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Sul perché i Queen fanno cagare. Un’indagine su ciò che ai critici non piace

Had to make do with a worn out rock and roll scene
The old bop is gettin’ tired need a rest
Well you know what I mean
Fifty eight that was great
But it’s over now and That’s all
Somethin’ harder’s coming up
Gonna really knock a hole in the wall
Gonna hit ya grab you hard
Make you feel ten feet tall
Queen, Modern Times Rock ’n’ Roll, 1973

L’approdo dei Queen sulla scena rock britannica non fu dei di più dirompenti. Persino Brian May, chitarrista e principale compositore della band, era un po’ amareggiato dal risultato, considerando le promesse che veleggiavano intorno alla band. L’album d’esordio contiene giusto un paio di hit (Keep Yourself Alive e Seven Seas of Rhye) ma alla critica suona come decisamente troppo derivativo, crasi confusa dei maggiori successi di classifica tra il 1971 e il 1973. Certo, oggi ci ricordiamo esclusivamente delle belle recensioni che li proiettavano come i “nuovi Led Zeppelin”, ma nell’ambiente non erano proprio tutti d’accordo sulla faccenda. Messo sul piatto sembrava che Steely Dan e Mott the Hoople si fossero messi d’accordo per una jam session dove a discapito degli elementi che li caratterizzano, restava solo il testosterone in primissimo piano. Questo si declinava attraverso un patinato glitter-rock alla Slade, disciolto nel pop smielato e stratificato di band come Raspberries e 10cc, senza rinnegare del tutto la lunga gavetta prog sulla scia degli Yes, un bel miscuglio di cose che sicuramente esprimevano una certa ambizione, ma dal quale non si riusciva a comprendere in cosa consistesse la supposta originalità della band. Nel pieno dell’estate del 1973, mentre a Belfast la tensione era alle stelle e alla TV si seguiva la cronaca del rapimento del nipote di Paul Getty, nessuno sano di mente avrebbe scommesso che quell’accozzaglia di generi stereotipati dal buffo nome di “Regina” in pochi anni avrebbe raggiunto un successo planetario, raccogliendo centinaia di milioni di fan ai loro concerti, conquistando una popolarità inaudita e che infine sarebbe stata assunta a divinità pop leggendaria. Ma se la critica rock ha spesso rivalutato artisti che aveva inizialmente giudicato negativamente (come nel celebre caso Rolling Stone-Led Zeppelin o quello Lester Bangs-Stooges) con i Queen non è proprio andata così, all’inizio infatti c’era sincera curiosità quando non proprio dell’entusiasmo, calato all’improvviso con l’affacciarsi dei primi successi planetari. 

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Ween – The Pod

trasferimento

Etichetta: Chocodog Records
Paese: USA
Pubblicazione: 1991

Frank, give me a pork roll egg and cheese, if you please, with some gravy fries.
Sink into a greasy mega-weedge and I sneezed and it blew my mind.

Lettore, in uno slancio di propositività: «Scusa eh, sono passati 5 mesi dall’ultima recensione, manco un’introduzione per dirci che fine hai fatto, se continuerai a scrivere, facci magari un recap degli ultimi album che hai ascoltato, anche una lista del cazzo se non ti va di fare recensioni, insomma ‘ste cose qua ecco, un minimo d’introduzione.»
Recensore, mentre da fuoco alle bollette con l’ultimo goccio di scotch: «Fottiti.»

*Ahem* I Ween sono un duo formatosi a metà anni ’80, un progetto effimero e volgare che col passare del tempo è riuscito a crescere fino a ritagliarsi un posto privilegiato tra le cult band di tutto il mondo. I due schizzati dietro questa creatura sono Aaron Freeman e Mickey Melchiondo, meglio conosciuti dai disadattati tipo me con i nomi di Gene e Dean Ween, i due “fratelli” degeneri del rock.

Per i puristi il loro miglior album è lo sprezzante doppio d’esordio in studio: “GodWeenSatan: The Oneness” del 1990. Per gli intenditori invece è il loro sesto album, il più maturo e raffinato, “The Mollusk” del ‘97. Per chi scrive, cioè me *ammicca*, la gara al disco più fico della tua band preferita della settimana è venuta a noia verso la terza media, anche se ogni tanto non mi disdegno a farla fuori dal vaso, quantomeno per il gusto di provocare i lettori che cercano solo conferme e non opinioni diverse.

Il motivo però per cui voglio stimolarvi all’ascolto di questo turpiloquio musicale dal nome “The Pod”, seconda (s)fatica dei Ween, è perché di tutti gli album mai usciti nella storia del rock questo è uno dei pochi che riesce a coniugare libertà creativa, cazzeggio e dissacrazione alla fruibilità. Sebbene io abbia spesso letto e sentito che i primi album dei Ween siano un prodotto esclusivo per veri hardcore listener, gente abituata a fare colazione con pandistelle e “Twin Infinitives”, la verità è che probabilmente questi hanno ascoltato giusto due pezzi del primo album, mentre la puntina ha continuato a scorrere nei solchi dell’immaginazione.

“The Pod” sfida l’eclettismo di Zappa come i Tenacious D fanno con Satana nel loro film, ovvero senza alcuna speranza di averla vinta. Eppure lo fanno lo stesso e lo fanno con stile. 23 canzoni per 78 minuti di puro delirio demenziale sono un rischio che nessuno prima di loro si era mai preso, nemmeno Zappa, che comunque tramite la satira e il demenziale veicolava forme di contaminazione musicale che hanno fatto la fortuna del prog e del rock più sperimentale. I Ween invece sono i figli menomati di Half Japanese e Primus, bislacche creature che sanno riffare durissimo come i migliori Butthole Surfers (Frank) fino a creare atmosfere sixties malate e distorte all’inverosimile (Captain Fantasy), e non  posso che apprezzare enormemente il fatto che non s’atteggino da eruditi decostruzionisti prestati alla musica, elargitori di controcultura tra una protesta studentesca e un apericena. Per quanto strana e fuori dagli schemi la band è, banalmente, un’emanazione del suo contesto storico, non dissimile nelle influenze dai gruppi rock-pop che stavano sfondando su MTV, ma la loro libertà d’interpretazione di quei canoni li rende gli unici ad averli davvero superati.

