In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.
Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:
non mi interessano,
notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.
Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?
Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.
Eeeee via con le danze!
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D’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)
[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda diDogma, ma vabbè, succede.]
Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’buna tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’bmade in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.
Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.
Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deathsper esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?
Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.
Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.
A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.
Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.
Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.
“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).
Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambientavant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).
Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.
Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)
Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.
Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).
Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exammescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.
L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.
Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsenseguardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.
L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.
Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.
Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.
Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).
La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.
Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.
Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.
Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.
A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.
Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.
Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthemgarage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteantspiù garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.
Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.
In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.
Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Partyè semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!
Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Springlo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.
Is there any shared creed, code, ideal or mantra that the band shares or lives by?
No fat chicks.
Vi piace il synth pop? Allora adorerete fino allo sfinimento gli Ausmuteants, pochi cazzi e fine della recensione.
No? Davvero? È che c’avrei da studiare per gli esami, da comprare le diciotto bottiglie di rosso per il poker di sabato e… e vabbè, prima il dovere poi la lussuria.
Direttamente dall’Australia (o almeno credo) gli Ausmuteants sono tra le quelle band che invece di guardare ai sixties si sta interessando agli eighties. Mentre i Dreamsalon riscoprono Pere Ubu e Fall, mentre i Corners si sfondano di Gun Club e synth punk, mentre i Nun risciacquano nel pop gli immortali Einstürzende Neubauten, questi pazzi Ausmuteants sono una sorta di Devo dei tempi moderni, solo che invece di addobbarsi come un albero di natale e professarsi cultori di una filosofia spicciola buona solamente per riempire le note dell’album, questi sono davvero fuori di testa.
Sebbene i suoni ricordino quelli degli ottanta più synth questa band è radicata nel suo tempo e il loro terzo album uscito quest’anno è senza troppi giri di parole un fottuto capolavoro, dove la follia dadaista è sinonimo di informazione (quella schizofrenica di internet), dove il porno non è più trasgressione, dove è inutile parlare di de-evoluzione ma piuttosto di de-personalizzazione progressiva del soggetto.
“Order of Operation” è uscito a Settembre per la Goner e la Aarght Records, polverizzando di fatto tutta la scena garage, che dopo questo album sembra talmente fuori luogo da provocare un sincero imbarazzo anche a chi, come me, la adora anche nelle sue sfaccettature più ridondanti. La copertina richiama ai moderni manuali di istruzione per PC, con una fotocopiatrice in bella vista, eppure il senso di distacco del bianco-nero-grigio e quel suono così sintetizzato e freddo, nelle loro mani diventa pura furia punk.
Capisco che Bertoncelli consigli di non recensire più i singoli pezzi, ma come cazzo fai quando ti trovi di fronte a qualcosa di talmente paradossale come Bolling Point, dove il feedback degli Stooges e il ritmo ballabile dei Talking Heads si mescolano come cioccolata in polvere e latte, o forse no, o forse questi Ausmuteants sono veramente l’unica novità in una anno dove le riviste rock cercano nuovi spunti nell’elettronica, nella dubstep, nell’alt pop (che definizione di merda) o nei nuovi album di cinquantenni/sessantenni che ormai hanno dato tutto a tutti, tranne al fisco.
Quando parte Freedom Of Information non sai bene se stai ascoltando degli scapestrati dal CBGB o degli artistoidi da SoHo, ma poi le liriche ti riportano ad un mondo più reale, perché è quello che hai intorno mentre la ascolti.
Furia e demenzialità si incontrano in We’re Cops, una specie di hardcore punk suonato da dei Devo impasticcati, oppure sentite come le atmosfere dark dei Nun che si possono ritrovare nei primi istanti di Family Time vengano spazzate via dalla chitarra post punk di Shaun Connor o come direbbe Jake Robertson «fake synth punk», è meraviglioso come gli Ausmuteants riescano a declamare slogan senza senso o parlare di disgrazie (tra cui il suicidio) mantenendo sempre un’allegria nevrotica, è come ascoltare dei commenti su Facebook interpretati da David Thomas!
