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Podcast – Captain Beefheart ’72-’74

Sulle frequenze lisergiche di Radio Valdarno eccovi su Mixcloud il vostro podcast preferito, Ubu Dance Party! In questo delirante episodio ci concentreremo sull’analizzare il periodo più controverso della discografia beefheartiana, ovvero il biennio ’72-’74, quello di “The Spotlight Kid”, “Clear Spot”, “Unconditionally Guaranteed” e “Bluejeans & Moonbeams”, il tutto condito da zoofilia, analisi musicologiche, aneddoti, cazzate e digressioni sull’olocausto.

Benvenuti su Ubu Dance Party.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

La musica commerciale di Captain Beefheart e dei Pere Ubu

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Considerati due paladini del rock inteso come avanguardia e sperimentazione, Don Van Vliet e David Thomas nelle loro decennali carriere hanno tentato di intraprendere percorsi musicali più canonici, cercando di replicare il successo di critica nelle vendite dei loro album.

Si dice spesso dei musicisti underground che se ipoteticamente volessero potrebbero avere successo da un momento all’altro, ecco: questa è una sonora e rassicurante cazzata, che si basa sul fatto che produrre una ipotetica e generalissima “musica commerciale” sia facile per un musicista considerato di talento.

È proprio questo pregiudizio sulla musica commerciale, immaginata come un calderone dalle dimensioni titaniche dentro il quale si può trovare un po’ di tutto, che fa credere a chiunque abbia un minimo di reputazione nell’ambiente di poter sfondare come e quando vuole, ma se non lo fa è per la sua inossidabile coerenza artistica. L’amara verità invece ci ricorda come nella storia siano stati pochissimi i complessi o gli artisti rock nati sperimentali e riusciti a conoscere il successo commerciale. Alcuni ci sono arrivati quasi per caso a fine carriera (penso agli Yes, oppure a Iggy Pop), altri con metodo e un grande senso del marketing (i Pink Floyd di Waters), altri ancora con collaborazioni più o meno importanti ed esprimendosi al di fuori di contesti musicali (Nick Cave), ma di solito il successo arriva quando una data scena musicale ha esaurito le sue necessità artistiche e diventa una macchietta di se stessa, come fu per il post-punk inglese, travasato in massa nelle classifiche di Billboard con il suo seguito di synth e sculettamenti dance.

Vorrei analizzare con voi il percorso che ha portato due artisti tra i più influenti della storia del rock, Don Van Vliet (aka Captain Beefheart) e David Thomas (leader e voce dei Pere Ubu), nella fitta e pericolosa giungla delle classifiche di Billboard, qual’è stato il loro approccio alla musica pop, che risultati hanno conseguito e l’effetto per le loro carriere.

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«It’s not music these guys played… Decals is not human music[…]» Scriveva in una entusiasta recensione di “Lick My Decals Off, Baby” Phil Mac Neill nel 1971. L’album uscito nel Dicembre del 1970 per la zappiana Straight Records è il quinto lavoro di Captain Beefheart e della sua Magic Band, già leggenda vivente il Capitano è additato senza mezze misure dalla critica sia come genio sia come fenomeno da baraccone, oppure in maniera più modesta come uno dei tanti “freak” di una stagione musicale decisamente psichedelica. La verità è che Beefheart nel 1969 aveva intaccato indissolubilmente la storia del rock con il suo quarto album in studio: “Trout Mask Replica”, uno dei maggiori e più originali omaggi al delta blues, rivisitato e decostruito in un modo più razionale di quanto possa suggerire lo sghembo attacco di Frownland. “Lick My Decals Off, Baby” è la realizzazione finale dei propositi artistici del musicista californiano, ovvero un totale estraniamento dei musicisti dalla musica che stanno suonando, un vero e proprio flusso di coscienza che parte da Beefheart stesso e arriva all’ascoltatore senza filtri di sorta, costruendo un discorso musicale che, nella sua ecletticità, riesce ad essere solido e coerente dal primo contatto della puntina sul 33 giri fino agli scricchiolii finali. Ci sono arrivati svariati racconti sugli eventi che susseguirono la produzione di questo capolavoro del rock sperimentale, quello più citato vede Beefheart come una specie di martire nei confronti della sua Magic Band i quali premevano per produrre finalmente un album più fruibile, e magari più vendibile. La verità è che fu proprio il Capitano a spingere verso una viscerale commercializzazione della sua musica, nella speranza di venir riconosciuto universalmente come un prodigio della sua generazione musicale, come l’amico/nemico di gioventù Frank Zappa.