I fratelli Ween sono peggio di Beavis & Butt-Head, adorano descriverti cose disgustose e grottesche nel dettaglio e guardati contorcere nauseato, figli di un’epoca che nella deformazione di TV e cultura pop fondava la propria cifra stilistica (pensate a film come Gummo di Korine o ad artisti come Matthew Barney), persino le copertine dei loro album dissacrano quelle di storici album rock impegnati, quasi a prendere le distanze da qualsiasi velleità intellettualoide (“The Pod” è chiaramente una parodia di “The Best of Leonard Cohen” del ‘75). Non vi accaldate lettori consapevoli, so bene che questa capacità di sgomentare tramite la rielaborazione di frammenti della cultura pop è stata elevata in quegli anni da tante altre band, i primi due esempi che mi vengono in mente sono Flaming Lips e Beck, anche loro considerati dei weird nell’ambito della musica mainstream. Detto ciò, faccio comunque fatica a ricordare un album di questa (chiamiamola) scena completo ed esaustivo come “The Pod”, c’è tutto il passato il presente e anche il futuro! Young Signorino dite che l’avrà ascoltata Molly? E i Black Mountain di “In The Future” non si sentono presi di mira in Don’t Sweat It? Se vuoi il noise punk eccoti servito con Strap on that jammypac! Ti piacciono gli anthem alla Gloria dei Them? Che ne dici di una versione alla Butthole Surfers con Laura? Vuoi le ballad? Ce ne sono due senza senso e con un tiro malatissimo: Alone e Moving Away. C’è anche un pezzo diviso in due parti (che poi avrà degli altri prosegui negli album successivi), The Stallion, che fa figo e tira il cazzo dei proggettari. Ci sono gli assoli per i nostalgici dei ’70, ci sono i coretti per quelli dei ’60, c’è tutto e non è mai uguale a se stesso!

Le influenze sono così tante che non sembrano nemmeno tali ma quasi intuizioni spontanee. Fa un certo effetto ascoltare pezzi come Pollo Asado, capace di mescolare Jad Fair a fenomeni indie a noi contemporanei come Mac DeMarco – sì, uno ci può sentire i Meat Puppets, ma certe timbriche non possono non far pensare alla moderna retromania. Ci sono cose assurde come l’attacco di Demon Sweat per il quale maniaci del suono come Bryan Ferry avrebbero dato un braccio. Insomma, è davvero un calderone pazzesco ‘sto “The Pod”, secondo doppio album della band dopo l’esordio, eppure mai dispersivo quanto coeso come un blocco di cemento. Gene e Dean all’epoca della registrazione in studio erano affetti da una mononucleosi che li aveva spompati, magari non è solo una suggestione che questa malattia così smaccatamente adolescenziale abbia modificato l’appeal generale, amalgamando tutte le canzoni in una melassa ipnotica e al contempo febbrile.

No, non è un disco faticoso “The Pod”, semmai è dannatamente divertente e necessario, fuori dallo schema del rocker tutto capelli e testosterone ma non per questo costretto a girovagare tra i generi “alti” per legittimarsi. Questo è il rock bello come mamma l’ha fatto: stupido, grezzo e volgare. Per tutti gli altri ci sono gli U2.

Rawwar, Thunder Bomber, Thee Oh Sees

Tre recensioni toste di roba che ho ascoltato di recente, avrei voluto mettere qualcosa in più ma è stata la settimana di merda per eccellenza.

RAWWAR – cassetta

Intanto c’è Tab_ularasa, il che ci piace. Poi ci sta Zulfux dei Dead Horses e dei mitici For Food, ci metti anche Doctor Dead del Trio Banana e il rischio di trovarti di fronte ad un album di soli rutti e scorregge diventa quasi una certezza. Ed invece questi tre simpaticoni decidono di fare la cosa più semplice del mondo: divertirsi assieme. Certo, di solito quando uno si diverte risulta anche allegro, invece per i Rawwar evidentemente passare del tempo assieme spassandosela equivale al produrre del garage blues maledettamente abrasivo.

Di solito nel punk così come per il fratellone garage si parla di rabbia in termini creativi, e quando pensi al garage blues se proprio non sei un depravato ti vengono subito in mente gli Oblivians e gli anni ’90. Direi che è normale, no? Ma in questo specifico caso, nelle tre canzoni cagate fuori da quello immagino essere stato un pomeriggio freddo e insipido, c’è più rancore che rabbia (e più noise che garage blues anni ’90).

Nelle liriche il tema del luogo in rapporto al soggetto (andare-muoversi-allontanare) non è affrontato con il piglio intellettualoide di certo punk (non sempre negativo eh, penso agli Alley Cats), questo è un punk senza anthem, un garage senza giri orecchiabili, potete percepire i Pussy Galore ma senza il loro tiro infernale, non c’è nemmeno una melodia trasognate alla Centauri, tre pezzi e nemmeno un accenno di piacevolezza. L’ho trovata una cosa profondamente bella.

Fra l’altro mi sono innamorato di Going South, c’è un riff che ricorda la furia micidiale degli Oblivians ma si perde in un mare di rumore asettico, un pezzo che deflagra per poi raggrumarsi come una ferita adolescenziale. 11/10

THUNDER BOMBER – LOOKING FOR TROUBLE

Al contrario dei loro amici Dots i Thunder Bomber fanno del tiro un espediente più hard rock. Ok, forse non mi sono espresso in italiano, volevo dire che laddove nei Dots c’è una vena quasi pornografica nel rapporto tra funky e punk, i Thunder Bombers sono più i Sonic’s Rendezvous Band senza l’ombra degli Mc5 addosso (molto meglio, eh?). L’energia che scaturisce da ogni singolo pezzo, a metà tra Rocket From The Crypt e Nashville Pussy,  rende “Looking For Trouble” un album decisamente da viaggio o da scazzo, ma che ho paura di dimenticare con la stessa facilità con cui passo da una pinta all’altra al pub.

Adesso cerco di fare mente locale, anche se in realtà arrivo da una settimana in cui mi sono scervellato all’inverosimile per una recensione de Il Girello (opera buffa della seconda metà del seicento), e anche perché Luca è stato gentile a contattarmi senza insultarmi come nel 90% delle mail che ricevo, e infine perché “Looking For Trouble” non è certo una merda, per cui vediamo se riesco a mettere in ordine i miei pensieri da bravo recensore provetto:

COSA MI PIACE Questa è facile, hanno un tiro micidiale, i pezzi anche se non sono particolarmente originali nella composizione mi sembrano molto schietti e con quella sincerità rock ’n’ roll alla Nashville Pussy che ogni ci vuole. Francamente non sopporto più l’heavy metal e l’hard rock da molti anni ormai, non che questo album sia heavy nel senso stretto della parola, però di solito queste sonorità mi fanno incazzare, stavolta no. Sarà perché invece di essere la solita band derivativa di Deep Purple o Led Zeppelin questi prima di tutto si divertono come i matti, e vaffanculo a tutto il resto.

COSA NON MI PIACE È un mio problema ragazzi, non sopporto più gli assoli. Sapete no quelli belli muscolari che arrivano telefonatissimi sulle tibie e ti spezzano le gambe? Mi sembrano eccessi steroidei da palestra, non ne posso più di sentire la solita struttura che si prepara ad ingravidarti senza consenso con l’onanismo del chitarrista di turno. Non ho niente contro il chitarrista dei Thunder Bomber, sia chiaro, va come le palle di fuoco come dicono nel Valdarno, per cui se vi piacciono le sbombardate siete sui lidi giusti. Io preferisco i Crime.

