Timberlake, Rihanna e versioni riviste degli Oasis spadroneggiare senza concorrenza.

Why’d You Only Call Me You’re High non scappa alle precedenti critiche. Mi diverte il fatto che You’re High si possa tradurre in un gergo della mia zona: perché mi chiami solo quando ce l’hai alta? che a Firenze vorrebbe dire l’esatto contrario del senso inteso da Turner.

In questo sconcertante contesto Snap Out of It è solo ridicola. Cosa rappresenta della contemporaneità in modo così efficace questo album? 
If that watch don’t continue to swing
Or the fat lady fancies having a sing
I’ll been here
Waiting ever so patiently for you to
Snap Out Of It

Adesso le lyrics di Black Dog mi sembrano scritte da Bob Dylan.

A ritmo di marcia con Knee Socks, si rallenta con la conclusiva I Wanna Be Yours. Un organo elegiaco, la voce da piacione alle esibizioni on stage di MTV o dell’Hard Rock Café e finisce qui.

Il pregio maggiore di questo album è la sua compattezza, se un album comunque più rilevante come “MCII”, uscito sempre quest’anno del californiano Mikal Cronin, suona più o meno come un infinito copia-incolla di due idee, “AM” invece propone nel suo ambiente sonoro lineare tante sfaccettature di un sound molto meno genuino dei primi album, ma più maturo e studiato.

Vorrei riprendere il discorso lasciato in sospeso qualche paragrafo fa e soffermarmi per valutare i generi proposti da Wikipedia per definire “AM”, (per alcuni Wikipedia dovrebbe essere l’enciclopedia definitiva, spero che Jena Plissken ci salvi tutti facendoci saltare in aria prima che ciò diventi ufficiale):

  1. indie rock: sacrosanto.
  2. rock psichedelico: mah. I Black Angels fanno rock psichedelico, La Piramide di Sangue pure, ma come si fa ad inserire questo album nel filone psichedelico? Davvero: non capisco.
  3. garage rock: Ty Segall, Thee Oh Sees, Crystal Stilts, anche il rock sporco e noise dei Action Beat è garage sotto molti punti di vista, ma “AM” manco per un sordo.
  4. post-punk revival: un momento! Cosa intendiamo per post-punk? Pere Ubu? Pop Group? Suicide? Va bene che è un genere vasto e che comprende molte cose (come tutti i generi rock, alla fine sono soltanto classificazioni a posteriori che si affibbiano un po’ a casaccio) ma cazzo, tra “Dub Housing” e “AM” c’è un abisso più profondo dello sconcerto e dell’orrore che ho provato ascoltando “Glitter”!

Concludo affermando senza ombra di dubbio che gli Arctic Monkeys sono la band pop più valida d’Europa, con un background culturale invidiabile e una testa a capo che sforna hit che valgono milioni. Ma non sono una band rock.

  • Pro: in assoluto il miglior brit-pop, gli fanno le seghe Kaiser Chiefs, Franz Ferdinand, Killers e gli altri compagni di picnic.
  • Contro: se vi piace il rock inteso come musica autentica, e vi masturbate non su You Porn ma con le pagine di Creem dei primi ’70 allora potrebbe procuravi un infarto, o peggio le infamate degli amici (come nel mio caso).
  • Pezzo consigliato: R U Mine? credo sia il meno peggio, Arabella invece è un gioiello trash da serata goliardica.
  • Voto: 3,5/10 (vi consiglio di leggere la guida ai voti e solo dopo insultarmi)

*non voglio insinuare che se ti piacciono gli Strokes allora non puoi recensire “Orgasm” dei Cromagon, dico solo che probabilmente sei un pazzo bipolare. Tutto qua.

Franz Ferdinand, Kid Congo and The Pink Monkey Birds, Boards Of Canada, The Dirty Streets

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Ultimamente, ma già da anni in realtà, acquistare dischi originali è diventata una spesa insostenibile.
Personalmente se tutto va bene riesco ad acquistare un album al mese, che non è poi così male perché c’è chi se la passa peggio. Internet aiuta, non solo con il file sharing e i vari peertopeer e lo streaming, ma anche con l’acquisto di album digitali a prezzi estremamente vantaggiosi (parlo chiaramente di band poco conosciute, le altre ti sfondano il culo con la sabbia, dannate rockstar multimiliardarie).

Di recente grazie al ritorno in auge del vinile le mie possibilità di ascoltare tutto quello che passa in giro si sono moltiplicate a dismisura. Non perché costino meno, ma perché posso passare intere giornate dal mio pusher di fiducia a far girare dischi sul piatto senza doverli comprare una volta ascoltati. Mica male, nevvero?

Se escludiamo i Boards of Canada, le altre tre recensioni che seguono sono state possibili grazie a questa pratica, tipica fra l’altro nel gentile mondo del vinile.

