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Autostoppisti Del Magico Sentiero – Erasmus A Kiev

Etichette: New Model Label
Paese: Italia
Anno: 2022

Kamikaze Palm Tree – Good Boy

Etichetta: MUDDGUTS
Paese: USA
Pubblicazione: 2019

Dylan Hadley fa parte di quel giro magico che ha ridestato interesse nel rock underground, ovvero White Fence, Mikal Cronin, Ty Segall e tutta la banda. In un’intervista per KEXP John Dwyer ha raccontato della fantastica impressione che gli fece la Hadley come cantante e batterista per la sua band, i Kamikaze Palm Tree, probabilmente una delle realtà più divertenti del panorama rock mondiale – eppure ancora semi-sconosciute.

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Lo zen e l’arte della recensione di Trout Mask Replica

Forse sono passati già dieci anni da quando lessi per la prima volta questo post. Era firmato da un certo Tristram Shandy, un gentiluomo che scriveva in un blog chiamato “Morte A Credito” su Splinder. La mia vita cambiò e prese una piega che mi ha donato le più grandi soddisfazioni che abbia mai raccolto in 27 anni. Ora ne ho 28, e sebbene Tristram non ci sia più da un anno quella forza inerziale continua a spingermi. Per un bel po’ di tempo, lo ammetto, mi stava trascinando con sé verso un baratro senza fondo. Mi ci è voluto per capire che siamo troppo piccoli per affrontare la morte, e risulta decisamente meglio usare le nostre poche forze per affrontare la vita.

Buona lettura.

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Finalmente l’ho fatto. Per quanto possa essere irrilevante ai più, per me, mettere in parole la mia recensione su Trout Mask Replica è come aver finalmente eiaculato dopo una sega durata sei anni (immaginate il fiotto).

Sei anni fa a Firenze, in piazza San Marco, ricevevo per il modico prezzo di 10 euro la mia copia di Trout Mask Replica di Captain Beefheart. Avevo aspettato un anno circa prima di averlo e – sembra strano – il negoziante, ogni martedì, mi ripeteva che “la prossima settimana arriva, tranquillo”.

E arrivò.

Allora avevo il mio mitico e indimenticabile disc-man (lettore cd) della Sony con la cover blu. Era sopravvissuto alle superiori e durava ancora durante la mia parentesi universitaria. Anche quel giorno era con me – ricordo che era all’incirca Febbraio – custodito al sicuro nella generosa tasca del mio piumino. Mentre scartavo il cellophane che ricopriva il disco tremavo, quasi, dall’ansia di poter finalmente ascoltarlo, mentre ripetevo al mio lettore che oggi avrebbe fatto suonare “il più grande album rock di tutti i tempi” (ovviamente è un eufemismo, di solito non parlo con gli oggetti).

Non ricordo dove avevo letto quelle parole, io ai tempi manco conoscevo Bangs o Scaruffi, ma questa storia di Trout Mask Replica mi ronzava in testa da tanto…un a priori kantiano che mi attraeva, forse? Chissà, ma va detto che io amavo Frank Zappa alla follia (il mio primo gruppo si chiamava Hungry Freaks, in onore ad un pezzo delle Mothers of Invention), e leggendo di lui lo trovavo sovente collegato a Don Van Vliet. Beefheart compariva come personaggio anche nell’autobiografia di Zappa (con Peter Occhiogrosso), il che lo faceva diventare automaticamente un mio mito (dalla serie: “ogni amico del mio mito è un mio mito”).

Così mi ossessionai finché non lo ottenni.
E arrivò.

Ma non fu quell’orgasmo che pensavo poteva essere. Quei suoni, quelle canzoni, quello stile, quelle note… non potevo sopportarlo. Il mio lettore blu tirò un sospiro di sollievo quando pigiai il tasto col quadratino incavato, neanche a metà album. “Ma ovviamente – mi ripetevo – non è finita qui! Io scoprirò perché è un capolavoro, al costo di ascoltarlo tre volte al giorno.

Anche ascoltandolo tre volte al giorno, però, la cosa non cambiava. Era strano, era diverso, non aveva “canzoni” vere e proprie, anche se ne conservava alcune similitudini. Non era neanche “musica”, a dire il vero, perché non suonava bene. Perché? Perché non capivo? Eppure doveva essere il Citizen Kane del rock, porcocristo, e non una schifezza del genere.

Praticamente lo imparai a memoria. Sapevo tutti i titoli delle 28 canzoni, la disposizione, i cantati e alcune parti di testo. Questo solo perché mi ero incaponito di ascoltarlo, ma non riuscivo davvero a scoprirlo.

Ricordo che fu il mio secondo mito vivente, Sara, a dirmi dell’esistenza di un critico del web, tale Scaruffi, che era un gran bastardone ma aveva recensito praticamente tutto. Così diedi un’occhiata al critico bastardone e nella sua lista dei migliori album, al primo posto, trovai proprio Trout Mask Replica. Ebbi una strana palpitazione al cuore: “Finalmente scoprirò che cazzo ha di tanto spettacolare sto album del cazzo”. Perché, è giusto che sappiate, io avevo lasciato un po’ perdere il Beefheart, ma lo veneravo in quanto “proiezione di superiorità musicale non ancora ben chiarita”.

Ma Scaruffi non dice – praticamente – un benamato cazzo sul perché è il più grande disco del rock. Invito tutti quanti avranno letto la seguente recensione a dare, in seguito, un’occhiata a quella che fa Scaruffi e a raffrontarla con la mia se hanno qualcosa in comune.

La chiave che sbloccò l’amore per il Capitano fu invece Emanuele (mio amico e batterista), quando tre anni fa gli prestai quel maledetto cd. “Sai che è davvero esagerato?” mi disse. Era rimasto esterrefatto dall’istrionismo di Drumbo, il batterista della Magic Band. Trovava Trout Mask Replica un album “unico”.

Quando disse quella parola mi si aprì un varco riflessioni che fino ad allora non ero riuscito a carpire.
Aggiunse anche di dare un’occhiata su Ondarock, “c’è una recensione esagerata che parla del disco ponendolo come soggetto di un ipotetico dialogo tra un fan beefheartiano ed un neofita”. Lui non sapeva niente dell’ossessione che mi covava dentro da parte di quello stupido album con la copertina rossa ed un pesce che saluta (più o meno).

Trovo abbastanza esauriente (sicuramente migliore di quella di Scaruffi) quella recensione, tanto che scrissi una mail all’autore per ringraziarlo.
Probabilmente per voi quello che ho scritto fin qua può risultare inutile o costruito soltanto per narrare ciò che amo di più (i cazzi miei), mentre in realtà tutto questo era un preambolo per poter parlare della Qualità in una recensione. Ovviamente la mia recensione è (e qui lo dico senza usare virgolette, ma con parole che io penso e giustificherò) sul più grande album rock di tutti i tempi, Trout Mask Replica.

Ma parliamo di Robert Pirsig.

Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta lo lessi qualche anno fa. Mi lasciò talmente senza fiato, col cervello stimolato a mille che lo rilessi dopo pochi mesi alla ricerca di qualche chiarimento, certo che non avevo compreso tutto ciò che vi era dentro. E infatti così era.

Lo ripresi in mano altre volte per leggere alcuni passaggi, o riavventurarmi nuovamente nell’avventura on the road dei protagonisti, fino a che – dopo averlo largamente consigliato alla mia Morosa – ho deciso di rileggerlo nuovamente poco tempo fa.