E con questo è tutto. Anzi no.

THEE OH SEES – A WEIRD EXIT

Eccoci al duemillesimo disco dei Thee Oh Sees, una band che in vent’anni (più o meno) ha azzeccato tre album che nel modestissimo avviso di questo blogger spaccano i culi e cagano in testa a qualsiasi stronzata in copertina su Rumore. Il resto della loro discografia… meh. Però dai, ci piazzano sempre qualche assolo alla Barrett, la sezione ritmica alla Cluster/Can/Faust, ma è dal 2013 che non fanno un album decente per il sottoscritto.

Sentite, non me ne frega un cazzo, le ultime robe di Dwyer sono davvero imbarazzanti, vi possono pure piacere per carità, anche perché la band sebbene i cambi di formazione dal vivo è una cosa splendida e lisergica, però “Drop”, lavoro incensato dalla critica e dai blogger hipsteroni è davvero un’accozzaglia di idee riciclate e laccate all’inverosimile. E anche quello dopo, com’era… ah, sì: “Mutilator bla bla bla”, originale come la Coca-Cola della Coop. Il vero problema della band è che l’ultimo cambio di formazione ha sputtanato la compattezza del sound e la sua forza distruttiva a 33 giri, e anche la creatività sembra scarseggiare.

E quindi “A Weird Exit”? Intanto diciamo che c’è ancora Tim Hellman dei mitici Sic Alps, che stavolta non fa la fighetta e pesta duro su quelle quattro corde, poi ci sta il buon Paul Quattrone (dei sopravvalutati !!! di Sacramento) e un tale Dan Rincon che assieme riesumano la sezione ritmica a doppia batteria, potente tanto quanto quella leggendaria di Lars Finberg e Mike Shoun. Ma al netto della potenza e di qualche cosina nuova “A Weird Exit” è solo un buon album e niente più, anche se rischiava di essere un capolavoro del calibro di “Carrion Crawler/The Dream”.

Gli accenni sabbathiani (Gelatinous), il loro garage psych delirante ormai marchio di fabbrica registrato (Dead Man’s Gun), è tutta roba già sentita negli album precedenti con poche variazioni, e questo fa incazzare. Ovviamente è roba buona, ci mancherebbe ragazzi, ma l’abbiamo già sentita nei quattromila album precedenti! I momenti migliori sono sicuramente i due pezzi più dilatati e sperimentali: Jammed Entrance e Crawl out from the Fall Out, una botta di vita che – devo essere sincero con voi, non mi aspettavo nemmeno per un cazzo. C’è persino l’influenza dei migliori Brian Jonestown Massacre nella finale The Axis, forse uno dei pezzi più affascinanti nella loro intera discografia. Però… non c’è troppo da dire in realtà.

Sembra che Dwyer si sia ormai normalizzato, tutti gli elementi che rendevano i Thee Oh Sees un gruppo unico nel panorama garage mondiale, tra i più seminali di sempre e con non pochi proseliti, ormai sono diventati rassicuranti tappeti sonori balsamici, accomodanti muri di suono privi di qualsivoglia necessità. Certo è che qualche guizzo quest’ultimo album ce l’ha, e anche di un certo capriccio ecco, per cui non vendiamo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

https://open.spotify.com/user/micolash90/playlist/47PY2PDY9uePxoJm34bqBI

Babylon K – Babylon K [EP]

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Voi non immaginate quale cazzo di soddisfazione sia tornare sul mio blog. Sto passando delle settimane davvero di merda e una pausa per scrivere di musica mi ci voleva come l’aria. Cristo.

Cominciamo con una delle recensioni a richiesta che mi sono pervenute in questi giorni, i Babylon K.

Questi cinque virgulti fiorentini si sono cimentati nel loro primo Ep omonimo, pieni di belle speranze e riff, ma [domanda da un milione di dollari] fanno della musica con le palle? Il loro rock demolisce le pareti dell’inibizione e ci trasporta su un altro piano dell’esistenza, dove spazio e tempo trovano la loro definizione ontologica in Famme Cantà del Senatore Razzi?

No.

Non fraintendete, i Babylon K sanno suonare, Daniele Dainelli ha una voce che rientra tranquillamente nella categoria “da paura”, ma per il genere che suonano sono piuttosto prevedibili.
«Eh Beppe, se però non ce lo dici prima che genere fanno ‘sti fiorentini…»
E c’avete ragione da vendere, ma se fossi un buon recensore scriverei per Blow Up, e non su una piattaforma composta per il 90% da poeti mancati e blogger egocentrici che riescono a scrivere post di 50.000 battute sulla loro colazione.

Quello in cui si cimentano i Babylon K è quell’hard psych rock che va tanto di moda nel nord d’Europa, ma con una maledetta attitudine indie che rovina qualsiasi tentativo di fare un po’ di rock cazzuto.

Infatti l’unico problema di questo EP è che appena parte Feelings (il primo pezzo, of course) capisci di trovarti di fronte la versione “MTV approved” di Earthless, Golden Void, The Machine e via discorrendo, passando pure per buona parte del catalogo della Captcha Records.

I riffoni ci sono ma non pestano (al contrario, per esempio, di quelli “sabbathiani” dei Kadavar) e i risvolti psichedelici sono terribilmente banali, praticamente i Babylon K sono gli Arctic Monkeys dello psych rock: molta forma, zero sostanza.

Sicuramente in Why Are Living Now? l’atteggiamento è “loud & proud”, però per quanto concerne il lato compositivo siamo alle basi, il che di solito a me non da fastidio, ma in questo caso, e in questo particolare genere di appartenenza, mi fa abbastanza prudere le mani. Ovviamente con “basi” non intendo che hanno cominciato a suonare ieri, stile Ramones, ma che prendendo in considerazione la storia della scena hard psych, i Babylon K stanno vivendo ancora una fase piuttosto classicheggiante. 

Capisco che seguire le orme di Led Zeppelin e compagnia cantante aggiornandoli ai nostri tempi sia una cosa bella da fare, ma il problema è che ti ritrovi per le mani una gabbia compositiva che si definisce entro dei limiti espressivi dannatamente oppressivi. Il riffone, il ritornello, l’assolo, la voce che fa «AaaaaAAAaaAArrgh!» ma a questo punto le cose sono due:

  • o suoni da Dio (tipo i già citati Kadavar, che sono ancora più classici!)
  • o reinventi tutto
  • [bonus] infondi un profondo significato nel rapporto liriche-musica.

I Babylon K non hanno fanno nessuna di queste cose.

Insomma, un revival mascherato che però potrebbe portare lontano questa band, almeno in termini economici. Infatti se (e solo se) il mercato dovesse spostarsi da questo ritorno al funk ad assecondare le pulsioni hard rock che accomunano la lontana California all’Europa del nord, i Babylon K sarebbero in vantaggio di ben un EP sulla concorrenza.

