Etichetta: Domino
Paese: UK
Anno: 2022
Archivi tag: chook race
Bo Loserr – Activation
Etichetta: Bubca Records Paese: Italia Pubblicazione: 1 Ottobbre 2017
Ho già dovuto mettere il piumone. Avrei una voglia matta di whiskey e sono solo le 9:21 del mattino. Non ho un lavoro, ma quasi, quel quasi che un giorno è euforia e quello dopo paranoia. Tutti ottimi motivi per ascoltarsi dalla mattina alla sera le cinque tracce di “Activation” di Bo Loserr.
Qualche mese fa, colpito da un delirio ormonale, ho presentato alla radio ShitKid, una tipaccia svedese dalle sonorità garagiste-vaporwave, ma quello che forse stavo cercando non era il caldo abbraccio della nostalgia ma il freddo e asettico gusto di una drum machine. Bo Loserr ha una faccia da schiaffi, a vederlo sembra un ragazzino della suburba in fissa con King Krule senza alcuna voglia di alzarsi dal divano, eppure stranamente la sua musica racconta tutt’altro, senza che per questo mi faccia cagare. Anzi.
Il ritmo e il timbro quasi chiptune di Dads mi colse del tutto impreparato la prima volta che la ascoltai, dato che conoscendo l’etichetta pensavo fosse il solito punkettone sfatto in salsa garage. Le uscite della Bubca Records, volutamente fuori da ogni logica di ricerca intellettuale, sono sempre dannatamente intelligenti. Le stesse sensazioni di congelamento e paralisi adolescenziale (tipiche ormai fino ai 30 anni abbondanti) che caratterizzano una gemma del pop australiano come “Around the House” dei Chook Race, in questo breviario di Bo Loserr, che adesso scorre di sottofondo mentre scrivo, vengono esposte con una immediatezza che fa male.
«Everything feel alright without you.» Litiga col patrigno Bo Loserr, che lo sfida senza pudore: «You are a tough guy, ah? C’mon, show me how tough!» La musica si spezza, si apre un varco che Bo Loserr sa di non riuscire a descrivere tramite una composizione, ma vuole comunque mantenere quell’urgenza nel modo più chiaro e puntuale possibile. E così ci ritroviamo ad ascoltare uno pseudo-estratto da una lite, immerso nel rumore più sterile che abbiate mai sentito.
Registrato male, senza soluzione di continuità da un pezzo all’altro, questo strano EP sembra uscito fuori da una qualche oscura collezione in chissà quale cantina.
Dopo qualche giorno di ascolto serrato mi sparo anche un video, montato da quel bastardo di Tab_Ularasa (il testone dietro la Bubca Records e tanti altri progetti di cui abbiamo largamente discusso QUI), e non sono rimasto per nulla sorpreso che il pezzo scelto fosse proprio quell’Activation che dà il nome all’EP e da cui ho preso le citazioni sopra.
Il video è un ri-montaggio di un vecchio documentario della RAI ripescato da una VHS, probabilmente sull’antico Egitto o sugli scarabei. Tab seleziona alcune scene di vita di uno Scarabaeus sacer, l’insetto coprofago tanto caro agli antichi egizi, presentato nella sua banale quotidianità, dove si lotta tutti i giorni per un la propria merda, portandosela a giro e cumulandone sempre di più. Insomma, quella vecchia volpe di Tab vuole spingere proprio su questa interpretazione di Activation, sull’accumulo. Quello che ci definisce è anche tutta la merda che ci portiamo dietro senza però spargerla a giro, il carico di bagagli emotivi fatto però di odio, risentimento, litigi, sconforto. Verso la fine il video sembra che abbia le convulsioni, i micro movimenti avanti-indietro dell’ambiente denunciano una febbre sopita, un’energia nascosta, un sole imprigionato.
L’alcolismo adolescenziale, la funzione catartica della musica rock, il rifiuto della figura paterna: Bo Loserr ben lungi dal voler essere il cantore di una generazione, descrive il suo mondo, la sua piccola realtà, la sua microscopica fotografia di un atomo e degli elettroni che di girano attorno, con il piglio di uno che si alza tutte le mattine scavando.
Podcast – Il new garage oltre gli USA!
Oltre il new garage di Ty Segall e dei Thee Oh Sees c’è qualcosa? Dite la scena francese? Perché quella australiana no? E quella cyperpunk tedesca? E quella psych italiana? E quella weird-punk-sperimentale islandese? In questo episodio di Ubu Dance Party niente Coca-cola per i nostri radioascoltatori, ma i soliti schiaffi e ottima musica che ci compete.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Chook Race – Around the House
Etichetta: Tenth Court Paese: Australia Pubblicazione: 2 Settembre 2016
Ogni tanto mi va un po’ di pop. Ma con gusto.