Quanto sono potenti e poetici i due minuti scarsi di Wrong? La poesia non è nel testo ma nella commistione tra testo e musica, proprio come nella diametralmente opposta Felix Tried To Kill Himself (composta mentre Robertson rifletteva sul proprio suicidio guardando La Strana Coppia di Gene Saks), proprio non mi spiego come facciano questi pazzi a riuscire a mantenere una così geniale tensione fra ritmo e liriche per tredici tracce, non rallentano mai, non si stancano, riescono sempre a trovare una melodia (o un rumore) dannatamente interessanti ed a incastonarci le parole giuste, non importa che sia un testo descrittivo o semplicemente casuale, l’effetto è sempre lo stesso: armonia.
Come si può realizzare in modo innovativo un classico pezzo stile inno punk come 1982? Ma è chiaro: con quel sound piatto del synth di Jake Robertson, quella chitarra pulita ma incazzata di Shaun Connor, la sezione ritmica garage punk di Marc Dean (basso) e Billy Gardener (batteria) sembra tutto banale e innovativo allo stesso tempo, non sai mai se gli Ausmuteants ti stanno prendendo per il culo oppure stanno facendo della fottuta arte inconsapevolmente.
C’è una importante evoluzione dall’esordio (“Slip Personalities”) e dal secondo album omonimo dell’anno scorso. Nel primo pagavano una certa sudditanza ai grandissimi Chrome, regalandoci comunque momenti notevoli (Blood Nose ha un giro di synth che mi fa impazzire), nel secondo i pezzi raramente superavano i due minuti e l’estetica alla Kraftwerk (troppo distaccata) ogni tanto veniva fuori, certo c’erano i Kinks (Bad Dayè una geniale versione non-riesco-a-suonarla di You Really Got Me) e perle punk geniali come No Motivation, ovvero quello che gli Hives non sono riusciti ad essere in vent’anni di carriera in una sola canzone. Ma sopratutto Shaun ha preso in mano i testi e i concetti, elevando la band da semplici cantori delle solite stronzate (sesso, droga e rock and roll) a dissacratori delle stesse, rimescolandole, denudandole e contestualizzandole come poche band o forse nessuna, prima.
– Va bene – diranno i più rompicazzo – tanta roba, però non sono mica i Goat con le loro atmosfere anni ’70 e le influenze nordiche-mistiche-tribaleggianti-alt-rock, perché dici che ‘sti sgorbi hanno prodotto un capolavoro? – Perché quando quando dei ragazzini che hanno come copertina su Facebook una loro foto con indosso delle tette finte, tirano fuori un album così, dove si scoprono gli automatismi e la schizofrenia dell’informazione e della parola nei nostri giorni, allora SÌ, quella è arte.
Non so se ho sbattuto la testa troppo forte, ma dopo una settimana di ascolto “Order Of Operation” mi sembra sempre più bello, sempre più incredibile, sempre più un capolavoro del garage rock contemporaneo.
La citazione all’inizio dell’articolo, e le altre sparse a giro, le ho prese in prestito da questa bella intervista alla band dal mitico blog It’s Psychedelic Baby, ve la linkoQUI.
Che si fa ora, ce li spariamo un paio di video? Massì, dai…
Perfomance in studio di Felix Tried To Kill Himself:
Live di Freedom Of Information, con alla voce Shaun Connor (il pezzo d’altronde è suo):
Torna il trio di Seattle con un secondo album davvero intraprendente. Perse le melodie garagiste del primo con quei rassicuranti giri alla Kingsmen, i Dreamsalon si concentrano sul lato psych(osis) della loro musica, mostrano i muscoli ed una tecnica meno raffazzonata, uno spirito demolitore e un sound clamorosamente intrigante.
Al primo ascolto due settimana fa “Soft Stab” mi sembrava molto più confuso di “Thirteen Nights” il loro discreto esordio (in realtà lo avevo bellamente bollato come “merda fumante”), ma dopo due o tre ascolti coadiuvati da del rum scadente e pasta salvaeuro della COOP ho cominciato a carburare.