Sono bravi tecnicamente, ascoltando questo esordio per qualche giorno ho sempre apprezzato l’atteggiamento e la voglia di “spaccare”. Ottima pure la produzione, sul lato tecnico c’è davvero poco da dire, ma il loro rock si basa su cose sentite e risentite fino alla nausea, senza la personalità di tante band tedesche e americane.

È piuttosto chiaro che con la batteria raddoppiata e tralasciando le nenie indie (magari ascoltando qualcosa dei primi Thee Oh Sees) ci sono delle belle potenzialità in gioco, devono solo trovare la loro dimensione.

Stairway To Heaven mi ha stufato!

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Rappresentazione concettuale della più celebre canzone rock di tutti i tempi.


Posso dirlo?
Davvero?
Nessuno di voi utenti del web mi stuprerà con del riso crudo per una tale bestemmia?
Non ci credo. Però lo dico.

Stairway to Heaven m’ha sinceramente rotto il cazzo.

Non sono di certo qui a fare il bastian contrario o scemenze del genere, questo tipo di blogging puerile non fa per me. Non sono qui nemmeno per contestare la qualità della canzone in sé (anche se il mito di una oggettiva superiorità su qualunque altro pezzo mi sta sulle palle), ma proprio il suo feeling col sottoscritto. Un post inutile, lo so, grazie per avermelo fatto notare.

I miei gusti musicali sono molto cambiati negli anni, migliorati (forse) e ampliati, però è difficile dimenticare i primi amori. Il prog inglese dei Genesis di “Selling England By The Pound”, i Pink Floyd (ma solo dal 1970 in poi, pensate che mi stavo perdendo!) e poi, ovviamente, l’hard rock sempre di stampo britannico di “In Rock” dei Deep Purple e gli immancabili Led Zeppelin.

Io adoravo i Led Zeppelin, erano come quattro lucenti divinità dorate, che ci poteva essere MEGLIO dei Led Zeppelin? Niente, cazzo. Anzi, se qualcuno proponeva qualcosa (qualsiasi cosa, nemmeno necessariamente musicale, tipo chessò: Madre Teresa) i Led Zeppelin gli erano indistintamente superiori, musicalmente, moralmente, eticamente, grammaticalmente, in qualunque senso.

Però c’erano due album, solamente due album di tutta la loro discografia che segretamente non sopportavo: “Presence” (detto anche “macchèmerdaè?”) e “IV”.

Immaginatevi per un odioso adolescente di un Liceo artistico cosa volesse dire una roba del genere. ‘Sti cazzi che lo spifferai a qualcuno, manco al mio miglior amico, sarebbe stata un’esclusione sociale pazzesca, già il mio «preferisco persino Lucky Starr di Asimov a quel finocchio di Harry Potter» mi aveva reso popolare come un professore di matematica, figuriamoci se avessi toccato l’album INTOCCABILE per eccellenza!

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Che poi a me “IV” (o “Zoso” o ZoSo”, come vi pare maledetti fanboy) non è che facesse cagare tout court. Insomma gente, abbassi la puntina e parte Black Dog, mica zucchine. Poi Bonham lancia con la sua solita veemenza Rock and Roll, e io ci provavo gusto. Ma poi arriva The Battle of Evermore. Che. Palle. Sul serio, mi sembrava di morire, mi contorcevo sul letto cercando di passare indenne quei quasi-sei minuti che sembravano dodici, dai cazzo, non potevano non piacermi, erano i fottuti Led Zeppelin! Poi la botta. Stairway to Heaven.

Vi dico subito che io il lato B di “IV” l’ho ascoltato una volta, come per “Fireball” dei Deep Purple, e m’è bastato, anzi: m’è avanzato. Pensate quello che vi pare, non me potrebbe fregare di meno, mi faceva cagare allora e mi fa cagare adesso. Vabbè, ora Four Sticks e Going to California non mi fanno più vomitare, però non esiste che io posi il piatto con una sincera voglia di risentirle. Da un bel po’. Ma parliamo di Stairway.

Lasciamo perdere vi prego le stronzate. Hanno copiato qualcosa dagli Spirit? E anche se fosse? Il 90% delle canzoni fondamentali degli Zep sono plagi, ma ne parlammo già in un post a loro dedicati (noterete delle sostanziali differenze con questo post, potete giurarci) quindi vi dico solo che non me potrebbe fregare di meno. Se la senti al contrario parlano di Satana e ti invitano a comprare gli album dei Kiss? No, però ti dico che le puntine non crescono sugli alberi. Uomo avvertito…

Detto questo a me Stairway to Heaven non piaceva nemmeno quando ero un fan sfegatato degli Zep. Il super-riffone e i berci animaleschi di Plant non mi attizzavano più, l’assolo celoduro di Page non mi eccitava, sinceramente quel pezzo primo in tutte le classifiche del mondo mi grattugiava il ravanello, e non poco.

Dov’erano i cambi e il dinamismo di What Is And What Should Never Be? Dov’era il blues sofferto di Since I’ve Been Loving You? Cristo, m’accontentavo anche di una caotica Celebration Day! Porca zozza, ma anche una rampante Gallows Pole mi stava meglio! – fra l’altro conosco un tizio il quale, giuro su mia madre, asserisce senza dubbio alcuno che Gallows Pole sia il miglior pezzo dei Led Zeppelin in assoluto.

La cosa che proprio non mi andava già era la struttura del pezzo, telefonatissima ma tirata per le lunghe come nei dischi dei Nazareth, e poi il sound…

Saranno le mie orecchie ad essere anormali, sarà che ho ascoltato la musica ad un volume esagerato fin da piccolo e sono diventato prematuramente sordo, non lo so gente ma il sound di Stairway to Heaven mi sembra così perfetto da non poter far altro che figurarmelo come un meraviglioso oggetto di design, interamente di plastica, con una forma estetica ineccepibile ma senza alcun fottuto utilizzo pratico. Eppure è il più venduto di tutti i tempi. E occupa pure parecchio spazio.

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Non che gli Zep fossero sporchi, anche se all’epoca mi sembravano perché, ovviamente, non avevo ascoltato molto altro, eppure Stairway mi sembrava proprio una roba esagerata e da tamarroni, non c’erano le palle di un Herthbreaker, era sciocca e banale in modo esagerato.

Oggi quando riascolto QUALUNQUE album di QUALSIASI band che mi attizzavano in quel periodo mi prende l’ansia. Non vedo l’ora di cambiarlo per un pezzo di plastica nera qualsiasi, Swell Maps, Thee Oh Sees, Mulatu, cazzo mi va bene pure Mimmo Cavallo ma basta con Led Zeppelin, Deep Purple e Genesis vi prego!