La storia si dipana in due, da un lato c’è il viaggio di Pirsig con suo figlio in moto per gli Stati Uniti, dall’altro c’è la storia di Fedro, folle genio che si impuntò sulla Qualità. Tra le due storie c’è un filo comune che è Pirsig stesso, ovvero Fedro, ovvero un professore di filosofia “condannato” dalla sua stessa intelligenza all’elettro-shock. Quello che rende il libro un colosso è la pregnanza di concetti che Pirsig riesce abilmente ad inserire senza rovinare niente in scorrevolezza o continuità. Chi ha letto il libro, probabilmente, capirà meglio tutti i miei discorsi.

Dividendolo, come Pirsig fa, in due modalità – Classica e Romantica – cercherò di recensire l’album con la più alta dose di Qualità che riuscirò a metterci.

Premetto che “un’intelligenza classica vede il mondo innanzi tutto in quanto forma soggiacente. Un’intelligenza romantica lo vede innanzitutto in termini di apparenza immediata. E’ improbabile che un romantico trovi interessante uno disegno tecnico o meccanico o uno schema elettronico: per lui queste cose non hanno fascino, perché non ne coglie che la realtà superficiale […]. La modalità classica, invece, procede secondo ragione e sulla base di leggi – che sono esse stesse la forma soggiacente del pensiero e del comportamento.” (p.p. 75-76 ed. Adelphi)

Perciò ecco la recensione classica di Trout Mask Replica.

L’album contiene 28 brani, di cui tre strumentali e – per contrappasso – tre solo voce. L’album è del 1969, prodotto da Frank Zappa, con i seguenti musicisti:
– Captain Beefheart: bass clarinet, tenor sax, soprano sax, vocal
– Drumbo: drums
– Antennae Jimmy Semens: steel-appendage guitar
– Zoot Horn Rollo: glass finger guitar, flute
– Rockette Morton: bass & narration
– The Maskara Snake: bass clarinet & vocal

Ciò che principalmente diversifica e fa risaltare all’orecchio Trout Mask Replica da ogni altro album mai uscito finora (parlo oggettivamente, sono in modalità classica) è l’annullamento del “battere-levare”, grazie ad un lavoro fatto a regola d’arte basato sugli strumenti a corda. Si può notare che le chitarre sono poste una a destra ed una a sinistra, mentre la batteria ed il basso rimangono centrali. Sono loro a fare il lavoro “sporco” di dissonanza temporale, mentre in realtà sono tutti corretti e nessuno va fuori dalla battuta. Soltanto che al posto di seguire la chitarra, nella Magic Band, si segue la batteria.

Ascoltando una chitarra sola e la batteria tutto va bene, ascoltando esclusivamente l’altra chitarra e la batteria lo stesso. Ma insieme è un gran canaio. Perché? Perché, pur tornando, spesso, le due chitarre sono aliene tra loro creando quel “caos” che rende l’album inascoltabile.

Non è tutto qui. L'”inascoltabilità” fa affidamento anche su un sapiente uso delle terzine che ogni strumento fa senza seguire l’altro, cosicché la ritmica si annulla o si moltiplica straniando tutto dalla musica pur rimanendo perfettamente su quel campo. Un esempio molto illuminante è Dachau Blues, dove Drumbo fa il 4/4 in terzine, la chitarra sinistra ha gli accenti in levare e la destra in battere. Un casino, sì, ma completamente regolare.

Beefheart non si ferma qui, ma fa sì che sparisca la tonalità facendo uso abbondante di cacofonia (“che palle la tonalità, è così limitante!” Lester Bangs), soprattutto coi fiati e gli ottoni suonati intenzionalmente male. Cioè, sono suonati nel modo che non rispecchia la normale corrente d’uso. E sono proprio gli ottoni e i fiati gli unici strumenti che si permettono gli assoli, perché – nonostante sia un album rock – Trout Mask Replica è privo di soli di chitarra o di batteria o di basso.

Altra componente importante è la struttura delle canzoni. Ogni pezzo ha in sè una struttura diversa dall’altra, e (a parte Ella Guru e Sugar’n’Spikes) da qualsiasi canzone rock fino ad allora uscita. Ogni brano splende di propria personalità e identità, e questo senza adombrare l’altro o risultare prolisso.

La voce è assolutamente una cosa nuova. Entra senza pietà in ogni brano, spazzando via gli strumenti che sorreggono la struttura, la voce è padrona dell’album, è la cosa più importante in quanto se ne frega dei cambi ritmici o melodici. Beefheart non canta, decanta. Non solo, fa un uso completo del suo “strumento” ululando, ringhiando, salendo e scendendo vorticosamente di tono o cambiando proprio timbro (Hobo Chang Ba, Pena, Sugar’n’Spikes, Ant Man Bee ad esempio).

La batteria ha bisogno di una nota di merito per l’istrionismo e l’abilità che riesce a creare. Dopo la voce risulta di essere lo strumento più importante per la risoluzione dell’album. Drumbo è come un bambino che vuol colpire tutti i pezzi del kit nel minor tempo possibile, ma con l’abilità di un jazzista di razza. Il sound è sostanzialmente tribaleggiante (tant’è che i piatti erano bloccati da pezzi di cartone per far sì che la scia non ci fosse), mescolato all’uso jazz del charleston. Viene fuori un suono folle, pazzo furioso, che scatta e si ferma, poi torna e picchia duro.

Per quanto sembri fatto a caso nulla è casuale, infatti Trout Mask Replica è la crasi pervertita di due menti (Beefheart e Drumbo) che decisero di fare qualcosa di “diverso” pur restando nella realtà musicale. Il primo compose a pianoforte e voce tutti i pezzi, l’altro trascrisse per chitarre, basso e batteria il tutto.

Il risultato è questo: l’unico album che è stato capace di piegare la musica a seconda del proprio volere senza snaturarla del tutto.

Ed ora ecco la recensione romantica di Trout Mask Replica:

Trout Mask Replica è il più grande album rock perché fa quello che tutti gli altri non sono – ancora – riusciti a fare: creare qualcosa di talmente enorme che gli sta stretto anche l’appellativo rock. Non è una falsa rivoluzione come può esser stato il post-rock, la sua, è invece vera e propria dissociazione dal normale. Beefheart non amava misurarsi con altri musicisti e (vuoi per superbia o per vera “rivoluzionalità”) conosceva ben poco di musica. Tant’è che in un’intervista con Bangs dichiarava che la sua musica preferita è il canto dell’oca, per la sua assoluta libertà di espressione.

Ed è la Libertà, qui, che impermea tutto l’album. La Libertà che non è anarchia (ovvero inascoltabilità inutile), ma restare dentro le regole pre-esistenti e dilatarle, sporcarle e personificarle a sé stesso.

Beefheart decanta le sue cazzate senza senso compiuto (talvolta inventa anche parole) sopra ad una musica che sembra inascoltabile. Dov’è la cosa interessante? Nella credibilità e nel credere in quello che faceva. E’ così credibile che non è comico, non è improbabile, non è una cazzata, ma è qualcosa di Nuovo.

Non c’è alcuna dichiarazione di commerciabilità lì dentro perché il vecchio cuordimanzo e la sua banda si ritirarono in un casone nel deserto del Mojave, sostenuto dai soldini della mamma del Don, facendo un lavoro ancora incerto sulla possibile pubblicazione, in quanto ai tempi era stato licenziato dalla Buddha.

Beefheart crede in quello che fa e lo pubblica in 28 tracce. Non esita ad estremizzare il suo lavoro perché è proprio l’estremizzazione che può far capire il suo messaggio. Più è inascoltabile più si riesce ad intravedere quelle due parole che saranno una manna dal cielo per tutti quanti l’hanno inteso: “Siate Liberi”.