Il temperamento del Capitano lo porterà a fare dichiarazioni contraddittorie sugli album che dal 1972 caratterizzeranno la sua rinascita come autore di musica pop, passando da «inascoltabili» a «capolavori» nell’arco di due o tre interviste.
Clear Spot” è il secondo album confezionato per la Reprise (storica etichetta fondata da Frank Sinatra che aveva da poco assorbito la Straight di Zappa), ed è anche l’ultimo guaito del Capitano prima della svolta. Un tentativo non molto onesto di commercializzazione che passa prima di tutto da una nuova line-up, con Milt Holland accanto a Art Tripp (aka Ed Marimba) alle percussioni (già presente in “Lick My Decals Off, Baby”) e Roy Estrada al basso, questi ultimi due strappati al feudo zappiano.

Ma come dicevamo non è di certo “Clear Spot” la vera débâcle, quella arriverà con “The Spotlight Kid”, uscito qualche mese prima sempre per la Reprise. Sebbene il tiro boogie che apre l’album possa far discutere sul solito efficacissimo dialogo tra la slide di Zoot Horn Rollo e Rockette Morton (I’m Gonna Booglarize You Baby), a regnare in tutto Spotlight è la noia e la prevedibilità, dove gli unici acuti sono derivati dai guizzi vocali di Beefheart, rigurgiti dal delta del Mississippi che però non bastano a rialzare l’album e a renderlo sufficiente. Incapace di interpretare la musica commerciale Don Van Vliet la banalizza, credendo che sia tutto un discorso di semplificazione, non riuscendo a costruire un discorso melodico orecchiabile o anche solo un riff micidiale, come se il solo aver agevolato la vita ai suoi musicisti fosse un lasciapassare per le vendite. Pezzi come When It Blows Its Stacks non sarebbero mai riusciti a scalfire una classifica che vedeva capeggiare album come “Catch Bull at Four” di Cat Stevens, “Bare Trees” dei Fleetwood Mac, senza contare Bowie, T-Rex e (urgh!) Neil Diamond. Manca il dinamismo delle produzioni precedenti, ogni pezzo sembra rallentato e suonato svogliatamente, Beefheart dimentica volontariamente per strada tutti gli elementi che rendevano il suo approccio musicale così interessante mettendo in difficoltà anche la band che non si sentivano ripagati dei loro sforzi nelle estenuanti sessioni negli album precedenti.

La musica commerciale stava andando su altre direzioni, una maggiore pulizia del suono caratterizzava ogni produzione delle major, il prog inglese aveva creato uno standard qualitativo molto alto dal punto di vista produttivo, il folk de-politicizzato incantava le platee di tutto il mondo, ma Beefheart testardo come un rinoceronte continua la sua corsa, pensando che ad uno come lui sarebbe bastato poco o niente per creare un prodotto della stessa fattura di un Neil Diamond qualsiasi.

Ormai in pianta stabile in UK il Capitano si affida al produttore Andy Martino e alla Mercury Records di Chicago che vogliono trasformarlo in un cantautore di ballads melense. Il primo album di questa trasformazione epocale è “Unconditionally Guaranteed” del 1974, distribuito nel Regno Unito dalla Virgin, la formazione della Magic Band perde Roy Estrada e vede Zoot Horn Rollo passare al basso con il ritorno di Alex St. Clair alla chitarra, ma a dare quell’atmosfera di ballate tragicomiche ci pensano Del Simmons al sax, Mark Marcellino alle tastiere e lo stesso Andy Martino che per l’occasione si destreggerà con la chitarra acustica, dipingendo note smielate piene di profonda e imbarazzante inadeguatezza. Upon the My-Oh-My è teoricamente il pezzo che dovrebbe scalare le classifiche, ma sebbene sia esaustivo nel dare una chiave di lettura sulla scabrosa idea compositiva dietro questo album, risulta ancora più sgradevole sentire il proseguo, in cui anche la voce del Capitano viene addomesticata all’inverosimile. Le ballate oltre ad essere incredibilmente convenzionali sembrano anche lentissime, This is the Day non dura 5 minuti ma nella mia testa sono almeno 20, credo che Henri Bergson si sarebbe divertito da matti con questo album. Gli accenni bluesati fanno solo male al cuore, come la slide in New Electric Ride, buttata lì senza un briciolo di decenza. Sembra davvero impossibile che il Capitano si sia ridotto a cantare robe degne del peggior James Taylor (Full Moon, Hot Sun) eppure è tutto lì, inciso su plastica nera.