Per me Stairway to Heaven è il rock come NON mi piace (più), prima di tutto è barocco, c’è più barocchismi in quegli otto minuti che di tutta la Val di Noto, ha un testo che porta il demenziale in una nuova dimensione dove banalità e scontatezza sono gli unici due valori universali condivisi, l’assolo diventocieco è l’onanismo della chitarra che prende il sopravvento senza motivo, senza dire niente, senza voler trasmettere nulla se non l’erezione immane che Page si sta menando. Ecco, Stairway to Heaven è un rock, anzi, un hard-cock-rock perfetto, del tutto retorico e svuotato di qualsivoglia intento artistico o provocatorio, è stantio all’inverosimile. Mi ci volle un po’ per capire che è proprio l’hard rock ad essere così, ed è da quella modesta rivelazione che ho ripudiato tutti gli album che adoravo e ho cominciato a dubitare seriamente del valore finora per me inopinabile di quelle band.

In fondo è proprio quel tipo di rock che affossa il genere rendendolo solo un’immagine, un’estetica non ponderata ma superficiale, un sound piatto ed estremamente dogmatico.

Molti mi chiedono come faccio ad ascoltare “Metal Machine Music” senza impazzire. Beh, la risposta a secco è «perché in effetti, per quanto possa essere raccapricciante, mi piace» ed è fin troppo sincera. Ma il punto principale (oltre a tutte le riflessioni che ho sinteticamente spiegato nel post dedicato all’album di Lou Reed, e alla stimolante discussione con Sandro59 che ne ha ampliato non poco la profondità) credo sia: perché non è la solita solfa.

Anche gli album più brutti dei Residents (eh sì, anche loro ne hanno fatti di bruttini di recente) valgono un miliardo di volte qualsiasi sfiatata di Plant e compagni, rei di aver creato un genere che per moltissima gente è il Rock con la “r” maiuscola mentre invece è una dannata gabbia espressiva, dalla quale possono uscire solo dei «baby-baby-baby-mmm», qualche dannato riferimento tolkeniano e quei cazzo di assoli brit-milà-da-attrito che hanno largamente rotto i coglioni.

Bene, da domani posso chiudere il blog.

O forse è meglio farlo stasera.

Sul presto.

A seguire la prova che con Stairway To Heaven non riesci nemmeno a rimediarci un po’ di figa:

Billy Squier – Don’t Say No

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Ho sempre pensato che se avessi bruciato il vinile di “Don’t Say No” di Billy Squier, una qualche divinità benevola mi avrebbe fornito una devastante spada di fuoco, con la quale avrei posto fine al male assoluto (quindi a MTV). Ed invece fece solo una gran puzza, sciogliendosi e contorcendosi nella fiamma, evaporando e innalzando notevolmente la soglia dell’inquinamento in Toscana.

Al pensiero che il mondo sia pieno di zombi che adorano questo pimpato “virtuoso” della chitarra mi verrebbe voglia di fare come il vecchio di The Strain e decapitarli tutti. Ed invece, come dico sempre, la colpa della musica di merda non è mai dell’ascoltatore, lui è libero di ascoltare quello che gli pare senza che nessuno gli rompa i coglioni, la colpa semmai è dei  musicisti che la producono, anzi: che la defecano questa musica da quattro soldi, a loro bisogna fargli le scarpe. È un dovere morale.

Billy Squier s’innamora della chitarra tramite gli assoli di Jimmi Page e Eric Clapton. Agli inizi della sua carriera, ancora giovanissimo, farà da spalla ai Kiss, ai Queen e ai Def Leppard. Praticamente lo aveva scritto nel DNA che avrebbe creato alcuni dei più brutti album della storia del rock.

Dei Zeppelin ha la spocchia, dei Kiss l’abilità (nel fare soldi) dei Queen la tamarraggine spropositata.

Dopo che si era fatto un nome prestando a destra e manca le sue innate abilità nello stuprare le cinque corde, la Capitol, che negli anni ottanta ci ha fornito quasi in esclusiva tutti i peggiori album della storia, gli produce l’inascoltabile esordio “The Tale of the Tape” nel 1980, ma fu nell’anno successivo che Squier produsse il suo più grande successo: “Don’t Say No”.

Sui testi  di questo album sorvoliamo perché nel rock, lo sappiamo bene, non è proprio l’aspetto che di solito eccelle, se poi parliamo di hard rock c’è solo da piangere.

La fatica che provai ascoltandolo tutto è incomparabile, ogni tanto mi ritrovai ad alzare la puntina per respirare.

Già da In The Dark, pezzo d’apertura e primo singolo uscito per sponsorizzare questo abominio, ci sono tutti i punti di forza di Squier: la voce da rocker anni ’70, bello virile finché non tira qualche falsetto di improvvida femminilità, e ovviamente la sua chitarra protagonista di tremende incursioni del tutto decorative per dare sostanza al pezzo, buttate lì per stupire il chitarrista brufoloso in ascolto. La tastiera suonata da Alan St. John sembra uscita da qualche videogioco degli anni ’90, il finale con quei coretti «ah-ah-ah» fanno presagire ad una svolta disco di Squier. Billy Squier & The Sunshine Band. Non suona male. Cioè, suonerebbe comunque malissimo, ma vabbè.

Il vero pezzo forte arriva subito dopo. The Stroke. Vi sfido a trovare qualcosa di più tamarro di The Stroke, qualcosa di più deprimente nella storia dell’hard rock o di MTV. Cosa dovrebbe esprimere la musica di Squier? Rabbia? Protesta? Divertimento? Ansia? Indigestione? A me sembra qualcosa di pensato per i corridori, o per quelli che si allenano in palestra sei giorni alla settimana e il settimo lo lasciano per gli steroidi. Un rock muscolare, un cock-rock tutto bicipiti e quadricipiti.

Probabilmente non c’è modo migliore contestualizzare The Stroke come in questo geniale film del 2007, Blade of Glory:

Segue una imbarazzante My Kinda Lover, un ponte ideale tra Queen e Danko Jones, anche se perlomeno Jones ci mette dell’ironia (e così si salva la faccia), invece Billy ci crede davvero cazzo, eccome se ci crede.

Quando sfuma My Kinda Lover comincia, con il ritmo serrato di Bobby Chouinard alle pelli, You Know What I Like, anche qui il testosterone è così alto che ti crescono i baffi mente ascolti la voce di Squier, i lancinanti lacchezzi alla tastiera di St. John invece sono solo da galera. Il pezzo, inoltre, sfuma proprio nel momento culminante, lasciando il dubbio che fosse una scelta di sintesi stilistica o una semplice dimenticanza.

Ed eccoci a Too Daze Gone, con un attacco che avrà fatto piangere sangue ai Little Feat, infatti gli sprazzi di southern rock sono al servizio dell’onanismo selvaggio di questo album, una volta finito di ascoltarlo tutto probabilmente non potrai fare a meno di bere birra, scorreggiare ed insultare le donne perché osano essere donne.

Altro singolo di successo, l’atroce Lonely Is The Night, il riff tamarro alla Brian May, l’ambiguo romanticismo di Billy Squier ricorda nei suoi momenti migliori le dolci ballad di Charles Manson.

