Etichetta: Ralph Records
Paese: USA
Anno: 1980
Archivi tag: Dead Kennedys
Osees – A Foul Form
Etichetta: Castle Face Records
Paese: USA
Anno: 2022
Petrol Girls – Baby
Etichetta: Hassle Records
Paese: UK
Anno: 2022
Ausmuteants – Order of Operation
Is there any shared creed, code, ideal or mantra that the band shares or lives by?
No fat chicks.
Vi piace il synth pop? Allora adorerete fino allo sfinimento gli Ausmuteants, pochi cazzi e fine della recensione.
No? Davvero? È che c’avrei da studiare per gli esami, da comprare le diciotto bottiglie di rosso per il poker di sabato e… e vabbè, prima il dovere poi la lussuria.
Direttamente dall’Australia (o almeno credo) gli Ausmuteants sono tra le quelle band che invece di guardare ai sixties si sta interessando agli eighties. Mentre i Dreamsalon riscoprono Pere Ubu e Fall, mentre i Corners si sfondano di Gun Club e synth punk, mentre i Nun risciacquano nel pop gli immortali Einstürzende Neubauten, questi pazzi Ausmuteants sono una sorta di Devo dei tempi moderni, solo che invece di addobbarsi come un albero di natale e professarsi cultori di una filosofia spicciola buona solamente per riempire le note dell’album, questi sono davvero fuori di testa.
Sebbene i suoni ricordino quelli degli ottanta più synth questa band è radicata nel suo tempo e il loro terzo album uscito quest’anno è senza troppi giri di parole un fottuto capolavoro, dove la follia dadaista è sinonimo di informazione (quella schizofrenica di internet), dove il porno non è più trasgressione, dove è inutile parlare di de-evoluzione ma piuttosto di de-personalizzazione progressiva del soggetto.
“Order of Operation” è uscito a Settembre per la Goner e la Aarght Records, polverizzando di fatto tutta la scena garage, che dopo questo album sembra talmente fuori luogo da provocare un sincero imbarazzo anche a chi, come me, la adora anche nelle sue sfaccettature più ridondanti. La copertina richiama ai moderni manuali di istruzione per PC, con una fotocopiatrice in bella vista, eppure il senso di distacco del bianco-nero-grigio e quel suono così sintetizzato e freddo, nelle loro mani diventa pura furia punk.
Capisco che Bertoncelli consigli di non recensire più i singoli pezzi, ma come cazzo fai quando ti trovi di fronte a qualcosa di talmente paradossale come Bolling Point, dove il feedback degli Stooges e il ritmo ballabile dei Talking Heads si mescolano come cioccolata in polvere e latte, o forse no, o forse questi Ausmuteants sono veramente l’unica novità in una anno dove le riviste rock cercano nuovi spunti nell’elettronica, nella dubstep, nell’alt pop (che definizione di merda) o nei nuovi album di cinquantenni/sessantenni che ormai hanno dato tutto a tutti, tranne al fisco.
Quando parte Freedom Of Information non sai bene se stai ascoltando degli scapestrati dal CBGB o degli artistoidi da SoHo, ma poi le liriche ti riportano ad un mondo più reale, perché è quello che hai intorno mentre la ascolti.
Furia e demenzialità si incontrano in We’re Cops, una specie di hardcore punk suonato da dei Devo impasticcati, oppure sentite come le atmosfere dark dei Nun che si possono ritrovare nei primi istanti di Family Time vengano spazzate via dalla chitarra post punk di Shaun Connor o come direbbe Jake Robertson «fake synth punk», è meraviglioso come gli Ausmuteants riescano a declamare slogan senza senso o parlare di disgrazie (tra cui il suicidio) mantenendo sempre un’allegria nevrotica, è come ascoltare dei commenti su Facebook interpretati da David Thomas!
Quanto sono potenti e poetici i due minuti scarsi di Wrong? La poesia non è nel testo ma nella commistione tra testo e musica, proprio come nella diametralmente opposta Felix Tried To Kill Himself (composta mentre Robertson rifletteva sul proprio suicidio guardando La Strana Coppia di Gene Saks), proprio non mi spiego come facciano questi pazzi a riuscire a mantenere una così geniale tensione fra ritmo e liriche per tredici tracce, non rallentano mai, non si stancano, riescono sempre a trovare una melodia (o un rumore) dannatamente interessanti ed a incastonarci le parole giuste, non importa che sia un testo descrittivo o semplicemente casuale, l’effetto è sempre lo stesso: armonia.