‘Sti gran cazzi, vuoi vedere che “Soft Tab” è un gran bell’album? Sragionati, decostruiti con un rock ritmico alla Feelies ma radicato nella scena garage, nessuno strumento predomina mai sugli altri e la densità del suono non satura eccessivamente l’ambiente (quindi allontanandolo da velleità shoegaze), i pezzi poi sono tutti ispiratissimi e ognuno con qualcosa di diverso da dire.
Sentite come tira la sezione ritmica di Don’t Feel Like Walkin’, le sferzate della chitarra surf che esplode in un’ondata di feedback, più la chitarra viene distorta e più viene fuori un lato “crampsiano” prima di adesso insospettabile, la voce di Chamber mai così vera, così punk.
Non credo ci sia un pezzo debole in questo album rivelazione, adoro il modo in cui le canzoni “crescono” d’intensità senza sfruttare i cliché classici, come in Skin, mantenendo la tensione sempre altissima ma riuscendo a non stancare mai.
Forse anche il cambio di etichetta ha giovato, dalla Captcha Records si sono portati appresso l’esperienza garage psych, ma hanno lavato il sound nelle acque della Sweet Rot Records, rendendolo meno caldo e più alienante.
Mi sono definitivamente innamorato della chitarra di Craig Chamber, che già nell’esordio aveva espresso tutte le sue coloriture, e si conferma anche con questo album tra i miei interpreti preferiti del momento, mai alla ricerca di protagonismo, deturpa lo spazio stuprando quelle cinque corde con sadica efficacia. Il basso di Min Yee conferma la sua natura infernale, profondo come quello di Geezer Butler in “Paranoid” ma ritmico come Peter Dammit nei momenti migliori dei Thee Oh Sees. Su Matthew Ford alle pelli c’è poco da dire, picchia come un dannato e ci piace così.
Quando parte l’album sembra quasi una performance dei Battles, con quella Walkin’ Past My Dreams così lontana da questa terra, una linea di basso hardcore punk, la chitarra che ad un certo punto perde contatto con la realtà e la batteria a fare il lavoro sporco di mantenere intatta quella nervosa struttura.
Ecco, è un album nevrotico questo “Soft Stab”, così nevrotico da rievocare a tratti gli immensi i Pere Ubu (Animal), così nevrotico da sembrare l’unico album davvero contemporaneo, che lascia uscire il lato più spigoloso del garage rock, e non la banalità dei riferimenti classici o la presunzione di certe ultime uscite (“Manipulator”, “MCII”, “Drop”). Giorno dopo giorno i Dreamsalon scavalcano tutti i miei dischi e diventano il primo ascolto al mattino e l’ultimo… beh, al mattino.
La title track è un capolavoro, uno di quei pezzi che dovrebbero mandare in radio a rotazione finché non ti si stampa nel cervello. Soft Tab è un singolo perfetto, una hit d’altri tempi, un colpo di genio in mezzo a tanta buonissima musica, e che viene ripresa nel finale con Soft Tab II, non una continuazione della prima parte, ma una versione piùgotica e disturbata, la chitarra di Chamber che imita Tom Herman e io che godo come un furetto mentre mi mangio gli spaghetti della COOP incollati sul fondo della pentola.
Si sono largamente superati Yee e compagnia, questo secondo affresco è molto più virtuoso e profondo del precedente, una geniale perla new wave che si unisce a “Maxed Out Of Distractions” dei Corners e forse presagisce ad una nuova riscoperta del rock americano anni ’80.
Lo vendono a soli 9 dollari su Bandcamp, quindi poche scuse!
Li volete i link, vero? Bang: clicca con orgoglio QUI se vuoi ascoltarti l’album in streaming, se invece vuoi insultare la mamma a Chamber clicca QUI per la pagina Facebook della band!
Craig Chamber è chitarrista e voce dei Le Sang Song. Ming Yee suona il basso nei Le Sang Song e la batteria nei Universe People. Matthew Ford suona la batteria nei YVES/SON/ACE.
Tracy Bryant è la mente pensante dei Corners, probabilmente l’unica band in controtendenza di tutta la California garage (genere che adesso sta rinascendo sotto una veste modaiola anche in UK e Australia) che dal post punk dei Gun Club si è trasformata in una band new wave con tanto di synth.