Tutto qua. Il suo non è un album oggettivamente bello, è decontestualizzato, maltrattato e crudo. Non ha grandi effetti, né ritornelli piacevoli o melodie sognanti. E’ la più nuda verità musicale-artistica che un Genio può fare. Infatti è tutto libero: dalle chitarre che non si dividono più il triste compito di ritmica o solista, dalla batteria che non tiene il tempo, dalla voce che sovrasta tutto, dai fiati che maltrattano la melodia con acuto cinismo, dagli spunti vocali ricercati fino allo spasmo (per finire nella voce telefonica di Jimmy Semens in The Blimp: rap ante-litteram), dalle soluzioni strutturali… da tutto!

Trout Mask Replica non è altro che un messaggio, non è altro che la primordiale fonte di rinnovamento da tutte queste immondizie musicali, è la vittoria dell’uomo sulle regole della musica.

Trout Mask Replica è l’input a fare qualcosa di diverso. E chi l’ha capito è ben evidente: tutti coloro che hanno imparato la lezione hanno fatto qualcosa di unico. Pensate ai Pere Ubu, ai Television, ai P.I.L., ai Talking Heads, ai Sonic Youth, P.J. Harvey

La cosa divertente del disco è l’ironia dei figuranti: l’album sembra quasi una prova di un album, infatti alcuni brani sono intervallati o da discorsi sulla riuscita della canzone (Hair Pie: Bake 1), da prove vocali che andranno su un altro pezzo (Pena), su loro che mangiano (Fallin’ Ditch) o su take alternativi (“She’s too much for my or everybody’s mirror number two”). Un album assolutamente completo mascherato da raccolta di pezze.

Non è filosofia hippie la sua, non intellettualismo patetico, è la semplice intuizione che si spinge oltre alle solite regole imposte, è il cavillo legale che riesce a ribaltare la causa senza uscire dai parametri legislativi. Non è roba tecnica, non è roba per intenditori, è musica tale e quale a tutto il resto. Sarebbe ingiusto e stupido scinderla dagli altri.

Soft Boys – Underwater Moonlight

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Etichetta: Armageddon
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 28 Giugno 1980

Ideale crasi tra Syd Barrett, Rolling Stones, Captain Beefheart, Beach Boys e Beatles, “Underwater Moonlight” è certamente uno degli album più eclettici della storia del rock, oltre che uno dei più discussi, anche da chi in realtà non ne ha una opinione in merito.

Difficile trovare qualcuno che non tacci UW di capolavoro passando direttamente col rosso, quando invece il secondo album dei Soft Boys alla sua uscita fu quasi ignorato.

In realtà se vogliamo parlare di UW con cognizione di causa dobbiamo necessariamente partire dall’ancora più ignorato esordio della band inglese: “A Can Of Bees”. Registrato nell’estate del 1979 e pubblicato quello stesso anno. L’esordio di Robyn Hitchcock e Kimberly Rew nello spastico mondo del rock di fine ‘70 è deflagrante, zeppo di sfuriate elettriche alla Barrett, qualche percussione che ricorda i Beatles più psichedelici, ma sopratutto una clamorosa riscoperta del secondo periodo dei Beach Boys, quello meno famoso ma più interessante, partendo dalle direttive angosciose di “Surf’s Up” (1971). La sezione ritmica varia dai Byrds per passare al kraut rock dei Can, precedendo di molto la felice commistione garage-kraut dei Thee Oh Sees.

Forse la chiave della celata malinconia di UW sta proprio tra le noti gravi e profetiche di quella gemma dei ’70, poco considerata persino dagli appassionati, quel “Surf’s Up” di cui prima. Alla fine del loro percorso i Beach Boys erano riusciti a produrre album molto influenti (su tutti “Pet Sounds” e “Smile”) senza mai sfruttare a pieno il genio di Brian Wilson, uno che da solo probabilmente valeva la somma dei Beatles moltiplicata per due. Dalla mediocrità voluta dal resto della band e da chi produceva i loro album, Wilson riusciva con i suoi colpi di genio a trovare sempre qualche soluzione originale e brillante (God Only Knows ve la ricordate, no?). Purtroppo il più delle volte le sue capacità compositive venivano usate per fini meramente commerciali, in particolare stravolgendo la musica surf, depotenziandola del suo retaggio culturale underground, e rendendola una sorta di tragico ritorno ai complessi vocali a cappella, facendo fare al rock di Ventures, Shadows, Dick Dale, Challengers, Trashmen non uno, non due, ma dieci passi indietro.

Detto questo Wilson, in mezzo ai suoi problemi con le droghe e la sua sempre più instabile sanità mentale, che lo porterà ad essere sfruttato per anni da manager senza scrupoli, nel 1971 compie un mezzo miracolo, inventando una delle canzoni di maggior rilievo nella musica pop, incastonata egregiamente nel diciottesimo lavoro in studio della band, parlo ovviamente di quel bellissimo viaggio negli abissi della depressione che è ’Til I Die. Il pezzo, oltre ad essere spacca-culi oltre ogni immaginazione, reinventa certe atmosfere care ai Beach Boys, seminando il terreno per la neo-psichedelia.

Robyn Hitchcock parte da quei cocci melodici, da quella membrana opaca che copre le voci, sfruttandone le intuizioni timbriche e ringalluzzendone decisamente gli animi, come per eccedere in senso opposto.

“A Can of Bees” è già un capolavoro per quanto mi riguarda. Il restyling che Hitchcock e Rew fanno ai Rolling Stones in Millstream Pigworker ha dell’inaudito. Attorno a loro le pulsioni new wave stanno cominciando a virare verso la musica da classifica, e i Soft Boys invece riprendono i dinosauri tanto odiati dai punkers, riscoprendoli in una veste intellettuale che quasi li tradisce – il che, pensandoci bene, è l’unico vero modo di riscoprire qualcosa e riproporlo. Il tutto senza dimenticare il Beefheart di “Lick My Decals Off, Baby, con una batteria schizzata che delle volte inciampa come quella di John “Drumbo” French, delle altre invece sembra quasi voler anticipare quella di George Hurley (Minutemen), ma senza i suoi eccessi virtuosistici.

Questo party-revival però trova una sua forma più compiuta in UW. Già nel super-compatto riff di I Wanna Destroy You (a mo’ di Television), si capisce che i Soft Boys hanno trovato i giusti equilibri tra di loro.

Ci sono dei momenti in questo album che farebbero gridare al miracolo anche ad un fan dei Nazareth. Come il rispolvero perfettamente riuscito di Barrett in Kingdom of Love, melodia favoleggiante e le chitarre opprimenti per poi lasciarsi andare in riff alla Fleshtones. Oppure la cadenza noir-porno di I Got The Hots, sfacciata come una ballad degli Stones, onirica come una jam dei Doors. I Byrds che ritornano in Insanely Jealous, la voce di Hitchcock che solo per un caso non si trasforma nel ripugnante ghignare rauco di J. G. Thirlwell, sempre sul filo, pronta in attimo ad esplodere, come anche l’intera canzone, peccato che Rew non ci da questa soddisfazione, la sua chitarra cresce, cresce e cresce, brutta stronza. Il ritmo post-industriale per Tonight, dalla parte giusta degli anni ’80. Brillante anche la traccia che dà il nome all’album, la quale chiude l’esperienza con un brio lisergico.

Menzione a parte per Old Pervert, capolavoro assoluto della band e IMHO di Hitchcock. Uno degli attacchi più sconcertanti mai registrati su un 33 giri, Hitchcock e Rew ghermiscono le loro chitarre che cercano di fuggire come cavalli imbizzarriti, batteria e basso sembrano uscite fuori da “Trout Mask Replica”, una cadenza che più storta e malsana non si può, un cazzo di gioiello da ascoltare e riascoltare fino al trascendere se stessi.