Come si può realizzare in modo innovativo un classico pezzo stile inno punk come 1982? Ma è chiaro: con quel sound piatto del synth di Jake Robertson, quella chitarra pulita ma incazzata di Shaun Connor, la sezione ritmica garage punk di Marc Dean (basso) e Billy Gardener (batteria) sembra tutto banale e innovativo allo stesso tempo, non sai mai se gli Ausmuteants ti stanno prendendo per il culo oppure stanno facendo della fottuta arte inconsapevolmente.
C’è una importante evoluzione dall’esordio (“Slip Personalities”) e dal secondo album omonimo dell’anno scorso. Nel primo pagavano una certa sudditanza ai grandissimi Chrome, regalandoci comunque momenti notevoli (Blood Nose ha un giro di synth che mi fa impazzire), nel secondo i pezzi raramente superavano i due minuti e l’estetica alla Kraftwerk (troppo distaccata) ogni tanto veniva fuori, certo c’erano i Kinks (Bad Day è una geniale versione non-riesco-a-suonarla di You Really Got Me) e perle punk geniali come No Motivation, ovvero quello che gli Hives non sono riusciti ad essere in vent’anni di carriera in una sola canzone. Ma sopratutto Shaun ha preso in mano i testi e i concetti, elevando la band da semplici cantori delle solite stronzate (sesso, droga e rock and roll) a dissacratori delle stesse, rimescolandole, denudandole e contestualizzandole come poche band o forse nessuna, prima.
– Va bene – diranno i più rompicazzo – tanta roba, però non sono mica i Goat con le loro atmosfere anni ’70 e le influenze nordiche-mistiche-tribaleggianti-alt-rock, perché dici che ‘sti sgorbi hanno prodotto un capolavoro? – Perché quando quando dei ragazzini che hanno come copertina su Facebook una loro foto con indosso delle tette finte, tirano fuori un album così, dove si scoprono gli automatismi e la schizofrenia dell’informazione e della parola nei nostri giorni, allora SÌ, quella è arte.
Non so se ho sbattuto la testa troppo forte, ma dopo una settimana di ascolto “Order Of Operation” mi sembra sempre più bello, sempre più incredibile, sempre più un capolavoro del garage rock contemporaneo.
La citazione all’inizio dell’articolo, e le altre sparse a giro, le ho prese in prestito da questa bella intervista alla band dal mitico blog It’s Psychedelic Baby, ve la linko QUI.
Che si fa ora, ce li spariamo un paio di video? Massì, dai…
Perfomance in studio di Felix Tried To Kill Himself:
Live di Freedom Of Information, con alla voce Shaun Connor (il pezzo d’altronde è suo):
System of a Down, la discografia
Sì, è ultimamente faccio solo speciali su dischi vecchi, perché?
Perché non ho soldi per quelli nuovi.
Cazzo.
Comunque, basta auto-commiserarsi e avanti tutta.
La prima cosa che si nota in tutte le recensioni sui SOAD è la menata sul genere. Ma sono forse nu metal, sono folk metal, sono disco music metal, ma che saranno mai ‘sti System? A me le sotto-categorie mi fanno venire certi pruriti alle zone basse che non vi immaginate, già non sopporto parlare di classic rock, soft-rock e robe simili, però ha un senso, ma il nu metal è qualcosa di ridicolo, mi spiace dirlo. È alternative, basta, ci piace così, chissene se è nu o nü, è alternative, ci va bene. Poi le influenze tradizionali armene son lì a far scena, mica per altro.
Il sound dei SOAD è la perfetta commistione di Slayer e Dead Kennedys. Dagli Slayer prendono sopratutto il sound metal, non tanto dalle idee fasciste di merda che li contraddistinguono (non è vero? Contenti voi), dai Dead Kennedys prendono invece tantissimo, tanto che delle volte ascoltandoli attentamente mi sembrava di ascoltare la band di Biafra velocizzata e metallizzata.
Lungi dal dire che i SOAD sono una copia dei Kennedys, anche perché già dal primo album trovano quelle sonorità che li distingueranno per sempre dal resto del mercato musicale, sopratutto grazie al grandioso lavoro di Rick Rubin.
Il valore politico dei testi invece è pressoché nullo, o quantomeno banale. Legalizzerebbero qualsiasi cosa, odiano il governo e la natura è bella (ma il sesso è meglio). Ovviamente sono anti-Bush (il che è apprezzabile). Riescono meglio invece le loro uscite comico-demenziali, certamente le più divertenti e plausibili di tutto il metal.
Il successo arrise presto ai SOAD, appena cominciarono a macinare qualche singolo accattivante Rick Rubin se li mette sotto contratto per la sua American Records, che all’epoca aveva già un decennio buono di attività ma sopratutto aveva prodotto gli Slayer, band che Tankian e Malakian adoravano da tempo.