Le prime tre recensioni sono tre dischi molto chiacchierati dunque ero davvero curioso di ascoltarli!

Anche stavolta, come nell’unico caso precedente, le recensioni sono moooooolto più corte del solito perché, per quanto mi riguarda, c’è poco da dire.

Franz Ferdinand, “Right Thoughts, Right Words, Right Action: Trovo incomprensibile come si parli ancora di brit-pop. L’invasione, la seconda, è stata qualitativamente assai povera. Il fatto che ci sia ancora gente che crede davvero che gli Oasis siano una buona band non mi sfiora, in fondo c’è chi crede che Fabio Volo sia uno scrittore, che dobbiamo fare? I Ferdinand arrivarono assieme ai Kaiser Chief e i Klaxons, un’invasione di mediocrità salvata da alcune idee interessanti degli ultimi citati. Questo ultimo album prosegue sull’inevitabile discesa della band, cominciata con un pop che strizzava l’occhio a forme prog tascabili, passata con “You Could Have It So Much Better” a sfornare singoli piuttosto appetitosi, e dopo di che il nulla, che ben si conferma con questo ennesimo disco fotocopia (con sempre meno inchiostro). Se vi piacciono può starci, però è un disco terribilmente modesto.

[voto: 4,5/10]

Kid Congo and The Pink Monkey Birds, “Haunted Head”: qui siamo di fronte ad un disco interessante che devo riascoltare con calma. Kid Congo è sinonimo di qualità, è il suono infatti è di qualità, ma lo è anche la musica? Ascoltando “Haunted Head” si rimane affascinati dal gusto dark del garage di Kid, ben studiato, forse troppo. Non c’è la goliardia dei Cramps, o la vivacità di un Return to the Haunted House dei Fleshtones, sembra quasi che l’album si concentri più sull’atmosfera che sul rock, il che sinceramente alla lunga stufa. Il disco comunque va ascoltato essendo una delle proposte più chiacchierate dell’anno (e non da Rolling Stone, tanto per intenderci). Insomma, ditemi un po’ anche voi che ne pensate!

[voto: 5/10]

Boards of Canada, “Tomorrow’s Harvest”: tutti parlano di questo album. Perché? Non ne ho idea in realtà, devo dire che ancora una volta i Boards si confermano tecnicamente (e tutti si stanno facendo i segoni mettendoli in confronto ai Fuck Buttons) però non capisco bene cosa dovrebbero comunicarmi quest’ultimo lavoro. “Leggerezza”, “speranza”, queste sono alcune delle parole utilizzate per descrivere il viaggio musicale accompagnati dai synth dei Boards, però, dannazione, che noia. I nostri sono tempi piuttosto complessi, pieni di tensioni internazionali, disgregazione sociale, la crisi economica, le rivoluzioni, invece per i Boards i problemi sembrano essere altri, anzi: non ne esistono proprio. Questo è un album per viaggiare forse al di là dell’ansia esistenziale del 2013, peccato che se davvero fosse così allora i toni dovrebbero essere più “allegri”, se invece fosse un viaggio più introspettivo un po’ più gravi e meno pop. Sinceramente i Boards of Canada, per quanto mi riguarda, fanno una musica simpaticamente estetica, ma nulla più.

[voto: 6/10]

The Dirty Streets, “Blade Of Grass”: sì! Questo è un buon acquisto! Tranquilli, è la cosa più lontana dal capolavoro che possiate immaginare, però è roba buona, autentica, senza pretese. Vi ricordate quelle fighette degli Answer? Band hard-rock-revival vestita come una cover band dei Deep Purple infighettati oltremodo (praticamente il male)? Bene, questi sono l’opposto, anche se fanno la stessa merda. Però gente, questa è merda di qualità, hard rock anni ’70 fatto bene, pochi cazzi. Undici pezzi a fuoco, nessuna pausa, nessuna melodia melensa (oddio, una in realtà ci sarebbe…), ovviamente se non vi piace il rock auto-referenziale e per fare le pulizie di casa ascoltate i Faust, allora questo album non fa per voi (insomma: uomo avvertito…).

[voto: 6/10]

Una piccola postfazione sul voto.
In alto troverete una pagina “la guida ai voti” dove spiego con che metro giudico gli album, in questo caso però vorrei specificare la diversità delle due sufficienze tra i Boards of Canada e i The Dirty Streets. I primi hanno una buona tecnica, sono musicisti proiettati verso il futuro mentre i Dirty rimembrano ancora con una certa nostalgia quei ’70 andati perduti. Però, come detto nella breve recensione, i Boards sfruttano questa tecnica senza dargli una direzione concettuale, è musica prettamente estetica, che ha poco a che fare con l’argomento principe di questo blog: il rock. I Dirty invece rockeggiano a tutto spiano, peccato che siano fuori tempo.

Due 6, ma con significati e valori piuttosto diversi.