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Magnetic Fields – Quickies

Etichetta: Nonesuch
Paese: USA
Pubblicazione: 2020

Quando  un artista arriva al dodicesimo album e questo è pure palesemente un passatempo, il rischio che sia una schifezza così raccapricciante da rivalutare persino “How to Dismantle an Atomic Bomb” è del 99%. Ma per Stephin Merritt e i suoi Magnetic Fields le cose sono andate piuttosto bene, e “Quickies” è un disco che merita di essere ascoltato, apprezzato e (perché no?) amato dissolutamente. 

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Chook Race – Around the House

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Etichetta: Tenth Court
Paese: Australia
Pubblicazione: 2 Settembre 2016

Ogni tanto mi va un po’ di pop. Ma con gusto.
Tutto quel pop con attitudine punk che dai The Gerbils arriva ai R.E.M.. Per attitudine punk non intendo rutto libero e birra scadente, né GG Allin, ma quel nichilismo adolescenziale dei Ramones che distorce il mondo in una enorme gara verso la felicità che tu, sì sì proprio TU, hai perso in partenza. Quello.

Per un punk così non c’è bisogno sempre di fare un gran casino, lo si può anche sussurrare ad un microfono mentre fuori nevica, svelando che sotto tutta quella furia c’è un mucchio di fragilità da nascondere.

In questo blog abbiamo parlato più o meno approfonditamente di Free cake for every creature, The Stevens, Quarterbacks, All Dogs, Baby Mollusk e forse di altri che ora non ricordo, tutte band accumunate da un modo di raccontare l’adolescenza con calma e riff alla The Bats, magari senza la forza prorompente della storica band neozelandese, ma armati di un po’ di pericolosissima timidezza.

Stavolta siamo sulle sponde australiane, e immagino che chiunque possegga la leggendaria raccolta “Do the Pop!” sappia bene che quando si parla di garage pop si parla all’80% di Australia. Nel 2013 era uscito “A History Of Hygiene” dei The Stevens, quasi un concept sull’adolescenza che gira attorno a tutti i problemi senza colpirne in pieno nemmeno uno, ma lasciando un senso di reale sconforto e confusione, tutte e due sensazioni decisamente adolescenziali, probabilmente una delle migliori espressioni del genere degli ultimi anni, anche se non mi aveva entusiasmato. Stavolta invece con “Around The House”, dei Chook Race, veniamo strattonati per una manica del pigiama, ci danno in mano una piccola lanterna elettrica e ci infiliamo con loro sotto le coperte, entriamo in quel circolo vizioso di «work, eat, sleep, repeat» tipico di un certo indie australiano, una dimensione dove l’età adulta sembra non arrivare mai.

Dopo un 7” pollici ancora ancorato ad un garage rumoroso nel 2012, i Chook Race rilasciano il loro primo album su Bandcamp nel 2015, finalmente definiti nella forma e nella sostanza. L’unico chiarissimo difetto di “About Time” è che tutto quello che viene abilmente descritto nelle liriche raramente è seguito da un garage pop orecchiabile, si sentono le potenzialità e l’album scorre bene, ma poche volte riesce a comunicare con urgenza quella fragilità di cui parlavamo poco fa.

Di queste potenzialità però se ne accorge la Tenth Court, piccola etichetta indipendente australiana, e così “Around the House” può uscire questo Settembre con una produzione più accorta, e persino una distribuzione internazionale grazie alla Trouble In Mind Records.
Deliziosa perla pop questo secondo lavoro dei Chook Race è diventato uno dei miei leitmotiv da mettere in auto durante le giornate più grigie, dove anche la separazione tra asfalto e cielo non è così definita.

La dolcezza sconfortante di Pink & Grey, dove le due voci di Robert Scott e Kaye Woodward si mescolano senza calore, gli scudi così effimeri di Eggshells, il riconoscere i nostri limiti in At Your Door o nella intima Sorry, si può ben dire che stavolta non è solo un lavoro di liriche, perché viene tutto accompagnato da delle progressioni di accordi davvero degne dei The Bats. Provate a sentire la veemenza quasi punk di una Pictures of You, calmierata da un suono spalmato nel brevissimo ritornello, sensazioni condensate su un vetro di una piccola cameretta in una casa in periferia.

Non c’è dubbio che tra le 10 tracce di “Around the House” abbiamo un vincitore dal punto di vista dell’equilibrio tra riff-liriche-adolescenza, perché Hard to Clean spacca i culi con la gentilezza del cantato sommesso (lei tremendamente simile a Katie Bennett dei Free cake for every creature), l’andamento quasi da punk anthem, ma sempre sotto le coperte. Segnalo anche Lost the Ghost, che sfoggia un riff garage pop anni ’80 che levati. 

Non so se è una mia perversione ma mi piace QUESTO garage pop, non quello di band come i Wyatt Blair e i vari compagni di merenda al Burgerama Music Festival, troppo disimpegnato e ironico senza essere auto-ironico. Forse non è nemmeno un caso che riprendo in mano questi dischi quando inizia a far davvero freddo, alla fine è quasi una reazione psicologica, necessità di affrontare i miei/nostri circle jerk mentali senza urlarli ai quattro venti, ma guardandoli condensare il respiro su un vetro che dà sull’inverno.