Tutto quel pop con attitudine punk che dai The Gerbils arriva ai R.E.M.. Per attitudine punk non intendo rutto libero e birra scadente, né GG Allin, ma quel nichilismo adolescenziale dei Ramones che distorce il mondo in una enorme gara verso la felicità che tu, sì sì proprio TU, hai perso in partenza. Quello.
Per un punk così non c’è bisogno sempre di fare un gran casino, lo si può anche sussurrare ad un microfono mentre fuori nevica, svelando che sotto tutta quella furia c’è un mucchio di fragilità da nascondere.
In questo blog abbiamo parlato più o meno approfonditamente di Free cake for every creature, The Stevens, Quarterbacks, All Dogs, Baby Mollusk e forse di altri che ora non ricordo, tutte band accumunate da un modo di raccontare l’adolescenza con calma e riff alla The Bats, magari senza la forza prorompente della storica band neozelandese, ma armati di un po’ di pericolosissima timidezza.
Stavolta siamo sulle sponde australiane, e immagino che chiunque possegga la leggendaria raccolta “Do the Pop!” sappia bene che quando si parla di garage pop si parla all’80% di Australia. Nel 2013 era uscito “A History Of Hygiene” dei The Stevens, quasi un concept sull’adolescenza che gira attorno a tutti i problemi senza colpirne in pieno nemmeno uno, ma lasciando un senso di reale sconforto e confusione, tutte e due sensazioni decisamente adolescenziali, probabilmente una delle migliori espressioni del genere degli ultimi anni, anche se non mi aveva entusiasmato. Stavolta invece con “Around The House”, dei Chook Race, veniamo strattonati per una manica del pigiama, ci danno in mano una piccola lanterna elettrica e ci infiliamo con loro sotto le coperte, entriamo in quel circolo vizioso di «work, eat, sleep, repeat» tipico di un certo indie australiano, una dimensione dove l’età adulta sembra non arrivare mai.
Dopo un 7” pollici ancora ancorato ad un garage rumoroso nel 2012, i Chook Race rilasciano il loro primo album su Bandcamp nel 2015, finalmente definiti nella forma e nella sostanza. L’unico chiarissimo difetto di “About Time” è che tutto quello che viene abilmente descritto nelle liriche raramente è seguito da un garage pop orecchiabile, si sentono le potenzialità e l’album scorre bene, ma poche volte riesce a comunicare con urgenza quella fragilità di cui parlavamo poco fa.
Di queste potenzialità però se ne accorge la Tenth Court, piccola etichetta indipendente australiana, e così “Around the House” può uscire questo Settembre con una produzione più accorta, e persino una distribuzione internazionale grazie alla Trouble In Mind Records.
Deliziosa perla pop questo secondo lavoro dei Chook Race è diventato uno dei miei leitmotiv da mettere in auto durante le giornate più grigie, dove anche la separazione tra asfalto e cielo non è così definita.
La dolcezza sconfortante di Pink & Grey, dove le due voci di Robert Scott e Kaye Woodward si mescolano senza calore, gli scudi così effimeri di Eggshells, il riconoscere i nostri limiti in At Your Door o nella intima Sorry, si può ben dire che stavolta non è solo un lavoro di liriche, perché viene tutto accompagnato da delle progressioni di accordi davvero degne dei The Bats. Provate a sentire la veemenza quasi punk di una Pictures of You, calmierata da un suono spalmato nel brevissimo ritornello, sensazioni condensate su un vetro di una piccola cameretta in una casa in periferia.
Non c’è dubbio che tra le 10 tracce di “Around the House” abbiamo un vincitore dal punto di vista dell’equilibrio tra riff-liriche-adolescenza, perché Hard to Clean spacca i culi con la gentilezza del cantato sommesso (lei tremendamente simile a Katie Bennett dei Free cake for every creature), l’andamento quasi da punk anthem, ma sempre sotto le coperte. Segnalo anche Lost the Ghost, che sfoggia un riff garage pop anni ’80 che levati.
Non so se è una mia perversione ma mi piace QUESTO garage pop, non quello di band come i Wyatt Blair e i vari compagni di merenda al Burgerama Music Festival, troppo disimpegnato e ironico senza essere auto-ironico. Forse non è nemmeno un caso che riprendo in mano questi dischi quando inizia a far davvero freddo, alla fine è quasi una reazione psicologica, necessità di affrontare i miei/nostri circle jerk mentali senza urlarli ai quattro venti, ma guardandoli condensare il respiro su un vetro che dà sull’inverno.