Difficilmente nella musica rock si è potuto constatare un ripescaggio così intellettuale della prima psichedelia, che fa razzia di pop e underground senza pregiudizi, mescolando elementi già usati e riusati fino allo sfinimento facendoli suonare come nuovi. Inutile dire che dopo questo album i Soft Boys non hanno saputo più ripetersi – anzi si sono proprio sciolti. Robyn Hitchcock oggi è considerato uno degli autori più acuti della sua generazione, e anche il suo ultimo album uscito quest’anno, una collezione di perle folk-rock cerebrali,  ha strappato consensi unanimi dalla critica. Kimberly Rew oggi è celebre per aver firmato il riff di Walking On Sunshine, proseguendo una carriera smaccatamente commerciale negli anni ’80. Ma a noi siamo contenti così.

 

Podcast – Puntata commemorativa per Francesco Mealli

Questo podcast è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto, ma non è né un piagnisteo né una cazzata, è una cosa che io e Lorenzo sentivamo di fare e che avrà un seguito molto particolare Martedì 4 alle 21:30 su RadioValdarno. Non voglio aggiungere altro. Buon ascolto.

Podcast – Captain Beefheart ’72-’74

Sulle frequenze lisergiche di Radio Valdarno eccovi su Mixcloud il vostro podcast preferito, Ubu Dance Party! In questo delirante episodio ci concentreremo sull’analizzare il periodo più controverso della discografia beefheartiana, ovvero il biennio ’72-’74, quello di “The Spotlight Kid”, “Clear Spot”, “Unconditionally Guaranteed” e “Bluejeans & Moonbeams”, il tutto condito da zoofilia, analisi musicologiche, aneddoti, cazzate e digressioni sull’olocausto.

Benvenuti su Ubu Dance Party.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

La musica commerciale di Captain Beefheart e dei Pere Ubu

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Considerati due paladini del rock inteso come avanguardia e sperimentazione, Don Van Vliet e David Thomas nelle loro decennali carriere hanno tentato di intraprendere percorsi musicali più canonici, cercando di replicare il successo di critica nelle vendite dei loro album.

Si dice spesso dei musicisti underground che se ipoteticamente volessero potrebbero avere successo da un momento all’altro, ecco: questa è una sonora e rassicurante cazzata, che si basa sul fatto che produrre una ipotetica e generalissima “musica commerciale” sia facile per un musicista considerato di talento.

È proprio questo pregiudizio sulla musica commerciale, immaginata come un calderone dalle dimensioni titaniche dentro il quale si può trovare un po’ di tutto, che fa credere a chiunque abbia un minimo di reputazione nell’ambiente di poter sfondare come e quando vuole, ma se non lo fa è per la sua inossidabile coerenza artistica. L’amara verità invece ci ricorda come nella storia siano stati pochissimi i complessi o gli artisti rock nati sperimentali e riusciti a conoscere il successo commerciale. Alcuni ci sono arrivati quasi per caso a fine carriera (penso agli Yes, oppure a Iggy Pop), altri con metodo e un grande senso del marketing (i Pink Floyd di Waters), altri ancora con collaborazioni più o meno importanti ed esprimendosi al di fuori di contesti musicali (Nick Cave), ma di solito il successo arriva quando una data scena musicale ha esaurito le sue necessità artistiche e diventa una macchietta di se stessa, come fu per il post-punk inglese, travasato in massa nelle classifiche di Billboard con il suo seguito di synth e sculettamenti dance.

Vorrei analizzare con voi il percorso che ha portato due artisti tra i più influenti della storia del rock, Don Van Vliet (aka Captain Beefheart) e David Thomas (leader e voce dei Pere Ubu), nella fitta e pericolosa giungla delle classifiche di Billboard, qual’è stato il loro approccio alla musica pop, che risultati hanno conseguito e l’effetto per le loro carriere.

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«It’s not music these guys played… Decals is not human music[…]» Scriveva in una entusiasta recensione di “Lick My Decals Off, Baby” Phil Mac Neill nel 1971. L’album uscito nel Dicembre del 1970 per la zappiana Straight Records è il quinto lavoro di Captain Beefheart e della sua Magic Band, già leggenda vivente il Capitano è additato senza mezze misure dalla critica sia come genio sia come fenomeno da baraccone, oppure in maniera più modesta come uno dei tanti “freak” di una stagione musicale decisamente psichedelica. La verità è che Beefheart nel 1969 aveva intaccato indissolubilmente la storia del rock con il suo quarto album in studio: “Trout Mask Replica”, uno dei maggiori e più originali omaggi al delta blues, rivisitato e decostruito in un modo più razionale di quanto possa suggerire lo sghembo attacco di Frownland. “Lick My Decals Off, Baby” è la realizzazione finale dei propositi artistici del musicista californiano, ovvero un totale estraniamento dei musicisti dalla musica che stanno suonando, un vero e proprio flusso di coscienza che parte da Beefheart stesso e arriva all’ascoltatore senza filtri di sorta, costruendo un discorso musicale che, nella sua ecletticità, riesce ad essere solido e coerente dal primo contatto della puntina sul 33 giri fino agli scricchiolii finali. Ci sono arrivati svariati racconti sugli eventi che susseguirono la produzione di questo capolavoro del rock sperimentale, quello più citato vede Beefheart come una specie di martire nei confronti della sua Magic Band i quali premevano per produrre finalmente un album più fruibile, e magari più vendibile. La verità è che fu proprio il Capitano a spingere verso una viscerale commercializzazione della sua musica, nella speranza di venir riconosciuto universalmente come un prodigio della sua generazione musicale, come l’amico/nemico di gioventù Frank Zappa.

Il temperamento del Capitano lo porterà a fare dichiarazioni contraddittorie sugli album che dal 1972 caratterizzeranno la sua rinascita come autore di musica pop, passando da «inascoltabili» a «capolavori» nell’arco di due o tre interviste.
Clear Spot” è il secondo album confezionato per la Reprise (storica etichetta fondata da Frank Sinatra che aveva da poco assorbito la Straight di Zappa), ed è anche l’ultimo guaito del Capitano prima della svolta. Un tentativo non molto onesto di commercializzazione che passa prima di tutto da una nuova line-up, con Milt Holland accanto a Art Tripp (aka Ed Marimba) alle percussioni (già presente in “Lick My Decals Off, Baby”) e Roy Estrada al basso, questi ultimi due strappati al feudo zappiano.

Ma come dicevamo non è di certo “Clear Spot” la vera débâcle, quella arriverà con “The Spotlight Kid”, uscito qualche mese prima sempre per la Reprise. Sebbene il tiro boogie che apre l’album possa far discutere sul solito efficacissimo dialogo tra la slide di Zoot Horn Rollo e Rockette Morton (I’m Gonna Booglarize You Baby), a regnare in tutto Spotlight è la noia e la prevedibilità, dove gli unici acuti sono derivati dai guizzi vocali di Beefheart, rigurgiti dal delta del Mississippi che però non bastano a rialzare l’album e a renderlo sufficiente. Incapace di interpretare la musica commerciale Don Van Vliet la banalizza, credendo che sia tutto un discorso di semplificazione, non riuscendo a costruire un discorso melodico orecchiabile o anche solo un riff micidiale, come se il solo aver agevolato la vita ai suoi musicisti fosse un lasciapassare per le vendite. Pezzi come When It Blows Its Stacks non sarebbero mai riusciti a scalfire una classifica che vedeva capeggiare album come “Catch Bull at Four” di Cat Stevens, “Bare Trees” dei Fleetwood Mac, senza contare Bowie, T-Rex e (urgh!) Neil Diamond. Manca il dinamismo delle produzioni precedenti, ogni pezzo sembra rallentato e suonato svogliatamente, Beefheart dimentica volontariamente per strada tutti gli elementi che rendevano il suo approccio musicale così interessante mettendo in difficoltà anche la band che non si sentivano ripagati dei loro sforzi nelle estenuanti sessioni negli album precedenti.