L’album non decolla, anzi: frana in tutti i sensi, alla Mercury si rendono tutti subito conto che questo freak baffutto è sostenuto solo da un manipolo di aficionados, e decidono di lasciarlo arenare fino alla fine del contratto che prevedeva solo un altro album. Sull’onda dell’indignazione Zoot Horn Rollo, Art Tripp e Rockette Morton lasciano la Magic Band per andare a formare i Mallard col supporto per la produzione di Ian Anderson, una delle peggiori formazioni rock di tutti i tempi, dalla tecnica sopraffina asservita a composizioni banali e terribilmente masturbatorie. Beefheart ovviamente s’incazzò come una scimmia, additando i suoi ex-compagni con tutti i peggiori appellativi che un paroliere come lui poteva trovare, anche se la miglior risposta fu di Art Tripp, appellando Beefheart come «The old fart», citando così i fasti di “Trout Mask Replica”, ormai chiaramente obliati dal loro vecchio mentore.

Su queste premesse nasce sempre nel 1974 “Bluejeans & Moonbeams”, un tentativo quantomeno ridicolo di tornare a forme più blues e meno folkeggianti, ma siamo lontani anni luce anche da un modesto “Clear Spot”. Ira Ingber al basso co-firma gran parte delle composizioni col Capitano, c’è spazio anche per suo fratello Elliot, già chitarrista per Moondog, Frank Zappa e Canned Heat, e presente ai tempi di “The Spotlight Kid”. Devo ammettere che sulla line-up di questo album faccio sempre un gran casino, comunque sia, per ci fosse o no, è un album di mestiere, e nemmeno di gran mestiere. Basta ascoltarsi una Twist Ah Luck per capire che siamo di fronte ad un punto zero della creatività, gli accenni blues sono ancora più dolorosi, ma non in senso espressivo (Captain’s Holiday).  L’insuccesso e l’impossibilità di rinnovare il contratto con la Mercury porteranno Beefheart ad auto-isolarsi in un camper nel deserto del Mojave.

Dopo quattro anni di isolamento e pittura (Don Van Vliet è considerato uno dei migliori esempi di post-informale negli Stati Uniti) Beefheart tornerà con un album stratosferico e geniale, “Shiny Beast (Bat Chain Puller)”, abbandonata ormai ogni velleità commerciale (a parte per Harry Irene) il Capitano è tornato a fare quello che sa fare meglio, ma questa è un’altra storia.

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Spostiamoci nel 1982, anno di pubblicazione di “Song of the Bailing Man”, l’ultima prova dei Pere Ubu prima del loro primo scioglimento. In confronto al precedente “The Art of Walking” vediamo Anton Fier sostituire il grande Scott Krauss alla batteria, Mayo Thompson riconfermato dopo aver sostituito Tom Herman nel 1980, Tony Maimone al basso e Allen Ravenstine ai suoi synth. David Thomas come sempre istrione e grande Padre Ubu anche in sala registrazione, ancora più teatrale del solito con i suoni di Ravenstine messi in secondo piano dopo esser stati protagonisti quasi assoluti dei momenti più paranoici di “Dub Housing”, “Modern Dance” e “The Art of Walking”, la sezione ritmica furiosa e a tratti esageratamente virtuosa. In breve, il solito grande album per la band, che sperimenta e fa avanguardia a sé, mente il post-punk di sponda inglese si era già venduto quasi in blocco alle classifiche.