Nel 2009 esordisce con “Same Old News”, un poetico affresco minimal garage (sì, me la sono inventata) dove la furia e l’energia lasciano il passo alla riflessione, i suoni ovattati a tratti ricordano l’esordio dei Corners (come in Going Back Around) ma è Bryant l’unico protagonista, a volte a discapito della musica.
Si sente la vena pop di Alex Chilton, ma anche la vena più malinconica di alcuni pezzi di band post punk come Swell Maps (Stand and Stay è un piccolo capolavoro) e reminiscenze di Hüsker Dü (In A Cage). Bryant sperimenta umori e suoni, dal surf rock appena accennato di Same Old News alla breve pillola di pop malato Beach, sembra non avere un punto di riferimento né un coerenza di fondo se non nel tono, sempre sommesso, quasi ad aver paura di urlare.
Un album sussurrato, che non vuole far parlare troppo di sé, uno sfogo personale registrato davanti ad un microfono in una sala vuota. Eppure certe intuizioni come I’m Used to It, Sweeping The Floors e la stessa Same Old News non dovrebbero rimanere nascoste.
Mentre i Corners sono ancora un sogno Bryant sembra fregarsene di seguire la scia garage casinista, francamente sembra che gliene freghi poco di tutto.
Esattamente un anno dopo Bryant ha già pronto “Something More”, un titolo sincero. Subito dalle prime note di Nothing To Me si notano le differenze con “Same Old News”, toni più aspri e a tratti più cupi, ma sempre con un tocco minimale, preferendo accennare piuttosto che spiegare.
Quello che manca a questo album sono le idee del precedente, sebbene più maturo “Something More” sembra meno ispirato, meno interessante, e sempre più un album fatto per se stesso e basta. Uno spiraglio lo apre il surf strumentale di Ghouls, già più in linea con l’esordio due anni dopo della sua nuova band.
Nel 2012 esce “Beyond Way”, il primo ottimo album dei Corners, con un post punk registrato da cani, scompare la timidezza e la vena intimista per far posto ad un punk più energico quando non deflagrante, grazie anche al bassista Billy Changer la vena minimalista prende anche una profondità nel sound notevole.
Quest’anno i Corner stupiscono ancora con “Maxed out of Distractions”, e Bryant ci riprova con il suo self title, stavolta profondamente diverso dai due precedenti.
Il lo-fi è una schifosa religione, è vero, ma per Bryant non è una mera cifra stilistica, è un suono, un’idea. Il ritmo pop di questo terzo album sì ricorda il solito Alex Chilton, ma Bryant ha sviluppato la sua personalità, non si lascia più intravedere da dietro una tenda e si spoglia. Non c’è la vena anni ’80 di “Maxed out of Distractions”, piuttosto spizzichi di garage californiano (I’m Never Gonna Be Your Man) e del pop più raffinato (Star The Motor) su questi binari si crogiola Bryant e un po’ si limita. Non mancano intuizioni formidabili come Creepe Bad News, ma in generale è sempre un album suonato e pensato per piacere a Tracy Bryant prima di tutto, il che delle volte può anche essere un pregio, ma Bryant fuori dai Corners non è sempre capace di creare melodie interessanti, pezzi come Tell You non troverebbero spazio né nel primo né tantomeno nel secondo album della band. Poi ad un certo punto arrivi ad una The Black Crow e percepisci dove si nasconde quel genio punk-pop che nei Corners ti ingabbia con Love Letters.
La Burger Records ha da poco fatto uscire “Tracy Bryant” assieme all’esordio di Billy Changer anch’esso self title che appena potrò (mooonnneeey) recensirò.
Un’artista particolare questo Tracy Bryant, così intraprendente con i Corners e così lontano dal mondo come solista. Se fossi in voi scaricherei la versione digitale del primo album (sono solamente 10$!) davvero uno degli esordi più intriganti degli ultimi anni, mentre gli altri due seguenti sono davvero troppo auto referenziali a mio modesto avviso, ma meritano un ascolto.