Rubin è un vecchio volpone, storica la sua trasformazione del sound degli Slipknot da “Iowa” (2001, prodotto da Ross Robinson) a ”Vol. 3: (The Subliminal Verses)” uscito nel 2004, stessa casa di produzione, la Roadrunner records, ma con una idea del sound e del marketing più moderna. Per i fan della band infatti Vol. 3 è stato un momento di rottura fondamentale, gli Slipknot diventano melodici e udibili per i più, per alcuni un tradimento bello e buono, per altri il miglior disco della band.
Essenzialmente Rubin riuscirebbe a far entrare nel giro del metal i Franz Ferdinand, e nel giro del brit-pop Burzum. Lui può.
1998: esce “System of a Down” e tutti siamo un po’ più felici.
Felici perché i SOAD sono una boccata di aria fresca in un metal già all’epoca auto-referenziale, anche se non ai livelli indecorosi di questi anni.
L’album presenta in velocissima successione perle di genialità, rabbia e anche di virtuosismo (che scopriremo essere inesistente in live). Niente di masturbatorio, un metal così diretto non ricapiterà mai più, tanto che infatti i SOAD sono l’unica band metal che apprezzo davvero degli ultimi dieci anni.
Un metal che ha tanto da spartire con il rock autentico a livello ideologico, più che la forma si predilige la sostanza.
Suit-Pee, Know e Sugar ci iniziano al sound dei SOAD, i cambi veloci che si distinguono in questi pezzi non sono mai velleitari o puramente d’effetto, ma neanche denotano una forma prog, la costruzione dei pezzi (molto intuitiva) viene tradotta per noi da Rick Rubin e ci sembrano quasi dei musicisti ormai maturi. In questi tre pezzi c’è la goliardia, la malinconia, la velocità e la riflessione, il tutto in un timing complessivo che supera di poco i sette minuti, il che li avvicina felicemente al primo punk-hardcore (anche se siamo molto lontani dall’ecletticità di band come i Minutemen).
Soil, War? e P.L.U.C.K. sono notoriamente tra i pezzi più amati dai fan della band, eppure sono sempre stati quelli che mi hanno meno convinto in questo album. Non amo apparire bastian contrario, credo sia una etichetta abbastanza infamante. Eppure, nella maggior quadratura musicale di questi tre pezzi, mi sembra che i concetti invece siano piuttosto mediocri. Finché i SOAD si mantengono ad un livello goliardico mi convincono, appena tentano di “alzare” la qualità lirica mi cascano dal pero. Wars? non ha semplicemente senso, ma al contrario del solito qui si cerca di dare input più interessanti, peccato che poi ti ritrovi cose così:
International security,
Call of the righteous man,
Needs a reason to kill man,
History teaches us so,
The reason he must attain,
Must be approved by his God,
His child, partisan brother of war
Eh? Che diavolo volete esprimere o farci capire? No, davvero, mi piacerebbe saperlo. Io capisco che non bisogna mai badare troppo ai testi nel rock, chi li esalta di solito ha come metro di letterario Licia Troisi piuttosto che Marion Zimmer Bradley (per citare il fantasy, mi son tenuto basso basso), chi invece ci capisce apprezza comunque la valenza del messaggio, sebbene espresso con semplicità può essere valido. Peccato che qui il messaggio sia nella testa di Tankian e Malakian, a noi restano solo deliri incomprensibili.
Soil è uno dei peggiori testi che abbia mai letto sul suicidio (credo riferito ad una vicenda reale), P.L.U.C.K. dovrebbe essere una seria critica sul genocidio armeno ma il concetto più profondo espresso è: revolution, the only solution. Uao. Probabilmente sono io che rompo il cazzo, sia chiaro, però nel contesto di un disco come questo P.L.U.C.K. appare una prova al di là delle capacità lirico-espressive della band.
Il pezzo più particolare è certamente Mind, il pezzo più “corposo” di tutta la loro discografia, con uno dei cambi di velocità più violenti mai suonati (eppure perfettamente incastonato nella struttura del pezzo, non c’è nessun intento meramente spettacolare).
Detto questo il resto dell’album non presenta alcun difetto, il che per me spara questo esordio tra i migliori che abbia mai ascoltato in assoluto.
Arriva il 2001 e arriva anche “Toxicity”, il quale abbatte il disco precedente sotto ogni aspetto, cura ingegneristica, elaborazione dei pezzi, espressione di un concetto e ovviamente in termini di vendite.