Il ritorno dei Pere Ubu, dopo le magnifiche divagazioni soliste di Thomas di cui non oggi non parleremo, è targato Marzo del 1988, dopo una difficile ricucitura tra Thomas e i membri storici. A Ravenstine, Maimone e Krauss si uniscono Jim Jones alla chitarra (già membro di molte formazioni rock underground tra cui gli Electric Eels di John Morton), alla batteria accanto a Krauss addirittura il leggendario Chris Cutler degli Henry Cow (già batterista aggiunto anche nei Gong e nei Residents) e lo sperimentatore John Kirkpatrick con il suo Melodeon (variante della fisarmonica). L’album uscito per la Fontana Records è “The Tenement Year”. Piuttosto diverso dalle produzioni precedenti degli Ubu, sopratutto per l’influenze musicali accumulate da Thomas nel suo periodo solista, un album eccentrico ma non anarchico, che riesce ad alternare momenti più rilassati a grandi intuizioni (come nella eclettica Busman’s Honeymoon o nella sguaiata George Had a Hat), senza dimenticare un Ravenstine in grande spolvero.  L’unico problema per Thomas è che sebbene la critica continuasse ad acclamarli le vendite non sembravano proporzionate a quelle entusiastiche recensioni.

Tolto momentaneamente Kirkpatrick ed inserito nella formazione Stephen Hague, produttore di grandi successi pop e tastierista, Thomas cerca di dare ai Pere Ubu una nuova forma, in linea con una musica più accessibile e melodica. Al contrario di Beefheart per David Thomas la musica commerciale non è soltanto banalizzazione di archetipi musicali, ma parte di un processo di espurgazione dai suoi peccati punk (è un periodo complesso per il cantante da Cleveland, anche spiritualmente).

Arriva così nel 1989 “Cloudland”, un album decisamente pop. L’approccio della band è quello di rielaborare gli stimoli per loro più interessanti nella musica commerciale a loro contemporanea (Police e Talking Heads in primis), riuscendo al tempo stesso a mantenere un certo dinamismo ed un tiro non indifferente. Non è un caso se un loro singolo, Waiting for Mary, sbanchi addirittura su Billboard arrivando al numero 6! Sebbene qualche rigurgito post-punk qua e là (Pushin, Flat e in parte anche The Wire) l’album risulta compatto, capace di tirare fuori melodie piacevoli e proponendo la voce unica e irriproducibile di Thomas in una veste non più nevrotica e instabile, ma dolcemente intima ed emozionante.

Siamo molto lontani come esiti artistici da qualsiasi album precedente dei Pere Ubu, si sta parlando esclusivamente di forma e nessuna sostanza, ma con grande umiltà e intelligenza Thomas capisce che il loro approccio non può essere supponente, tipo da super-star dell’underground che si “abbassa” per ragioni commerciali, ma bensì quello dell’addentrarsi in una nuova esperienza, «Put yourself in our shoes, for us going to expensive studios and doing lots of remixes was an experiment in itself.» E così i Pere Ubu sperimentano su nuove forme, e dopo il proto-punk, il post-punk, il rockabilly e il jazz ecco il pop da classifica, distorcendolo e reinterpretandolo su una nuova prospettiva, che dava decisamente il meglio di sé quando Thomas diventava un atipico crooner dal carisma indiscutibilmente magnetico.

Ripetersi però diventa difficile per la band, la nuova formazione fissa vede il grande Eric Drew Feldman (Snakefinger, Pixies e presente anche negli tre ultimi album della rinascita artistica di Captain Beefheart) sostituire Ravenstine, il quale farà solo qualche comparsata, e vede anche l’addio di Cutler, in compenso compare sporadicamente John Kirkpatrick. Esce nel 1991 sempre per la californiana Fontana Records, prodotto da Gil Norton (che aveva già confezionato “Doolittle” e “Bossanova” dei Pixies), l’album si chiama “World In Collision” ed è certamente il più grande sforzo pop della band.