Link utili alla popolazione: ooook gente, eccovi qui i link a Bandcamp se volete ascoltare ADESSO questi tre album, cliccate con malizia QUI per “Same Old News”, invece cliccate con risolutezza QUI per “Something More” ed infine posate il vostro alluce QUI per “Tracy Bryant”.
«E che ce stanno i videooooooOOOoooo?» Sì. Ci stanno pure stavolta.
Il video più punk di tutti i tempi per Some Old News:
Ve li ricordate i Corners vero?
No?
E la mia recensione di inizio ottobre? Niente?
Certo che siete proprio una soddisfazione.
I Corners sono assieme ai The Monsieursil miglior prospetto garage rock californiano, lo sono sopratutto alla luce delle recenti avventure glam di Ty Segall e la svolta tagliamaroni dei Thee Oh Sees. Dopo il selvaggio ma ponderato esordio targato Lolipop Records, il bellissimo “Beyond Way”, dove i Corners si scontravano col post punk dei Gun Club, ecco che i quattro californiani decidono di cambiare decisamente tono. E genere.
Sì è vero, questo “Maxed out on Distractions” te lo descrivono nelle note come un garage surf rock da spiaggia, da gustare con un mojito leggendo Hemingway, ed invece appena lo piazzi sul piatto e la puntina sfiora i primi istanti di We’re Changing capisci che qualcosa non quadra. Sintetizzatori? E ‘sto ritmo alla Devo? Ma che cazzo s’è fumato stavolta Tracy Bryant? Però… però funziona!
E sì, son proprio cambiati i Corners, quel sound ovattato quasi shoegaze del primo album è scomparso, questa volta i suoni sono caldi e i ritmi delle volte ballabili, questa ondata di anni ottanta è sì del tutto imprevista, ma questi quattro ingegneri del suono la cavalcano con una cura maniacale. Riot sembra un pezzo dei vecchi Thee Oh Sees ma senza la batteria raddoppiata e con Dick Dale alla chitarra, Caught In Frustration sono dei Talking Heads più pragmatici, Buoy con il suo ritmo da marcia punk è una specie di anti-canzone dell’estate, questi ragazzini che compaiono in tutti i festival assieme a garagisti comprovati come Mr. Elevator & The Brain Hotel e Froth sono praticamente l’unica band in controtendenza di tutta la West Coast!
Appena sono arrivato a Love Letters mi sono dovuto fermare per riascoltarla. E ancora. E ancora. I don’t wanna hear the cries/ I don’t care about times/ I don’t wanna know about the love letters/ I don’t believe in no ever after. Con la voce che imita un Ian Curtis stralunato, questo singolo che mi ha conquistato, mi piace l’idea che a qualcuno non abbia voglia di fare qualcosa, è così anni ’80!
La confusione interiore di Maxed out of Distractions con quell’assolo minimale sul finale mi lascia sempre in estasi, un pizzico di Spacemen 3 con The Spaceship a chiudere un album quasi perfetto.
I Corners vanno sostenuti, anzi: vanno incoraggiati! Ty Segall che decide di sposare il glam di Marc Bolan, John Dwyer che dà una svolta beatlesiana ai Thee Oh Sees, quest’anno ce l’hanno fatto a torroncino ‘sti gran bastardi, ma ecco che band come The Monsieurs, Froth, Dreamsalon, Mr. Elevator & The Brain Hotel e Corners non solo hanno ancora le palle e le idee (una accoppiata vincente sotto molti punti di vista) ma hanno anche il coraggio di reinventarsi senza scadere nella banalità!
Con questo “Maxed out on Distractions” la band di Tracy Bryant si avvicina al synth-punk dei Nun, restando comunque ancorata alla scena garage, e riuscendo a sfornare vere e proprie perle come Caught In Frustration, Love Letters e Maxed out on Distractions.
Uno dei miei album preferiti di quest’anno.