Si sente eccome Jimmi Page negli slide di Wadda You Want From Me, mentre St. John campiona qualche suono da Space Invaders o qualcosa del genere. Roba per palati fini.

Di solito a metà di Wadda You Want From Me staccavo la spina e mi sparavo gli Who, ma per fare la recensione ho ascoltato anche il resto. Che perle mi stavo perdendo.

Che dire di Nobody Knows? Neanche il più ispirato Barry Manilow poteva tirare fuori un’oscenità del genere, forse la peggior ballad che abbia mai sentito insieme a Haunted dei Deep Purple . Se per caso un giorno decidessi di scrivere una canzone del genere credo che di colpo perderei la ragazza, gli amici, l’anima, ma non i baffi.

I Need You, invece, sembra scritta da un quattordicenne in fissa con i Hanson. Si conclude alla grande con la title track (che inizia con uno sfumato in entrata… sul serio… cristo…) la quale penso rientri ad una buona posizione tra i cento pezzi più inascoltabili della storia del rock.

La cosa bella è che non solo Squier visse un periodo di successo incredibile (se lo hanno avuto anche gli Wham! lo possono avere tutti) ma la cosa curiosa è che questo finì non perché la gente si accorse che la sua musica faceva cagare, ma a causa di un video musicale!

Non la sapete? Nel 1984 era appena nata MTV e mandavano a rotazione merda (così piccola eppure già con le idee chiare!). Niente di nuovo sotto il sole, ok, ma tra tutta questa merda c’era pure un singolo di Billy, preso dal suo nuovo folgorante successo in vinile: “Signs of Life”, già segnato fin dalla nascita da una copertina abominevole. Il pezzo in questione è Rock Me Tonite, il quale sebbene fosse impreziosito dalla produzione di Jim Steinman e dalle coreografie (vomitevoli) di Kenny Ortega, fu un successo clamoroso solo per le classifiche di Billboard, mentre il pubblico che adorava Billy da Rock Me Tonite in poi volterà le spalle al loro idolo perché (attenzione attenzione!) il video gli faceva cagare

Ed ecco come la musica vuota ed insignificante di Squier appena non riesce a vendersi con un giusto mix di pubblicità e immagine macho decade nelle fogne dalla quale è sortita.

Il video l’ho visto, è abbastanza brutto e quindi ve lo consiglio:

Va anche detto che il pubblico americano è fortunato, crede che quello di Squier sia uno dei peggiori videoclip della storia, ma evidentemente non ha mai visto questi tre:

[Se volete saperne di più non avete che da cliccare QUI a vostro rischio e pericolo.]

Spero che a nessuno di voi capiti mai l’orrore di possedere uno degli album di Billy Squier, ma se vi piacciono sul serio sappiate che il cadavere di Dee Dee Ramone si sta scopando vostra madre.

Audacity, The Blind Shake, White Night, Electric Citizen

Quattro succose recensioni in un solo post! Ma è così palese la mia pigrizia? Sigh…

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I californiani Audacity sono un nome che forse avrete già sentito, infaticabile band presente in più o meno tutti i festival punk-garage e giù di lì, nel 2012 pubblicano il loro primo album dopo due EP mediocri: “Mellow Cruisers”. Tutta energia punk rock, niente sostanza, un album adatto ai lunghi tragitti in auto (anche se con la sua mezz’ora scarsa di durata ci fate al massimo Pontassieve-Firenze), chiaramente siamo di fronte ad un prodotto che è sfizioso finché rimane a 5$, e con la premessa necessaria di una buona dose di euforia in corpo, perché gli Audacity non hanno molto da dare a parte il sudore.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://audacityca.bandcamp.com/

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Direttamente da Minneapolis nel ridente stato del Minnesota arrivano i The Blind Shake, e qui alziamo un po’ il tiro. Cattivi, garage, incazzati il giusto, magari senza le melodie più orecchiabili degli Audacity ma con qualcosa in più nella sostanza. Figli spirituali dei Rocket From The Crypt di John Reis (con cui hanno anche collaborato) nel loro secondo album, “Key to a False Door”, puntano su un mix bello deciso di garage e sudore, con quelle classiche cavalcate punk alla John Reis per l’appunto, qua e là troverete anche qualche riff memorabile (Le Pasion, Calligraphy, la surf-punk Crawl Out, Garbage on Glue e 555 Fade).

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Uscito nel maggio scorso “Prophets ov Templum CDXX” dei californiani White Night fa un casino della madonna, non inteso sempre come un aspetto positivo. Fughe pop come Alone sarebbero molto apprezzabili se accompagnate dall’eleganza melodica di un Jeffrey Novak o dalla vena psych dei White Fence, ed invece la caratteristica principale dei White Night è quella di non essere né carne né pesce. Non emozionano, non sperimentano, non fanno sufficiente casino, però suonano discretamente.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://whitenight420.bandcamp.com/album/prophets-ov-templum-cdxx

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Eppure c’è una band che potrebbe far faville, vengono dall’Ohio, si vestono da satanisti anni ’70, il loro hammond sembra uscito fuori dall’Inferno e sono probabilmente il prospetto hard rock più interessante del panorama contemporaneo. Gli Electric Citizen non hanno ancora pubblicato un cazzo (ma il loro primo album, “Sateen“, dovrebbe uscire il primo Luglio!), ci sono solo due singoli su bandcamp e qualcosina nella giungla dell’internet, ma bastano quei pochi ascolti per capire che la RidingEasy Records le sta azzeccando tutte da un pezzo. Non siamo sulle frequenze doom-blues dei Kadavar, né sul blues-rock dei Blue Pills, questo è hard rock vecchia scuola, Deep Purple e Black Sabbath ne sapevano qualcosa.

  • prima impressione: 7/10
  • link per prenotare ‘sta bellezza: http://ridingeasyrecords.com/product/electric-citizen-sateen-vinyl/

E ora video come se piovesse:

Questa è Burning in Hell, ditemi voi che ne pensate.

Altro riffone dei Electric Citizen registrato probabilmente col culo.

Altro singolo, Light Years Beyond.

Degli allegri Audacity con Subway Girls.

Un po’ di garage con Garbage on Glue dei The Blind Shake.

Rock Tamarro (2)

Ritorna la vostra rubrica preferita, pervertiti! Voi che in una mano stringete “Burnt Weeny Sandwich” di Frank Zappa e nell’altra (quella zozza, la mascalzona) “Bat Out Of Hell III: The Monster Is Loose” di Meat Loaf.

Abbiamo tutti nella nostra collezione di album un angolo oscuro, un cassettone che non viene mai aperto se non nella totale solitudine, indove alberga l’osceno e irrazionale piacere del MALE.

Sì perché il rock tamarro è il male, come avevamo già detto qualche post fa:

Il rock tamarro è quel rock che esaspera le sue caratteristiche fino a farlo diventare caricaturale.

Non fate finta di niente, sapete bene di cosa parlo. Oppure siete metallari, e allora non capite un cazzo.