Stavolta ad aprire le danze c’è Prison Song, il quale di certo non spicca tra le composizione poetiche più rilevanti dell’ultimo decennio, ma c’è un balzo in avanti in questo album nelle liriche che va comunque segnalato. La musica invece giova di una maggiore profondità, i suoni sono disposti con maggior accuratezza da parte di Rubin, il risultato è una vera e propria invasione di riff e urla dei SOAD nelle nostre case, e quindi nelle nostre orecchie, quasi impossibile nell’ambito dell’alternative metal trovare un album realizzato con tanta cura del suono e del sound complessivo.
Scivola via “Toxicity”, al contrario del primo album, dove non sempre la successione dei pezzi poteva suonare perfetta (ci sono parecchi raccordi di Rubin per ovviare proprio a questo) stavolta tutto si incastra senza problemi, come se questo disco fosse uscito tutto assieme (anche se “Steal This Album!” ci mostrerà che non era così, ovviamente).
Non c’è un solo pezzo di “Toxicity” che abbia un difetto evidente. Da Deer Dance a Chop Suey! non solo i pezzi hanno strutture diverse (e non è scontato nel metal, per niente) in minutaggi brevi, ma anche i vari momenti emotivi estremamente contrastanti si susseguono con logicità, ed è naturale passare dalla devastante malinconia di Chop Suey! per buttarci in un mega-pogo con Bounce.
Toxicity che da il nome al disco è uno singoli metal più conosciuti nel mondo commerciale, anzi, voglio sbilanciarmi: è il singolo metal più conosciuto da chiunque ascolti rock e i suoi derivati. La forma lascia il posto ad un messaggio universale, le psichedeliche immagini che si susseguono di una città nemica dell’uomo sono molto sentite nei primi del 2000, in particolare nell’America democratica che ancora si disperava per la sfiorata vittoria di Al Gore alle presidenziali. Il contesto aiutò i SOAD? Piuttosto direi che i SOAD sono un ottimo risultato di quel particolare contesto, ancora un po’ confusi nel primo album, adesso il loro messaggio può dirsi anche politico e sociale.
Potentissima ATWA colpisce un altro bel pezzo di America rievocando Charles Manson (un incubo inconscio tutt’ora presente nella cultura statunitense).
Poco nascosta invece la hidden track dell’album: Arto, ormai un pezzo leggendario tra i fan, che ha il merito di aver rivalutato il nome di Arto Tunçboyacıyan (a quando qualcuno che ci riabiliti il mio amato Mulatu? Mi vanno bene pure i Slough Feg!).
Dopo la celebre fuga degli mp3 (il caso “Toxicity 2”) i SOAD decisero di correre ai ripari pubblicando “Steal This Album!”, un disco che si presenta nei negozi riprendendo esteticamente le classiche cover “fatte in casa” delle copie dei cd pirata.
Il collage di pezzi scartati dal secondo album sono per molti il massimo raggiungimento dei SOAD, e sinceramente faccio molta fatica a comprenderne i motivi.
Sicuramente c’è di mezzo una visione critica superficiale, che consta nel dire: ci sono i miei pezzi preferiti della band! Peccato che questo non sia un metro di giudizio applicabile per un album.
“Steal This Album!” è molto forzato nella quadratura del sound che Rubin impone a tutti i lavori che gli passano tra le mani, i pezzi sono hanno l’omogeneità di “Toxicity”, né la complessità espressiva.
Oltre a Boom!, pezzo celebre anche grazie al video di Michael Moore (un nome che pone il messaggio dei SOAD all’interno di una protesta sociale molto sentita e che, lo dico senza malizia alcuna, faceva vendere bene i dischi), e l’ottima prova di Tankian in I-E-A-I-A-I-O e l’apertura geniale e divertente di Chic N’ Stu il resto appare piuttosto raffazzonato e molto piatto se confrontato alla profondità di un album come il precedente.
Però è impossibile non salvare da questo macero le tracce acustiche Ego Brain e Roulette (mentre trovo ancora oggi confusa Streamline, eppure la mia ragazza mi insulta anche spesso, passandomela come la miglior canzone di sempre dei SOAD), magnificamente espressive e malinconiche.
“Steal This Album!”, per quanto mi riguarda, sebbene sia un disco che ascolto con piacere, è un passo falso piuttosto pesante nella striminzita discografia della band.
Ed eccoci arrivati dunque al biennio del silenzio assoluto, 2004-2005, dove i SOAD stavolta semplicemente “aiutati” da Rubin (Malakian ormai vuole fare tutto da solo), compongono la loro opera più ambiziosa, il doppio… ah, no, già, non è un doppio, mi sbaglio sempre perché SONO DUE DISCHI USCITI A DISTANZA DI SEI MESI!