Va detto che stavolta a parte l’eccezionale vena melodica di Oh Catherine, e forse Life of Riley, l’album appare più modesto del precedente, sebbene Oh Catherine riscontri un buon successo (non paragonabile a quello di Waiting for Mary, ma sufficiente per finire in tarda serata da David Letterman) non basta a lanciare l’album in classifica. Nonostante la band mantenga quella dignità che Beefheart aveva decisamente perso al suo secondo tentativo commerciale, non riesce più a trovare quella chiave di volta che li aveva visti vicini al successo mondiale.

Perso anche Eric Drew Feldman i Pere Ubu restano in quattro con l’aggiunta quasi inconsistente di Al Clay. Story of my Life” esce nel 1993, un album che alterna riff fastidiosi a composizioni che, per dirla buona, risultano quasi sempre banali. Thomas cerca di ridare un sound più “rock” alla band, forse vedendo il successo di complessi come gli U2, ma il risultato è tremendamente posticcio (tanto che Maimone lascerà la band subito dopo l’uscita dell’album). L’aspetto peggiore di questo disco è che si sente la mancanza di Thomas, sommerso da una melma sonora incoerente e con accenni epici decisamente fuori fuoco.

Dal 1993 i Pere Ubu ritorneranno più volte, cercando di riprendere la vena creativa di un tempo, ma senza mai riuscirci pienamente, azzeccando giusto due o al massimo tre pezzi in ogni album. Al contrario quindi del nostro Capitano i Pere Ubu non riescono a rinascere dalle ceneri con un album epocale, come mai?

Probabilmente proprio per l’approccio di Thomas di fronte alla musica così-detta commerciale da sperimentatore, proseguendo quella ricerca musicale che cominciava dai suoi Rocket from the Tombs fino ai primi album dei Pere Ubu, quegli album commerciali ne erano una diretta conseguenza e non una deriva. Per Beefheart invece c’era una profonda divisione concettuale tra un “The Spotlight Kid” e “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” come pure per gli album successivi, ovvero “Doc at the Radar Station” e “Ice Cream for Crow”, per l’artista californiano una volta accantonato il discorso commerciale si poteva ricominciare da dove si era lasciato, come se nulla fosse.

Lasciare l’underground per sposare una musica più fruibile e potenzialmente vendibile non è una cosa semplice, e di certo non è priva di conseguenze. Sicuramente c’è una voragine artistica tra i Pink Floyd di Barrett e quelli Waters, ma la musica in generale non è solo necessità artistica, è anche competenza tecnica e la capacità di comunicare semplicemente tramite una grammatica fluida e intangibile, si possono criticare anche ferocemente fenomeni come il brit-pop, gli U2 o i Foo Fighters dal punto di vista della proposta artistica, ma non bisogna mai dimenticarci che c’è anche un contesto più ampio dove la melodica orecchiabile, il riff tamarrissimo e la voce virile e potente non sono elementi che da sé fanno un successo commerciale, ma hanno bisogno di tanto studio e dedizione. Ciò non toglie che il miglior album degli U2 non vale una scoreggia travestita di David Thomas.

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Per alcuni appunti biografici e curiosità ho spulciato questi due bei librini che vi consiglio vivamente:

  • Luca Ferrari, “Captain Beefheart – Pearls before swine Ice cream for crows”, Sonic Book, 1996
  • Duca Lamberti, “Pere Ubu, David Thomas – The geography of sound in the magnetic age”, Sonic Book, 2003

Captain Beefheart & His Magic Band – Trout Mask Replica

Captain+Beefheart++His+Magic+Band

Se avete quest’album e avete già letto un paio di tonnellate di recensioni e volete leggervi pure questa allora sappiate che siete messi maluccio.

Se non sapete cosa sia questo album proseguite nella recensione come se niente fosse.

Di “Trout Mask Replica” ne sentirete parlare come “il più grande album di tutti i tempi” o come “le mie scoregge suonano meglio e puzzano meno”. Quando ci si trova di fronte ad un opera che divide e polarizza la discussione in modo così deciso bisogna innanzi tutto fare ordine.

