Etichetta: digitalizzato da Night School
Paese: Ucraina
Anno: (di uscita in cassetta:) 1995
Archivi tag: faust
Centauri / Dead Horses split
Etichetta: Lepers Production Paese: Italia Pubblicazione: 1 Novembre 2016
La malinconia celata in un feedback può essere difficile da cogliere, un rumore in fondo è solo un rumore, eppure da John Cage a Iannis Xenakis ne abbiamo di esempi di come il rumore possa diventare vettore di sensazioni, riflessioni, e perché no: emozioni.
Nella storia del rock ne abbiamo ascoltati di rumori assordanti eppure significativi, dai Velvet Underground ai Sonic Youth, non mi sento affatto fuori luogo ad inserire in questa esclusiva famiglia il denso discorso sonoro dei Centauri. Questa band prodotta da una delle migliori etichette italiane del momento, la barese Lepers Production, riesuma la semplicità melodica di certo alternative degli anni ’90 e la immerge in stratificazioni rumorose incredibilmente espressive.
Il loro esordio discografico credo sia del 2014, con “Centauri” (of course), una deliziosa vertigine di noise e Faust, ma non i Faust degli inizi ma quelli laconici di “The Faust Tapes”. Il martellio del piano che si perde in uno spazio siderale saturo di frequenze di Alfa Centauri A, spiega meglio di quanto io possa fare l’eleganza dietro questo album (il suo continuo, Alpha Centauri B invece rigurgita del rock un po’ come i Pussy Galore nel bel mezzo del delirio sparavano un blues infernale).
Personalmente provo quasi una venerazione per questo lavoro, sopratutto quando mi ritrovo a leggere riviste come Rumore dove si parla di espressività in merito all’ultimo lavoro di Lady Gaga, laddove quell’espressività anche se ci fosse è stata talmente sviscerata da avere poco da aggiungere, i Centauri invece sono una di quelle band che si muovono tra i confini dei generi, non cercando di scavalcarli ma piuttosto spingendoli un po’ più in là. La tensione fantascientifica della band, più Tangerine Dream che Sun Ra, si sposa con un folk trasognato, e non senza un certa meraviglia ci ritroviamo a navigare nel nostro universo interiore.
Lo split uscito questo primo Novembre con i Dead Horses è un evento per chiunque abbia a cuore l’underground italiano. I Dead Horses, trio acustico dalla febbrile Ferrara, altro non sono che una declinazione dei For Food di cui abbiamo già parlato in una entusiastica recensione che vi linko qua.
Quindi che cosa succede in “Centauri – Dead Horses”?
I Centauri si presentano con tre tracce, proseguendo il discorso del loro “The Centauri Tapes” (eh), sposando una vena piuttosto malinconica e incredibilmente efficace, che esplode in tutta la sua meravigliosa fragilità nei 5 minuti di Unza.
I Dead Horses tornano dopo il loro folgorante debutto per la Bubca Records di Tab_Ularasa, e presentano quattro pezzi ormai rodati. Anche se li accumuna una certa urgenza espressiva non sono da confondersi coi siciliani Pan Del Diavolo, nei Dead Horses è tutto “in potenza”, quasi mai la tensione deflagra in un coito rockeggiante. Il rumore c’è anche qui, se The Cross sembra uscita da una casa di produzione indie, Before you judge me suona come se fosse stata partorita tra il sangue e le urla di un garage di periferia.
La musica dei Dead Horse raggiunge vette mistiche, scompare la rabbia di certo folk italiano da classifica per far posto ad un lento rituale misterico.
Due anni fa Mirrorism e For Food hanno segnato rispettivamente delle vette da raggiungere nel panorama nostrano, l’anno scorso gli Hallelujah!, evoluzione dei Vairus, hanno esordito con uno dei più potenti 12” che abbia mai sentito, e quest’anno Centauri e Dead Horses spostano ancora più in là il confine.
E meno male che la musica in Italia fa cagare.
Big Naturals – Big Naturals
Etichetta: Greasytucker Paese: UK Pubblicazione: 2015
With a sound like yours, what kind of shows d’you end up playing?