Il che potrebbe anche starci se non fosse che i due album sono in realtà un album diviso in due parti! Cazzo no!
Sì gente, a me rode ancora questa immane colata di merda che si nasconde dietro la scusa del “marketing” di ‘sta ceppa, potevano fare un doppio, un normale doppio, però quello non te lo potevano mica far pagare quaranta e passa euro, così te ne spiattellano due (che in realtà sono lo stesso) e via di vaselina e sorrisi compiaciuti del mio rivenditore di fiducia. Dannati metallari del cazzo!
Ma la cosa più irritante in assoluto non è tanto questo furto clamoroso seguito da biglietti ultra-mega-costosi per concerti suonati da impediti* ma quanto la schifosa ipocrisia della band stessa, che ci spiattella lì lì un disco moralista e iper-democratico, dove c’è la critica politica più spietata e comprensibile della loro storia, peccato che stavolta a coprire la sostanza ci sia troppa forma (iconograficamente rappresentabile con un chilo di merda).
Non era meglio non invischiarsi col discorso politico? Perlomeno non ci perdevate pure la faccia, IDIOTI!
“Mezmerize”, quello uscito prima, resta comunque un disco più che sufficiente. Se stavolta il lavoro dei SOAD non solo riesce a guadagnare maggior respiro degli altri e anche profondità (sia nella complessità del sound che nelle liriche, almeno quando non fanno i cazzoni) manca però la violenza che caratterizza i primi due album, rallentando un po’ ma mantenendo comunque i cambi repentini e la magnifica potenza melodica.
Proprio sulla melodia stavolta c’è da riprendere per le orecchie la band, molto più scontata e banale che nei lavori precedenti.
Invece “Hypnotize” è una vera fregatura, favolosamente confezionata e degnamente suonata, ma resta una fregatura. Più che il seguito “Mezmerize” sembra la collezione degli scarti di “Mezmerize”, anche perché il disco non quadra per nulla, perdendo il respiro complessivo del disco precedente e perdendo anche la qualità compositiva. Tralasciamo Lonely Day, un pezzo scritto a tavolino per far cassa (quando la sentì su MTV fu davvero un giorno triste), ma la parte che più mi lascia esterrefatto è la rapida successione di Stealing Society, Tentative, U-Fig e Holy Mountain. Non trovo questi pezzi brutti, ma semplicemente ridondanti, si è persa sia l’ecletticità che distingueva comunque il prodotto finale dei SOAD che la costruzione ponderata degli album.
Io apprezzo moltissimo gli album che mantengono una sonorità ben precisa dall’inizio alla fine (“Toxicity” ne è un ottimo esempio), ma stavolta è un gira e rigira di idee e impressioni sonore senza capo né coda.
Se in “Mezmerize” Question! è l’apice, l’orgasmo multiplo del fan di vecchia data, invece in “Hypnotize” ci accontentiamo della feroce Attack (dal vivo rende davvero male, se non fosse per il bravissimo Tankian) e della chiusura di Soldier Side, pezzo che apriva il disco precedente, e che dovrebbe farci intuire una sorta di forma a concept album che però in realtà non esiste. Mah.
Una volta divisi cominciano le esperienze da solisti e mentre Shavo si è dato al cazzeggio creativo (collaborazioni mordi e fuggi, dj-set e video making, insomma: il vero genio della band) gli altri hanno fatto sul serio, senza mai toccare nemmeno alla lontana le vette raggiunte come SOAD.
Di Tankian ho già abbondantemente parlato recensendo “Harakiri”, per Malakian e Dolmayan si apre invece l’esperienza degli Scars On Broadway, un primo disco discreto seguito da un secondo che voleva essere “duro e puro” e invece fa solo ribrezzo.
Ritornati assieme recentemente, sembra però non essere ancora finita quella “pausa creativa” che si erano dati, probabilmente sanno benissimo che di nuovo in studio non riuscirebbero mai a tirare fuori un ragno dal buco, e piuttosto che svilire ulteriormente il nome della band si fanno i cazzi loro e ogni tanto monetizzano con qualche tour mondiale.
*in realtà negli anni i SOAD migliorarono non poco le loro prestazioni dal vivo, però quando ho scritto il pezzo ero molto scazzato. Inoltre i ritmi più soft degli ultimi due album aiutarono non poco le esibizioni della band.
[“System of a Down”, voto: 7/10]
[“Toxicity”, voto: 7,5/10]
[“Steal This Album”, voto: 5/10]
[“Mezmerize”, voto: 6/10]
[“Hypnotize”, voto: 4/10]