La cosa migliore sarebbe questa: fregatevene di cosa ne dice la g-gente, compratevi ‘sto dannato disco e mettetelo sul piatto, fatelo girare ben ben e accostate la puntina con estrema lentezza per gustarvelo in santa pace. Oppure scaricatelo da iTunes e fatelo partire sul vostro asettico iPod. Ecco, ascoltatelo con leggerezza, con divertimento e senza troppe seghe mentali. Se vi piacerà, bene, se non vi piacerà, chissene, avanti il prossimo!

Ma, ehi, quando devi tirarci sù una critica costruttiva allora non puoi mica svignartela così bello mio.

È facile dire: l’ho letto su Wire, è un fottuto capolavoro, quindi zitto e muto!
Come è altrettanto facile affermare: non sa di un cazzo, è fatto per ridere, perché dovrebbe essere il disco più figo del rock se non suona nemmeno rock???

Però queste non sono discussioni in merito ad un album, ma bisticci idioti senza direzione.

La critica musicale non ha apprezzato all’unanimità TMR alla sua uscita. Gran parte degli elogi venivano dalla critica rock più “estrema” e riluttante ai soliti nomi che vivacchiavano in alto alle classifiche, e anche da una parte della critica jazz con forti accezioni fortemente sperimentali.

Nel corso della storia l’album in questione è stato pian piano riconosciuto universalmente come un capolavoro unico e irripetibile, e sono pochissimi (sempre che esistano) i critici musicali che mettono in dubbio la caratura di questo disco.

Ma ovviamente la critica musicale non è tutto, anche se in questo campo è la voce più autorevole (sopratutto quando un album è ormai storicizzato e può essere valutato in modo più oggettivo).

Probabilmente la parte più complessa nel valutare oggettivamente un album risiede nel momento in cui ti rendi conto che quell’album ti fa cagare.

La prima volta che ascoltai TMR mi piacque, quindi non faccio testo, ma è più comune che avvenga il contrario data l’unicità compositiva che lo diversifica in modo  così violento da tutta la produzione rock fino al 1969, e che ancora oggi trova pochi esempi egualmente al limite.

Detto ciò io ho mal digerito al primo ascolto i Little Feat, i Creedence Clearwater Revival e addirittura (e non mi vergogno ad ammetterlo) i Gun Club. Sono tre esempi di fruibilità completamente diversi e certamente più accessibili di TMR come anche di approccio al rock, e sebbene all’inizio li trovai non adatti a me (per non dire insopportabili) ne riconobbi subito il valore storico. Ho voluto fare questo esempio perché in questi mesi sto riascoltando ed rivalutando proprio queste tre band (dei Gun Club ho acquistato tutta la discografia nell’arco di un mese!), ma per alcune non ci sono stati cazzi, mi annoiano a morte a prescindere dal loro valore storico.

Il nocciolo della questione è: ma che valore storico ha TMR?

Beh, sarebbe lunga, ma mi limiterò alle mie impressioni da totale imbecille sul web col suo bel blogghino da sfigatello.

Se escludiamo Ella Guru, Moonlight On Vermont e Sugar ‘n Spikes, le uniche tre tracce a presentare una forma quasi melodica o tradizionale a tratti, il resto dell’album è un volo che viene delle volte erroneamente definito psichedelico (oppure di matrice blues) quando invece è solo free-form e anarchia jazz-rock totale.

Tutto parte dalla seminale mente di Beefheart, che sperimenta su un pianoforte che non sa suonare idee, concetti e impressioni del tutto fuori da ogni schema compositivo, lasciando che Drumbo (all’anagrafe John French, il batterista della Magic Band) cercasse di dare un vago senso compiuto a quegli schizzi anarchici.

Oltre le leggende, che potete leggere più o meno ovunque, la cosa che deve saltare all’orecchio è come Beefheart in modo del tutto tirannico (come ogni regista che si rispetti e non ho usato la parola regista a caso) costringe la sua band a delle sessioni di lavoro da gulag russo, lasciando che la sua creatura prendesse il sopravvento sulla razionalità e sul controllo che normalmente hanno i musicisti sulle loro composizioni.

Le poche interviste di Beefheart rilevano come il concetto alla base del Capitano fosse quello di eliminare le singole personalità, proponendo un lavoro stanislavskiano di musicista fuori dalla musica che sta suonando, diventandone parte concreta.