As long as we’re not pigeon-holed into any genre we are happy to play with literally any type of band or artist, or for anyone to enjoy or hate the music for that matter. I guess we’re just too damn old and jaded to be rockstars.
(da un’intervista della band al Bristol Live Magazine)
Un duo, basso elettrico e batteria, dove il basso può trasformarsi in un urlo come in un sibilo, dove il sound spazia dal kraut rock all’hardcore, dove la batteria da metronomo ineluttabile perde il senso del ritmo (e noi dello spazio), sperimentazione consapevole. In quel di Bristol lo chiamano krautpunk.
I Big Naturals non potevano che nascere a Bristol, e dove sennò, la città con la scena musicale più solida d’Europa dopo Torino con la sua Psichedelia Occulta. Jesse Webb, il batterista, dopo cinque anni a vagare di band in band si unisce al progetto Big Naturals nel 2014, quando il progetto era tutto sulle spalle di Gareth Turner, un bassista al quale le quattro corde stanno odiosamente strette.
Ascoltare il loro esordio omonimo è un’esperienza totalizzante, sebbene la povertà dei mezzi di registrazione si percepisce eccome la potenza illimitata della loro musica, un flusso interrotto di drone e kraut, con un orecchio verso il garage californiano e le sue devianze europee (Pink Street Boys), la psichedelia c’è ma non la fa mai da padrona, al massimo, come in Neda, diventa parte integrante del flusso senza reminiscenze hippie alla cazzo buttate là per far revival.
Giocano i Big Naturals, con qualcosa che ancora non riescono a controllare pienamente. Islamaphobia è un accenno che dura poco meno di un minuto, eppure si percepisce da questo tutto il contesto: è un album sulla paranoia che ci circonda, sulle paure e le incertezze del futuro mentre il mondo attorno a noi sta cambiando, e non sempre in meglio.
Tribalismi, rituali, misteri, siamo ancora su una sponda europea, l’influenza brtistoliana dei The Heads è presente come quella contemporanea italiana (Squadra Omega, La Piramide Di Sangue, Mombu), ma anche degli americani Shooting Guns e di quel genere di sperimentazione lì, senza contare Can, Faust, Amon Düül II e, come fa notare giustamente SI TRUSS in un suo articolo per Drowned In Sound, i primissimi Oneida.
I Big Naturals vanno contestualizzati in una scena che vede la dub step come padrona assoluta, e mentre parte del metal commerciale e del jazz più avanguardista sono ben contenti di poter dialogare con questo genere, i rocker lo vedono come il nuovo nemico contro cui fare fronte comune (come ai tempi della disco music sempre in Inghilterra, che portò alla Factory e poi alla negazione dell’ideologia punk su cui essa fu fondata). Ma in USA il garage punk sta diventando una barzelletta, la Burger Records sforna sempre più band copia-incolla senza idee e con un sound tutto uguale, e tutti quelli che restano fuori da queste direttive psichedeliche diventano underground nell’underground. Come risponde a tutto questo il duo da Bristol? Con il ritmo kraut di A Good Stalker, con la paranoia fatta musica ed energia.
Ecco, energia, una parola abusata nel descrivere certo rock più veloce o più evocativo, a seconda delle sensibilità, quando invece l’energia è qualcosa di misurabile, di calcolabile. Nel caso dei Big Naturals si può parlare con cognizione di causa di energia intesa come joule, perché la potenza è il mezzo con cui arriva il concetto. Questa non è musica d’avanguardia, non vuole innalzasi nei confronti della scena rock mondiale, piuttosto copia tutto quello che a Gareth Turner sembra essere figo e lo ripropone tutto assieme, come in un flusso di coscienza, come un vomito liberatorio dopo una serata di bagordi e repressione.
Il kraut è presente nel drumming come nelle sperimentazioni con basso, il punk è presente nella sia nella sua essenza nichilista e auto-distruttiva, sia come sguardo disincantato sulla realtà.
Un album mastodontico, di proporzioni incalcolabili, di pura estetica rock, una musica che lascia i suoni evolversi al ritmo del pensiero, delle volte soffermandosi ostinatamente su un particolare, delle altre accennando e basta, ma senza mai fermarsi, come una mente in continuo fermento, come la febbrile paranoia che ci pervade tutti.