Eccovi dunque una breve lista di nuove perle, anche se stavolta bisogna fare attenzione e non vomitare insulti senza ragionare un pochino prima. Sono presenti delle eccezioni, quindi leggete anche la descrizione e indignatevi se vi insultano la mamma, non il vostro clavicembalista preferito, OK?

Cominciamo.

Raramente ho odiato un paese, un popolo, per aver partorito un qualsiasi orrore nella storia. In fondo le colpe dei padri non possono e non devono ricadere sui figli. Però per i Sektor Gaza (Сектор Газа), non c’è scappatoia che tenga: i  russi la devono pagare, e la devono pagare cara.
Pretendo, quantomeno, una colletta per ripagarmi dei 9 euro e 99 centesimi che mi è costato questo disco posseduto dall’unico demone senza gusto musicale.

No.
No.
Non mi interessa.
Non accetto che esistano persone che non solo vanno ai concerti di Russ Ballard, ma si comprano i suoi album consapevoli e accondiscendenti. In confronto a lui anche Meat Loaf sembra modesto come Madre Teresa e pudico come Papa Francesco. Mescola tutto il peggio dell’hair metal, il rock commerciale anni ’80, ci mette Sammy Hagar, i Van Halen, qualcosa degli ultimi Queen, il tutto con quella presenza ingombrante nelle live di laser e fumogeni. Ogni suo concerto sembra un serata barbecue in casa Moroder.

Gli Atomic Rooster suonano da Dio. C’hanno i capelloni, sono anni ’70 fino alle unghie smaltate dei piedi, sono hard, sono prog, sono inglesi. Hanno più o meno tutto quello che non sopporto nel rock. Per questo sono un piacere perverso. Tamarro per loro non è una offesa, è uno stile di vita che va dagli assoli lunghi otto ore agli effetti psichedelici senza senso né motivo di esistere, dai riff che passano di cassa in cassa circondandoti neanche fossi un fuggitivo da cinque stelle a GTA. I loro album sono tutti grandiose esplosioni di tamarraggine senza freni né vergogna. Gli Utopia gli fanno la bustina del tè, se capite cosa intendo.

Io amo i Mountain. Sì, mi piace l’hard rock, pazienza, abbiamo tutti un male che alberga dentro, pensate che c’è chi ama i Radiohead. Però, cazzo, questa cover che cacchio ci sta a fare? Cover poi è una parola grossa, questo è un chiaro caso di tamarrazione di un pezzo rock, roba che anche i buoni Smithereens hanno onestamente provato più volte a fare, ma senza questi risultati devastanti. Quando ascolto questa tamarrazione sento i miei capelli allungarsi e arricciarsi, i peli sul petto brillano di luce propria e fuoriescono da una camicia di lino con fantasie degne delle copertine dei Grateful Dead, riesco solo a parlare di pace amore e canne, cazzo: io odio i Mountain.

Per avere questa leccornia dovete proprio essere dei fumati come me, perché non è nell’edizione normale del vinile, ma in quella limitata, che mi è costata più di quanto ammetterei mai. Folli, commerciali, vestiti come negli incubi di un Jim Henson in stato lisergico, i mitici Doctor and the Medics di “Laughing at the Pieces” (1986) sono il massimo ritrovato medico contro Tom Waits, Ty Segall, Ramones e quanto di buono esista su questa terra.

È il lato oscuro, avrete il coraggio di esplorarlo?

Fuzz – Fuzz

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Secondo voi davvero mi sarei fatto sfuggire l’ultimo album di Ty Segall, anche se mascherato da side project?

Solo che più va avanti il californiano e meno parole si trovano per descrivere la sua musica. Invece che raffinarsi il buon Segall sta regredendo alle sembianze di un cavernicolo, andando a ripescare suoni e sensazioni di fine anni ’60 inizi ’70.

Mollata la sindrome post-depressiva di “Sleeper” (2013) e senza ricercare i furori lancinanti di “Slaughterhouse” (2012) questa volta il californiano prende le bacchette e si appropria della batteria sempre con la solita classe che lo compete, suonando come un dannato cane (e ci piace proprio per questo!).

Lasciando che sia Moothart (il bassista normalmente) a prendere le redini della chitarra solista il sound spregevole di Segall vira decisamente sulla psichedelia e l’hard rock. Eh, ma mica quella roba alla Time con White Fence che abbiamo assaporato tra alti e bassi in “Hair” (2012), qua si gioca pesante sul serio.

Le evoluzioni psichedeliche dei Blue Cheer incontrano la lentezza e la mastodonticità dei Black Sabbath, copulando in una bella ammucchiata a tre con gli Hawkwind, poche orette di jam dopo partoriscono i Fuzz.

Che c’è da dire? Riff su riff che si susseguono con micidiale ineluttabilità, Segall pesta sulla batteria come un bambino arrabbiato, Charles Moothart spara migliaia di decibel contro un pubblico attonito, Roland Cosio smanaccia su un basso le cui note non si colgono con precisione, ma le ripercussioni telluriche sono notevoli.

Sminuito dai poveri miscredenti che si stanno menando forte il cambio con esperimenti noise e sull’ultimo disco di Chelsea Wolfe, questo ennesimo atto di terrorismo sonoro perpetuato da Segall è quanto di più rock si possa chiedere ad un essere umano. Non mangerà pipistrelli, ma è pur sempre un figlio del buon Satana.

Stanotte sacrificate i vostri dischi dei Radiohead al caro Satana e al suo figlio primogenito: Ty Segall.

  • Pro: poche cose uscite di recente, a tutto volume, fanno tremare la terra come questo album.
  • Contro: beh, a parte il sound hard, il rock infernale e i riffoni da erezione perpetua, non c’è altro.
  • Pezzo consigliato: Fuzz’s Fourth Dream.
  • Voto: 7,5/10

Suck – Time To Suck

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– Guarda che ‘so un gruppo sud-africano con le palle!
– Non lo metto in dubbio, anche le cover presenti sembrano gustose, però vorrei ascoltarlo prima. –
– T’ho detto che c’ho il piatto sfasciato, dai gesùmadonna, te lo fo’ a quindici euro, ed è pure origgginale. –

Era un po’ che non rimpinguavamo la sotto-categoria “buttare i soldi dalla finestra”, e credo che qualche consiglio al non-acquisto possa solo giovare alle tasche altrui.

In realtà “Time To Suck” (1970) è una mia vecchia conoscenza, tre anni fa stavo in fissa per i Freedoms Children, band hard-psych-rock anni ’70 sudafricana, e un tizio, quello del dialogo riportato come incipit del post, ascoltando i miei deliri su questa band mi consigliò i Suck, coevi e connazionali dei Children.

Quanto sono stato coglione.
Già dal titolo e dal nome della band avrei dovuto dedurne le caratteristiche, eppure quando mi prende una fissa sono piuttosto predisposto alle inculate.