La musica commerciale stava andando su altre direzioni, una maggiore pulizia del suono caratterizzava ogni produzione delle major, il prog inglese aveva creato uno standard qualitativo molto alto dal punto di vista produttivo, il folk de-politicizzato incantava le platee di tutto il mondo, ma Beefheart testardo come un rinoceronte continua la sua corsa, pensando che ad uno come lui sarebbe bastato poco o niente per creare un prodotto della stessa fattura di un Neil Diamond qualsiasi.

Ormai in pianta stabile in UK il Capitano si affida al produttore Andy Martino e alla Mercury Records di Chicago che vogliono trasformarlo in un cantautore di ballads melense. Il primo album di questa trasformazione epocale è “Unconditionally Guaranteed” del 1974, distribuito nel Regno Unito dalla Virgin, la formazione della Magic Band perde Roy Estrada e vede Zoot Horn Rollo passare al basso con il ritorno di Alex St. Clair alla chitarra, ma a dare quell’atmosfera di ballate tragicomiche ci pensano Del Simmons al sax, Mark Marcellino alle tastiere e lo stesso Andy Martino che per l’occasione si destreggerà con la chitarra acustica, dipingendo note smielate piene di profonda e imbarazzante inadeguatezza. Upon the My-Oh-My è teoricamente il pezzo che dovrebbe scalare le classifiche, ma sebbene sia esaustivo nel dare una chiave di lettura sulla scabrosa idea compositiva dietro questo album, risulta ancora più sgradevole sentire il proseguo, in cui anche la voce del Capitano viene addomesticata all’inverosimile. Le ballate oltre ad essere incredibilmente convenzionali sembrano anche lentissime, This is the Day non dura 5 minuti ma nella mia testa sono almeno 20, credo che Henri Bergson si sarebbe divertito da matti con questo album. Gli accenni bluesati fanno solo male al cuore, come la slide in New Electric Ride, buttata lì senza un briciolo di decenza. Sembra davvero impossibile che il Capitano si sia ridotto a cantare robe degne del peggior James Taylor (Full Moon, Hot Sun) eppure è tutto lì, inciso su plastica nera.

L’album non decolla, anzi: frana in tutti i sensi, alla Mercury si rendono tutti subito conto che questo freak baffutto è sostenuto solo da un manipolo di aficionados, e decidono di lasciarlo arenare fino alla fine del contratto che prevedeva solo un altro album. Sull’onda dell’indignazione Zoot Horn Rollo, Art Tripp e Rockette Morton lasciano la Magic Band per andare a formare i Mallard col supporto per la produzione di Ian Anderson, una delle peggiori formazioni rock di tutti i tempi, dalla tecnica sopraffina asservita a composizioni banali e terribilmente masturbatorie. Beefheart ovviamente s’incazzò come una scimmia, additando i suoi ex-compagni con tutti i peggiori appellativi che un paroliere come lui poteva trovare, anche se la miglior risposta fu di Art Tripp, appellando Beefheart come «The old fart», citando così i fasti di “Trout Mask Replica”, ormai chiaramente obliati dal loro vecchio mentore.

Su queste premesse nasce sempre nel 1974 “Bluejeans & Moonbeams”, un tentativo quantomeno ridicolo di tornare a forme più blues e meno folkeggianti, ma siamo lontani anni luce anche da un modesto “Clear Spot”. Ira Ingber al basso co-firma gran parte delle composizioni col Capitano, c’è spazio anche per suo fratello Elliot, già chitarrista per Moondog, Frank Zappa e Canned Heat, e presente ai tempi di “The Spotlight Kid”. Devo ammettere che sulla line-up di questo album faccio sempre un gran casino, comunque sia, per ci fosse o no, è un album di mestiere, e nemmeno di gran mestiere. Basta ascoltarsi una Twist Ah Luck per capire che siamo di fronte ad un punto zero della creatività, gli accenni blues sono ancora più dolorosi, ma non in senso espressivo (Captain’s Holiday).  L’insuccesso e l’impossibilità di rinnovare il contratto con la Mercury porteranno Beefheart ad auto-isolarsi in un camper nel deserto del Mojave.

Dopo quattro anni di isolamento e pittura (Don Van Vliet è considerato uno dei migliori esempi di post-informale negli Stati Uniti) Beefheart tornerà con un album stratosferico e geniale, “Shiny Beast (Bat Chain Puller)”, abbandonata ormai ogni velleità commerciale (a parte per Harry Irene) il Capitano è tornato a fare quello che sa fare meglio, ma questa è un’altra storia.

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Spostiamoci nel 1982, anno di pubblicazione di “Song of the Bailing Man”, l’ultima prova dei Pere Ubu prima del loro primo scioglimento. In confronto al precedente “The Art of Walking” vediamo Anton Fier sostituire il grande Scott Krauss alla batteria, Mayo Thompson riconfermato dopo aver sostituito Tom Herman nel 1980, Tony Maimone al basso e Allen Ravenstine ai suoi synth. David Thomas come sempre istrione e grande Padre Ubu anche in sala registrazione, ancora più teatrale del solito con i suoni di Ravenstine messi in secondo piano dopo esser stati protagonisti quasi assoluti dei momenti più paranoici di “Dub Housing”, “Modern Dance” e “The Art of Walking”, la sezione ritmica furiosa e a tratti esageratamente virtuosa. In breve, il solito grande album per la band, che sperimenta e fa avanguardia a sé, mente il post-punk di sponda inglese si era già venduto quasi in blocco alle classifiche.

Il ritorno dei Pere Ubu, dopo le magnifiche divagazioni soliste di Thomas di cui non oggi non parleremo, è targato Marzo del 1988, dopo una difficile ricucitura tra Thomas e i membri storici. A Ravenstine, Maimone e Krauss si uniscono Jim Jones alla chitarra (già membro di molte formazioni rock underground tra cui gli Electric Eels di John Morton), alla batteria accanto a Krauss addirittura il leggendario Chris Cutler degli Henry Cow (già batterista aggiunto anche nei Gong e nei Residents) e lo sperimentatore John Kirkpatrick con il suo Melodeon (variante della fisarmonica). L’album uscito per la Fontana Records è “The Tenement Year”. Piuttosto diverso dalle produzioni precedenti degli Ubu, sopratutto per l’influenze musicali accumulate da Thomas nel suo periodo solista, un album eccentrico ma non anarchico, che riesce ad alternare momenti più rilassati a grandi intuizioni (come nella eclettica Busman’s Honeymoon o nella sguaiata George Had a Hat), senza dimenticare un Ravenstine in grande spolvero.  L’unico problema per Thomas è che sebbene la critica continuasse ad acclamarli le vendite non sembravano proporzionate a quelle entusiastiche recensioni.

Tolto momentaneamente Kirkpatrick ed inserito nella formazione Stephen Hague, produttore di grandi successi pop e tastierista, Thomas cerca di dare ai Pere Ubu una nuova forma, in linea con una musica più accessibile e melodica. Al contrario di Beefheart per David Thomas la musica commerciale non è soltanto banalizzazione di archetipi musicali, ma parte di un processo di espurgazione dai suoi peccati punk (è un periodo complesso per il cantante da Cleveland, anche spiritualmente).

Arriva così nel 1989 “Cloudland”, un album decisamente pop. L’approccio della band è quello di rielaborare gli stimoli per loro più interessanti nella musica commerciale a loro contemporanea (Police e Talking Heads in primis), riuscendo al tempo stesso a mantenere un certo dinamismo ed un tiro non indifferente. Non è un caso se un loro singolo, Waiting for Mary, sbanchi addirittura su Billboard arrivando al numero 6! Sebbene qualche rigurgito post-punk qua e là (Pushin, Flat e in parte anche The Wire) l’album risulta compatto, capace di tirare fuori melodie piacevoli e proponendo la voce unica e irriproducibile di Thomas in una veste non più nevrotica e instabile, ma dolcemente intima ed emozionante.