Free Cake For Every Creature – Pretty Good

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Why do you write music?
So I don’t have to take anti-depressants.
(Katie Bennett, leader dei Free Cake For Every Creature)

In occasione dell’uscita del nuovo album ormai prossimo sono lieto di consigliarvi ed esporvi “pretty good” (2014), in minuscolo, proprio come il nome della band: free cake for every creature.

Imparentati in qualche modo con The Gerbils e R.E.M., il loro è il pop punk più etereo che abbiate mai ascoltato. E non è tanto per i riff quasi accarezzati, ma per la voce innocente di Katie Bennett e per il suo essere così semplicemente “goofy”. E difatti nel pop punk di questa band non troviamo né la depressione forzata di tanti gruppi contemporanei né le riflessioni filosofiche degli anni ’90, Katie ci racconta il mondo attraverso i suoi occhi, con una lucidità ed un’ironia affascinanti.

Sebbene qualche pezzo sia rubato ai due album precedenti, questo ha un senso perché “pretty good” è il vero primo album dei fcfec, quello dove le insicurezze di “Shitty Beginnings” (2013, fra l’altro è il titolo, per un esordio, più bello di tutti i tempi) e “Freezing” (2014) se ne vanno, e lasciano spazio all’enorme personalità di Katie, che per quanto più che cantare stia sussurrando al microfono, le sue parole sono come urla catartiche che esplodono nel nostro profondo.

Mi ostino, sebbene sia deontologicamente scorretto, a scrivere il nome della band e dell’album in minuscolo proprio per rispettare il loro sguardo sui minuti movimenti dell’anima. Non credo di aver mai letto un testo più punk di too old to be a punk rock prodigy dai tempi dei mitici Violent Femmes. La fragile protesta mossa da una ventiduenne Katie contro chi la la vuole etichettare, una protesta anche troppo leggera per una che si è avvicinata ad un certo tipo di concetti grazie, almeno a suo dire, alle Riot Grrrls!, infatti sembra quasi surreale sentirsi dire:

i look too young yet already feel too old to do a lot of things
like wear a pumpkin pin to work or paint my nails green
and maybe it’s true i’m too old but i won’t let it stop me
i’ll let myself be too young to dye my hair blue
i’ll save it for when i turn seventy-two

ed invece è proprio una rivoluzione bella e buona, ma in piccolo, nel proprio privato, una rabbia che possiamo condividere e capire perché più simile alla nostra. Anche se non sono questi in particolare i problemi che spesso ci attanagliano, sono anche la cosa a cui più assomigliano, altro che Give Peace A Chance o We Are The World!

Ma la protesta è sempre positiva, non c’è mai un solo accenno alla sconfitta nei testi di Katie Bennett, non c’è spazio per l’autocommiserazione, non ci si piange addosso, e questo perché i racconti di Katie sono di una vita piena di scelte, mai statica, non tanto nel senso di viaggiare ma nei moti dell’anima (e questo un po’ ce lo accenna nella seconda strofa di rains even in summer).

C’è fame di presente più che di passato, c’è desiderio di nuovo piuttosto che di vecchio, come nella bellissima chiusa di first show:

$1.89 at stewart’s and a few minutes later
we were sort of drunk together on the roof of a parking garage
in the beginning of December
we were about to play our first show ever
at a bar, and were were a little nervous
but we didn’t go home

il qui, l’ora, senza il bisogno di fare voli pirandici o di citare per la milionesima volta L’Attimo Fuggente, non importa se le cose non sono esattamente come te le eri prefigurate, stai comunque andando avanti, anzi: sei ancora all’inizio.

Quello che differenzia free cake for every creature da band simili come All Dogs, Cherry GlazerrQuarterbacks e i Baby Mollusk di Rachel Gordon, non è una questione tecnica, piuttosto lo troviamo nella diversa visione dell’intimo. Anche i Quarterbacks ci raccontano un mondo intimo con leggerezza e con una dolce ineluttabilità, ma la visione strenuamente positiva e giocosa dei fcfec è unica nel suo genere.

Ci sono ovviamente delle note amare, ma sono sempre mescolate con l’ironia che Katie riesce a comunicarci con una veridicità travolgente, come in don’t go away ahumpf acgroomf o in it sucks hanging out with you (it even more when you leave).

Conclude l’album una cover dei R.E.M., ovviamente: It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine).

Credo sia chiaro che quello che Katie Bennett con i suoi Free Cake For Every Creature (adesso in maiuscolo, perché dobbiamo porci terzi nel giudizio) vogliono trasmettere sia che ognuno di noi ha qualcosa che ci fa star bene, il trucco sta nel fare solo quello per tutto il giorno, per tutta la vita, vivere sull’orlo del burrone mentre le fiamme avvolgono l’ambiente che ci circonda, ma sentirsi piuttosto bene.

Ehm, sono stato per parecchio tempo MOOOOOLTO occupato, tra lavoro, università, alcolismo, malattie varie e tanto, tanto, tanto lavoro. Adesso dovrei tornare in pianta stabile a vomitare sciocchezze e ovvietà su questo blog, ma non prometto niente, ok?