Link utili alla popolazione:volete ascoltarvi ‘sti Corners dato che vi ci ho rotto abbondantemente i cojoni? Bene, basta che voi clicchiate vigorosamente QUI, se volete dirgli che sono proprio dei fighi o sarebbe meglio che zappassero su Minecraft cliccate QUI per la pagina Facebook.
Ci spariamo qualche video? Ma sì, dai:
Eccovi il video (meh) di Love Letters.
Una live di We’re Changing.
Doppia razione live con Sometimes che apriva “Beyond Way” e Buoy da Maxed.
NOVITÀ ALLUCINANTE: dato che voglio ampliare le possibilità di discussione sul blog (la gestione dei commenti di wordpress.com fa cagare) ho aperto una PAGINA FACEBOOK che vi link comodamente QUI. È stata una scelta ponderata, ma che credo potrebbe giovare a chi legge e sopratutto a me. Da quando ho aperto il blog, oltre ai classici insulti intrinsechi nel web, ho conosciuto parecchie persone interessanti che di musica ne sapevano molto più di me (non che ci voglia molto, eh) ed ho imparato tante cose. Adesso vorrei impararne delle altre, vorrei scoprire più opinioni e nuovi album, per cui “amplio” il raggio d’azione del blog anche a Facebook. Insomma, se volte seguirlo pure là per commentare più agevolmente fate pure, sennò chissenefrega. Stronzi.
Compagni di merenda di Mr. Elevator & The Brain Hotel, Froth, Wyatt Blair e Adult Books i Corners sono una realtà molto interessante, figli anch’essi della Lolipop Records, piccolissima etichetta con grandissime idee.
Tre quarti della band sono ingeneri del suono (Billy Changer addirittura della stessa Lollipop), e la cosa potrebbe stupirvi non poco ascoltando “Beyond Way” il loro esordio del 2012, registrato così male da sembrare un’offesa al buon gusto, ma questi quattro ragazzi invece la sanno proprio lunga.
Più che garage il loro è un post punkche strizza l’occhio ai Gun Club (anche se il loro punto di riferimento sono i Velvet Underground), che si esprime in vibrazioni, echi di suoni, rimandi appena sfiorati e melodie drammatiche (il peso di J.T. IV sulla scena californiana è davvero pazzesco, finora del tutto ignorato dalla critica).
Infatti l’album in questione non vive di pezzi singoli che risaltano, o di hit da classifica, è piuttosto un viaggio nella Los Angeles dei Corners. Bad Habits esprime bene questo concetto, con quelle voci in sottofondo del tutto ignare della musica sempre più rumorosa e rabbiosa.
Chiazze di rockabilly e surf rock si scorgono in quello che verso The Greatestormai ci sembra un sogno. Ma sono tutte impressioni, idee buttate qua e là modellate con una saggezza e una precisione micidiale, che nell’impatto generale sfugge.
Certe volte sembra quasi di sentire dello shoegaze come in Give me a Reason, ma la faccia tosta da punkers casinisti non scompare dietro ad un wall of sound, potete scommetterci.
La relazione tra liriche e musica è assolutamente notevole, considerando che in questi tempi si scarseggia un po’ di qualità nei testi (Ty Segall, Jeffrey Novak, Cronin, siete tutti colpevoli) a metà tra Brian Jonestown Massacre e Nun. Questi Corners sono favolosi, pezzi come Beyond Way sono talmente perfetti da fare male. È come ascoltare la voce dannatamente inadeguata eppure espressiva di J.T. IV in Out of the Can.
Fidatevi, i Corners sono molto più di quello che sembrano.
Non ho citato i Nun a caso, data la deriva elettronica del nuovo album uscito a Giugno di quest’anno (e qui si sente prepotentemente l’influenza di Billy Changer sulla band, se vi va ascoltatevi se ci riuscite “2 in 1” firmato Tracy Bryant/Billy Changer) , un capolavoro new wave con i contro cazzi di cui avremo modo di parlare un’altra volta.
Link utili: se morite dalla voglia di ascoltarvi questo strano e curioso album cliccate con veemenza QUI per la pagina Bandcamp, se volete mandargli tanti poke (ma si usa ancora?) cliccate dolcemente QUI per la pagina Facebook della band.