Siamo molto lontani come esiti artistici da qualsiasi album precedente dei Pere Ubu, si sta parlando esclusivamente di forma e nessuna sostanza, ma con grande umiltà e intelligenza Thomas capisce che il loro approccio non può essere supponente, tipo da super-star dell’underground che si “abbassa” per ragioni commerciali, ma bensì quello dell’addentrarsi in una nuova esperienza, «Put yourself in our shoes, for us going to expensive studios and doing lots of remixes was an experiment in itself.» E così i Pere Ubu sperimentano su nuove forme, e dopo il proto-punk, il post-punk, il rockabilly e il jazz ecco il pop da classifica, distorcendolo e reinterpretandolo su una nuova prospettiva, che dava decisamente il meglio di sé quando Thomas diventava un atipico crooner dal carisma indiscutibilmente magnetico.

Ripetersi però diventa difficile per la band, la nuova formazione fissa vede il grande Eric Drew Feldman (Snakefinger, Pixies e presente anche negli tre ultimi album della rinascita artistica di Captain Beefheart) sostituire Ravenstine, il quale farà solo qualche comparsata, e vede anche l’addio di Cutler, in compenso compare sporadicamente John Kirkpatrick. Esce nel 1991 sempre per la californiana Fontana Records, prodotto da Gil Norton (che aveva già confezionato “Doolittle” e “Bossanova” dei Pixies), l’album si chiama “World In Collision” ed è certamente il più grande sforzo pop della band.

Va detto che stavolta a parte l’eccezionale vena melodica di Oh Catherine, e forse Life of Riley, l’album appare più modesto del precedente, sebbene Oh Catherine riscontri un buon successo (non paragonabile a quello di Waiting for Mary, ma sufficiente per finire in tarda serata da David Letterman) non basta a lanciare l’album in classifica. Nonostante la band mantenga quella dignità che Beefheart aveva decisamente perso al suo secondo tentativo commerciale, non riesce più a trovare quella chiave di volta che li aveva visti vicini al successo mondiale.

Perso anche Eric Drew Feldman i Pere Ubu restano in quattro con l’aggiunta quasi inconsistente di Al Clay. Story of my Life” esce nel 1993, un album che alterna riff fastidiosi a composizioni che, per dirla buona, risultano quasi sempre banali. Thomas cerca di ridare un sound più “rock” alla band, forse vedendo il successo di complessi come gli U2, ma il risultato è tremendamente posticcio (tanto che Maimone lascerà la band subito dopo l’uscita dell’album). L’aspetto peggiore di questo disco è che si sente la mancanza di Thomas, sommerso da una melma sonora incoerente e con accenni epici decisamente fuori fuoco.

Dal 1993 i Pere Ubu ritorneranno più volte, cercando di riprendere la vena creativa di un tempo, ma senza mai riuscirci pienamente, azzeccando giusto due o al massimo tre pezzi in ogni album. Al contrario quindi del nostro Capitano i Pere Ubu non riescono a rinascere dalle ceneri con un album epocale, come mai?

Probabilmente proprio per l’approccio di Thomas di fronte alla musica così-detta commerciale da sperimentatore, proseguendo quella ricerca musicale che cominciava dai suoi Rocket from the Tombs fino ai primi album dei Pere Ubu, quegli album commerciali ne erano una diretta conseguenza e non una deriva. Per Beefheart invece c’era una profonda divisione concettuale tra un “The Spotlight Kid” e “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” come pure per gli album successivi, ovvero “Doc at the Radar Station” e “Ice Cream for Crow”, per l’artista californiano una volta accantonato il discorso commerciale si poteva ricominciare da dove si era lasciato, come se nulla fosse.

Lasciare l’underground per sposare una musica più fruibile e potenzialmente vendibile non è una cosa semplice, e di certo non è priva di conseguenze. Sicuramente c’è una voragine artistica tra i Pink Floyd di Barrett e quelli Waters, ma la musica in generale non è solo necessità artistica, è anche competenza tecnica e la capacità di comunicare semplicemente tramite una grammatica fluida e intangibile, si possono criticare anche ferocemente fenomeni come il brit-pop, gli U2 o i Foo Fighters dal punto di vista della proposta artistica, ma non bisogna mai dimenticarci che c’è anche un contesto più ampio dove la melodica orecchiabile, il riff tamarrissimo e la voce virile e potente non sono elementi che da sé fanno un successo commerciale, ma hanno bisogno di tanto studio e dedizione. Ciò non toglie che il miglior album degli U2 non vale una scoreggia travestita di David Thomas.

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Per alcuni appunti biografici e curiosità ho spulciato questi due bei librini che vi consiglio vivamente:

  • Luca Ferrari, “Captain Beefheart – Pearls before swine Ice cream for crows”, Sonic Book, 1996
  • Duca Lamberti, “Pere Ubu, David Thomas – The geography of sound in the magnetic age”, Sonic Book, 2003

Bidons, Mirrorism, For Food

Finalmente ho trovato un po’ di tempo per annoiarvi con le solite recensioni MA stavolta si cambia aria! E basta con ‘ste cazzo di band californiane, e che siamo una colonia americana? Ah, “sì” dite?

RECENSIONI DI BAND ITALIANE come avete più e più volte richiesto per mail e su Facebook maldetti stalker bastardi schifosi luridi «Oh, finalmente le recensioni di Tab_Ularasa, VAIRUS e La Piramide Di Sangue che ti chiediamo da secoli!» ehm, in realtà non proprio eh. Però quasi, come cantava Freak Antoni.

La Salerno garage dei Bidons

Un minuto di silenzio per il nome della band.
Proseguiamo.

Come indica in maniera vistosa il loro logo su Bandcamp i Bidons suonano un “garage per le masse”, una musica democratica e fiera della sua immediatezza, come ci hanno insegnato papà Bangs e mamma Sonics. I ritmi del loro primo album del 2012 “Granma Killer!!!” sono però deliziosamente rock and roll più che punk-garage (vedasi il pezzo 2009) con venature power pop ma senza l’egemonia della chitarra a tutti i costi, sono persino ballabili i bastardi!

Per cui è ovvio, come i più intransigenti di voi avranno subito capito, che qui siamo su una sponda più catchy del garage, compiacente e divertente, il che di per se non dev’essere un male a prescindere però è chiaro che se preferite suoni abrasivi e gli sputi in faccia i Bidons non fanno per voi (come anche la società civile, ma questo è un altro discorso).

Due cover eccellenti, Be A Caveman degli Avengers e Night Time dei Strangeloves, gli ululati alla Cramps di Wolves of Saint August, un album che si mastica bene e si dimentica altrettanto facilmente… Avrebbero anche i numeri questi quattro salernitani, ma manca il singolone spaccadenti, l’ariete d’assedio, la HIT insomma. Ci provarono subito l’anno dopo col singolo Raw, Naked & Wind, misto di White Stripes e sixties ben congegnato, apripista per il loro secondo album: “Back To The Roost”.

Si alza il volume stavolta, meno rock and roll e più furia Nuggets, leggermente più vintage ma non lo-fi e con una title-track memorabile. Meno paraculi dei Double Cheese ma altrettanto bravi nel combinare riff, assoli brevi ma cazzuti e ritmi forsennati. Non sono proprio la band per cui vado pazzo di solito, però come spinge (Shout it out) Burn Down! e come galvanizza il riff di I don’t mind!

Insomma: di sicuro il loro lavoro migliore, sopratutto alla luce dell’ultimo album “Clamarama”.