In fondo il concetto non è così complesso come può sembrare, la situazione in cui versano i musicisti violentati da Beefheart è quella di un drogato che prova un senso di totale unità con l’universo che lo circonda pur essendo al di fuori di sé.

Questa operazione, sebbene anarchica, è sostenuta da una tecnica e da un controllo eccellente, spesso ai limiti possibili. Nessuno la fa fuori dal vaso, le due chitarre poste una destra e l’altra a sinistra provocano l’ascoltatore (sono le impressioni di Beefheart, le idee anarchiche fuori da ogni concetto prima ideato) mentre la batteria di Drumbo, posta sempre al centro (a parte in piccole idee particolari come in The Blimp (Mousetrapreplica)), è  il collante necessario (e aggiungo: la parte razionale) per mantenere stabile questo monumentale e azzardato progetto.

Ci sono anche tantissimi momenti morti (il primo che mi viene in mente è la pausa tra Hair Pie: Bake 1 e il bellissimo attacco di batteria di Moonlight On Vermont) ci sono anche momenti in cui Beefheart canta senza accompagnamento (tramite il collage di strofe cantate singolarmente, come in Orange Claw Hammer) e addirittura c’è una registrazione della band mentre mangia (nei primi istanti di Fallin’ Ditch).

Difficile definire tutto questo come un album prettamente rock, o addirittura un album di musica in generale. L’esperimento di Beefheart è una doppia provocazione, sia al musicista esperto che al fruitore occasionale. Al primo mostra i muscoli (Sugar ‘n Spikes) e anche la possibilità di andare oltre la tonalità e alle leggi che regolano il limitatissimo mondo del rock (che poi è il principale motivo per cui questo album è considerato così fondamentale), al secondo propone un ascolto più partecipato, più sensibile, perché TMR non è affatto un album costruito per emozionare o cose così, la sua sensibilità non sta nel farti fare due lacrimuccie o a farti incazzare contro il Reagan di turno, ma cerca piuttosto di estraniarti da te stesso per raggiungere il Capitano nella sua jam infernale.

Anche nei testi risulta difficile trovare un senso comune, si va dalla rievocazione dell’olocausto di Dachau Blues alle immagine sessualmente contorte di  Neon Meate Dream of a Octafish, il tutto ispirato da una ricerca squisitamente dadaista (forse delle volte anche tramite la tecnica del cadavere squisito).

Il metodo di Beefheart si allontana decisamente dalla serietà degli esperimenti free-jazz o del rock definito underground, perché se da una parte il controllo tecnico e concettuale sull’opera è totale, dall’altro il Capitano sta sbeffeggiando goliardicamente i limiti auto-imposti del rock.

L’infinito accostamento di idee, suoni, raccordi e distorsioni fa di TMR una raccolta geniale che, per forza di cose, è anche all’avanguardia di tutti i generi che il rock toccherà negli anni successivi.

Credo sia difficile fruirlo come un album dei Pink Floyd, ma immagino che questo dipenda anche dalle personalità (a me, per esempio, mi piace molto ascoltarlo  mentre studio o scrivo), ma penso non ci possano e non ci debbano essere dubbi sul valore di questo capolavoro del Capitano, ben oltre il precedente e eccellente “Safe As Milk” (1967) e certamente mai più ripetutosi a questi livelli.

[Deh, forse per qualcuno questa recensione potrebbe anche apparire breve e incompleta, ma essendo il web assediato da ottomila recensioni (soltanto in italiano) di questo album credo di aver effettuato una sintesi dei motivi per cui TMR è un fottuto capolavoro abbastanza precisa e leggera, senza tirare il ballo il Dasein di Heidegger, senza masturbarmi sulle componenti tecniche e senza insultare nessun critico di Blow Up, Mucchio, Buscadero, Rumore o-che-so-io. Quindi: ‘fanculo, comprate questo album, e se non vi piace peace & love.]

…se volete leggere quella che ritengo sia la migliore recensione in assoluto cliccate qui. È stata scritta nel 2008 dal miglior blogger mai esistito, anche se da tempo disperso (si dice rapito da degli alieni).

E infine…

ma che cazz???