Non voglio partire prevenuto quando recensisco un album, mai, però già dopo aver ascoltato il pezzo d’apertura, Do it alone, mi è scesa parecchio la scimmia che si era arrampicata faticosamente nel 2013 per “Back To The Roost”. Più power pop che garage, assoli da masturbazione seriale, riff troppo troppo troppo orecchiabili, cazzo è come spararsi nelle orecchie un misto di Bass Drum of Death-Jet-Double Cheese tutto patinato e ripulito fino all’inverosimile.

Dal punto di vista compositivo probabilmente siamo di fronte al loro album più riuscito, se sparato a tutto volume dalle casse sembra inciampare clamorosamente con i suoi stessi cliché ma senza auto-ironia. Probabilmente a quelli di voi che preferiscono gli Smithereens agli Oblivians questo album provocherà orgasmi multipli da qualsiasi orifizio, perché i Bidons ci sanno fare eccome. Personalmente ho faticato non poco ad arrivare alla fine dell’album.

Passiamo alla roba seria, passiamo alla scena Ferrarese.

Captain Beefheart è sceso a Ferrara: ovvero come i Mirrorism mi hanno spappolato il cervello

Io la prima demo dei Mirrorism non so dove cazzo cercarla. Probabilmente dovrei contattare la band, ma tra tutti i contrattempi della vita mia non ho mai trovato lo spunto per decidermi e rompergli il cazzo, così la roba più vecchia che ho trovato è del 2012, un EP titolato “Fly Eye”.

E nulla, già dopo S.P.O.W. ho dovuto spararmi una sega per svuotare tutta l’emozione che mi si era accumulata nelle palle. Post-punk? Un po’, per nulla nostalgico dei tempi che furono, ma che ne riprende le cose migliori, i ritmi sghembi, le chitarre inquietanti, la voce che passa dalla narrazione alle urla più agghiaccianti, sicuramente caratterizzato da una attitudine tutta loro. Sembra che i titoli stampati nella musicassetta fossero pure sbagliati e questo gli vale cinque punti in più a bocce ferme.

Night Flight mi ricorda i cambi repentini e la frenesia di alcuni pezzi degli australiani Total Control ma l’aggiunta del sax (per nulla Morphine ma mooolto beefheartiano) è un tocco di classe ineguagliabile, bellissime anche la lenta Slow Homo, la punkettona Exit The Loop e Anti Bodies.

È come trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo, come quando ascoltai per la prima volta i VAIRUS «Ma allora è possibile fare della merda di qualità pure in Italia!»

Sarà addirittura la Trouble In Mind a produrgli il 7’’ con Night Flight e Exit The Loop nel 2013. Ovviamente sarà un successo nazionale ed internazionale, li avrete sicuramente visti a Sanremo, a Lollapalooza, agli Oscar e dal Papa vestiti da chierichetti.

E poi, due anni fa e due giorni dopo il mio compleanno, arriva il regalo più bello: “Mirrorism”, la loro consacrazione, il loro primo vero album, caricato free su Bandcamp. E in concomitanza la notizia del loro scioglimento. MAPORCODIO.

Amici: possiamo urlare al capolavoro e non vergognarci. Cazzo bisogna dire di un album così? Infiltrazioni psichedeliche deliranti, un theremin mai così psicotico prima, ogni cristo di pezzo sembra partorito in un momento di lucida creatività mai più raggiungibile, come se in quel preciso momento le sfere celestiali e le loro palle si fossero congiunte su una linea retta cosmica, anche se non lesinano coi rumori/suoni e le distorsioni sembra tutto estremamente controllato e calibrato.

Solo White Jam se magna a colazione gran parte della produzione australiana e californiana contemporanea, se poi vai avanti è sconcertante la facilità con cui le idee scorrono fluide e sempre brillanti, fino alla deflagrazione finale: quei sette minuti e ghianda di Loose End che da due anni a questa parte il mio pezzo rock italiano preferito in assoluto.

Compratelo se potete, in digitale of course, ed amatelo fisicamente.

E dopo tutti ma prima di tutti: i For Food

Prima o poi anche di loro bisognava parlare.

Probabilmente preceduto da qualche EP che mi sono perso, i For Food hanno all’attivo un solo album uscito nel 2014 e composto da sette pezzi che provocano uno spaesamento totale. Agghiacciante ed estetica in modo malato la prima vera traccia, Love, Sex & Drugs, ci colpisce subito per una cifra stilistica unica e destabilizzante, qua mettersi a fare troppi discorsi attorno al genere diventa pericoloso ma purtroppo necessario.

Categorizzare in musica, in particolare negli studi musicologici più che nella critica la quale etichetta a caso un po’ tutto, serve a collocare nel tempo e nello spazio un dato fenomeno musicale e di solito aiuta a comprenderne tutte le unicità. Però con i For Food è davvero un macello. Insomma, con i Mirrorism l’etichetta post-punk gliela affibbi e per quanto gli possa stare stretta se la tengono e non devono rompere il cazzo, ma con i quest’altri ferraresi c’è da bruciarsi le sinapsi.

Cos’è una City Light? Io un nome l’avrei: capolavoro, di nuovo, ma non ci aiuta. Ci sono rimembranze delle sperimentazioni post punk e ovviamente art rock, ma addirittura possiamo cogliere echi di trip-hop e psichedelia che non riesce a scadere mai nel revival. Psichedelia Occulta forse? Mmm, non direi, siamo troppo lontani dalle influenze jazz degli Squadra Omega o da un certo misticismo misto a tribalismo di altre band, come anche dal prog di In Zaire, questi son di Ferrara mica di Torino!

È davvero un unicum questo “Don’t Believe In Time” e non soltanto per il nostro paese.

Giocano i For Food, ma sempre rimanendo fottutissimamente seri. Ci disorientano, ci buttano in un altro spazio e in un nuovo tempo, la melodia non solo c’è ma è l’elemento fondante di tutti i pezzi, anche se poi quasi la si dimentica nell’avvolgente tempesta sonora, mai satura però come nei complessi garage-sperimentali tipo i teramani Inutili.

L’attacco di Opium New Year potrebbe benissimo essere quello di una band indie rock americana per poi concludere con un riff genuinamente punk e la bellissima voce di (credo, perché non ho trovato moltissime informazioni) Agnese “Aggie Rye”, che spazia da Beth Gibbons a Exene Cervenka passando per Grace Slick come se nulla fosse, incantandomi ogni volta.

Punta di diamante la conclusiva La Petit Mort, un po’ Doors un po’ Jefferson Airplane nei primi istanti, per poi perdersi finalmente saturando, un vero e proprio orgasmo finora ritardato e che esplode su chitarre dapprima orientaleggianti poi shoegaze.

Un album di cui non dobbiamo sottovalutare l’influenza non solo sulla scena Ferrarese (che comunque li venera, giustamente) ma su tutto l’underground italiano.

Beh, che dire gente, questo è tutto, tornate pure a fare quello che stavate facendo. Alla prossima.

Captain Beefheart & The Magic Band – Lick My Decals Off, Baby

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«Madò, anche oggi non c’ho voglia di scrivere…»
«Ma che cazzo l’hai aperto a fare il blog, scusa?»
«Io volevo solo scrivere di quanto fosse figo Metal Machine Music e di quanto facesse cagare Bananas, però la cosa m’è sfuggita di mano.»
«Ma non ce l’hai una nuova band garage fresca fresca? Non hai ascoltato un tubo ultimamente?»
«Eh no, ho ascoltato parecchio, ma il 99% della roba è puro revival del cazzo, col riffino surf rock, la melodia canticchiabile sotto l’ombrellone, la chitarra distorta…»
«Allora fai un album non contemporaneo, che ne so, tipo Blanck Generation (che avevi promesso a gennaio 2013!), il primo dei Dead Boys, o qualcosa di più astruso, tipo i Cromagnon o i Godz! Quanto so fighi i Godz?»
«Potrei fare Lick My Decals Off, Baby
«E che cazzo è?»
«Hai le traveggole? Il quarto di Beefheart.»
«Aaaaah.»
«”Aaaaah” che?»
«No, dico, bello eh, quello dopo Trout Mask Replica, giusto? Molto simile, una specie di continuazione.»
«Ma l’hai mai ascoltato?»
«E che, no? Un capolavoro.»
«Qual’è il primo pezzo?»
«Come scusa? Vuoi andare a Cortina d’Ampezzo?»
«Il primo pezzo dell’album, qual’è?»
«Eeeeh, boh, l’ho ascoltato UN SACCO DI TEMPO FA, credo fosse… eh, insomma, The Host, The Ghost, The…»
«Se vabbè, ma quello è il secondo di Ice Cream for Crow!»
«Ah, unnè di Safe As Milk?»

Sì, perché “Lick My Decals Off, Baby” soffre di questa sindrome del “Trout Mask Replica 2 – la Vendetta” senza alcun motivo, ma che ne determina spesso la superficialità d’ascolto.

Perché fa tanto figo raccontare a giro che Captain Beefheart te lo rizza fino in cielo, ma poi c’hai a casa la discografia dei Nazareth quasi consumata dall’ascolto, e un “Safe As Milk” intatto in mezzo ai 33 dei Matia Bazar di tua madre.

Non è che sia un male se non ti piace Captain Beefheart, non hai peccato né verrai giustiziato, né tantomeno giudicato (se non dagli stronzi), però è cento volte peggio fare il fanboy del Capitano e poi conoscere a mala pena TMR e piuttosto bene l’esordio blues.

“Lick My Decals Off, Baby”, che d’ora in poi chiameremo LMDOB, è uno degli album rock più devastanti che avrete mai il piacere di ascoltare, un album che, occorre sfatare il mito, non è un proseguo di TMR, se non nella sconsiderata distruzione di ritmo, melodia, tonalità e qualsivoglia regola nel blues rock. LMDOB è molto più maturo, più compatto se vogliamo.

TMR è follia dadaista, una sorta di devastazione che poi ha generato le esperienze più travolgenti del rock (molta new wave deve tutto a quest’album, e non solo), uno sconvolgimento del blues, al quale si toglie la struttura ossea ma si mantengono intatte le budella.

In LMDOB Beefheart si fa più “serio” se vogliamo. Con l’uscita dalla Magic Band di Mascara Snake (clarinettista) e Doug Moon (chitarrista) si serrano le fila, e il sound è meno apocalittico e più uniforme, come un flusso di coscienza. Basta ascoltare il caos controllato di Bellerin’ Plain per rendersi conto di quanto rigido fosse Beefheart, e di quanto controllo ci fosse dietro la maschera dell’improvvisazione, un concetto lontanissimo dall’estetica beefheartiana.

Se in TMR era John French (detto Drumbo, il leggendario batterista) a mantenere stabile il castello di carte compositivo del Capitano, qua non c’è più bisogno di espedienti, libero dalla presenza di Zappa Beefheart doma la sua Magic Band come un vero direttore d’orchestra, e il sogno di un album senza strumenti protagonisti si realizza nei primi mesi del 1970.

Scompaiono i dialoghi tra chitarre da una cassa all’altra, scompaiono gli intermezzi parlati, e nemmeno Beefheart è protagonista, è forse l’album rock più musicale che ci sia, dove per musica s’intende una serie di musicisti del tutto asserviti a costruire qualcosa che non abbia NIENTE di loro.

Forse è difficile da afferrare per un neofita del Capitano, ma lo scopo di Beefheart era di estraniare il musicista dalla musica che stava suonando, per avere lui e lui soltanto il controllo totale di ogni nota. E difatti in quest’ottica vanno viste tutte quelle puttanate sulla telepatia che Beefheart rifilava ad ogni intervista dell’epoca, questa forma di comunicazione tra lui e i musicisti che non avesse bisogno della parola, un vero e proprio flusso di coscienza musicale.

Ogni pezzo di LMDOB si può virtualmente scomporre, ed ogni suo aspetto risulterà inevitabilmente affascinante e innovativo. Il ritmo, l’armonia, la sua evoluzione, la voce. Ci sono solo due pezzi totalmente rilegati alla chitarra acustica, Peon e One Red Rose That I Mean, i quali riportano coi piedi per terra l’ascoltatore, gli unici intermezzi concessi nel fluire incessante delle idee più strampalate.

In compenso a quanto può sembrare leggendo questa recensione, quello che colpisce maggiormente di questo quarto album del Capitano è la disciplina, come detto prima questa “compattezza” che in TMR era solo un’ideale qui diventa pratica. Ed è forse in questo che è minore, ma non di tanto, all’album precedente.

Per quanto il blues distorto di The Smithsonian Institute Blues (Or the Big Dig) sia alla pari con quello di Moonlight On Vermont dal punto di vista compositivo, cioè nella devastazione delle regole di base, manca l’energia prorompente e volutamente provocatoria di TMR. Ciò non toglie, sia ben chiaro, che sia un pezzo della Madonna.

Infatti in confronto all’epocale album che lo precede, LMDOB guadagna parecchio in termini di piacere all’ascolto, perché la Magic Band è in forma smagliante, e i pezzi sono TUTTI dei capolavori. Frenetica, assurda e delirante Lick My Decals Off, Baby, il pezzo che dà il nome all’album e che apre le danze come un’esplosione caleidoscopica, dando la sensazione che l’album non avrà un secondo di pausa.

Lo conferma il piglio storto di Doctor Dark, i testi di Beefheart dadaisti come al solito non vogliono evocare (come farà poche volte in carriera effettivamente, forse in Neon Meate Dream of a Octafish, sicuramente con Zappa nel testo di The Torture Never Stops) ma solo calpestare ogni barlume di buon senso, di melodia e di piacevolezza. Col cazzo che lo fischietti sotto la doccia il “motivetto” di Doctor Dark.

Già di tutto un altro pianeta è I Love You, You Big Dummy, col sassofono acido del Capitano che anticipa un dialogo classico negli album successivi (quello chitarra-sassofono che manterrà nel proseguo più commerciale degli album che seguirono LMDOB), una versione più coraggiosa di Frank Zappa, che due mesi prima aveva pubblicato “Hot Rats”, grande album, reso tale anche dalla voce del solito Capitano in Willie The Pimp, e che comunque non vale il Lato A di LMDOB.

Tra i pezzi che mi piacciono di più c’è sicuramente Woe-Is-Uh-Me-Bop, la perfetta presa in giro del rock soul da radio, del tutto destrutturato se non per il ritornello alla Sam & Dave gracchiato da Howlin’ Beefheart Wolf. Comunque si fa fatica ad non amarlo questo album, persino l’ormai odiato Zappa viene decostruito in I Wanna Find A Woman That’ll Hold My Big Till I Have to Go, a questo punto Beefheart non ha più punti di riferimento se non se stesso (c’è più Albert Ayler e Eric Dolphy che Delta Blues in questo album!).

Mi viene in mente adesso (cristo, che recensore professionista che sono!) l’attacco di The Buggy Boogie Woogie, perfetto, senza stranezze, e poi la voce del Capitano che distrugge la fragile melodia faticosamente conquistata a metà del Lato B. Il contrario di quanto fatto per esempio in Woe-Is-Uh-Me-Bop.

Insomma,  “Lick My Decals Off, Baby” non è “Trout Mask Replica”, forse non è bello altrettanto, ma è comunque un album nel quale l’unico difetto evidente è che, ineluttabilmente, finisce.