In questi tre anni ho incontrato molta gente che conosceva questo album (ma nessuno che lo possedeva materialmente) e i giudizi erano piuttosto inconciliabili. O proprio li odiavano oppure li amavano con moderazione.

Bisogna dire in difesa di questa band anch’essa hard-psych-rock (che significa: riffoni alla Mountain mescolati a tinte psichedeliche alla Move-Donovan) che alla fin fine “Time To Suck” non è per niente un disco di merda. È solo un disco sbagliato.

Essendo “Tempo di succhiare” un album principalmente di cover è costretto a rivisitare dei classici rock in modo originale. Se non ci riesci stai semplicemente suonando un pezzo scritto da un altro amigo.

Per alcuni i Suck ci riescono, per me invece il disco è una straordinaria parodia dell’hard rock. Un monumento trash alla pari di “Glitter” di Gary Glitter o “Bananas” dei Deep Purple.

Per riuscire a provare piacere da questo album bisogna essere feticisti di quel sound ad un punto tale da non avere più coordinate razionali per giudicarlo. È la totale estasi sessuale che acceca i sensi e il cervello, altrimenti non si spiegherebbe perché Joe Satriani riesce ancora a vendere le ristampe di “Crystal Planet”.

Si apre con Aimless Lady dei Grand Funk Railroad e già c’è tutto. Virtuosismi vocali, passaggi veloci e un sound così hard da sembrare taroccato. Tutto troppo esasperato per poter passare per una cosa seria.

Si passa veloce ad una breve, confusa e a tratti leggermente delirante, versione di 21st Century Schizoid Man. Il livello è quella della classica band prog italiana che coverizza il successo rock del momento.

L’unico vero gioiello è la posata Season Of The Witch del buon Donovan, sentendola mi sono chiesto come sarebbe stata une versione dei nostrani Metamorfosi.

Assieme a qualche cover di Free, Colosseum e un’altra dei Grand Funk (con un attacco di chitarra formidabile), c’è posto anche per i Deep Purple e qui si va nel trash storico. Mitica e scandalosa versione di Into The Fire che così si unisce alla ben più nobile trashata (il riadattamento del testo è epico) dei Vocals: Il cuore brucia.

Che dire, se siete storici dell’hard rock e volete avere tutto, ma proprio TUTTO questo discone è imprescindibile. Stesso discorso se siete dei perversi feticisti del trash made in seventies. Se invece cercate un buon album hard rock anni ’70 rivolgetevi ai Mountain o a qualche band più competente.

  • Pro: è sempre interessante poter ascoltare in che modo gli impulsi del rock americano siano arrivati ovunque, e con quali conseguenze nel sound.
  • Contro: non riesco a smettere di ridere mentre ascolto War Pigs*. È più forte di me. Ma non il ridicolo (malpensantidi’stocazzo) ma per il tono allucinato del cantante e le percussioni sconclusionate.
  • Pezzo Consigliato: cazzate a parte, Season Of The Witch ha più di una buona idea.
  • Voto: 4/10

*ATTENZIONE, la delirante versione di War Pigs è contenuta soltanto nella nuova riedizione in CD, non nel LP originale!

Franz Ferdinand, Kid Congo and The Pink Monkey Birds, Boards Of Canada, The Dirty Streets

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Ultimamente, ma già da anni in realtà, acquistare dischi originali è diventata una spesa insostenibile.
Personalmente se tutto va bene riesco ad acquistare un album al mese, che non è poi così male perché c’è chi se la passa peggio. Internet aiuta, non solo con il file sharing e i vari peertopeer e lo streaming, ma anche con l’acquisto di album digitali a prezzi estremamente vantaggiosi (parlo chiaramente di band poco conosciute, le altre ti sfondano il culo con la sabbia, dannate rockstar multimiliardarie).

Di recente grazie al ritorno in auge del vinile le mie possibilità di ascoltare tutto quello che passa in giro si sono moltiplicate a dismisura. Non perché costino meno, ma perché posso passare intere giornate dal mio pusher di fiducia a far girare dischi sul piatto senza doverli comprare una volta ascoltati. Mica male, nevvero?

Se escludiamo i Boards of Canada, le altre tre recensioni che seguono sono state possibili grazie a questa pratica, tipica fra l’altro nel gentile mondo del vinile.

Le prime tre recensioni sono tre dischi molto chiacchierati dunque ero davvero curioso di ascoltarli!

Anche stavolta, come nell’unico caso precedente, le recensioni sono moooooolto più corte del solito perché, per quanto mi riguarda, c’è poco da dire.

Franz Ferdinand, “Right Thoughts, Right Words, Right Action: Trovo incomprensibile come si parli ancora di brit-pop. L’invasione, la seconda, è stata qualitativamente assai povera. Il fatto che ci sia ancora gente che crede davvero che gli Oasis siano una buona band non mi sfiora, in fondo c’è chi crede che Fabio Volo sia uno scrittore, che dobbiamo fare? I Ferdinand arrivarono assieme ai Kaiser Chief e i Klaxons, un’invasione di mediocrità salvata da alcune idee interessanti degli ultimi citati. Questo ultimo album prosegue sull’inevitabile discesa della band, cominciata con un pop che strizzava l’occhio a forme prog tascabili, passata con “You Could Have It So Much Better” a sfornare singoli piuttosto appetitosi, e dopo di che il nulla, che ben si conferma con questo ennesimo disco fotocopia (con sempre meno inchiostro). Se vi piacciono può starci, però è un disco terribilmente modesto.

[voto: 4,5/10]

Kid Congo and The Pink Monkey Birds, “Haunted Head”: qui siamo di fronte ad un disco interessante che devo riascoltare con calma. Kid Congo è sinonimo di qualità, è il suono infatti è di qualità, ma lo è anche la musica? Ascoltando “Haunted Head” si rimane affascinati dal gusto dark del garage di Kid, ben studiato, forse troppo. Non c’è la goliardia dei Cramps, o la vivacità di un Return to the Haunted House dei Fleshtones, sembra quasi che l’album si concentri più sull’atmosfera che sul rock, il che sinceramente alla lunga stufa. Il disco comunque va ascoltato essendo una delle proposte più chiacchierate dell’anno (e non da Rolling Stone, tanto per intenderci). Insomma, ditemi un po’ anche voi che ne pensate!

[voto: 5/10]

Boards of Canada, “Tomorrow’s Harvest”: tutti parlano di questo album. Perché? Non ne ho idea in realtà, devo dire che ancora una volta i Boards si confermano tecnicamente (e tutti si stanno facendo i segoni mettendoli in confronto ai Fuck Buttons) però non capisco bene cosa dovrebbero comunicarmi quest’ultimo lavoro. “Leggerezza”, “speranza”, queste sono alcune delle parole utilizzate per descrivere il viaggio musicale accompagnati dai synth dei Boards, però, dannazione, che noia. I nostri sono tempi piuttosto complessi, pieni di tensioni internazionali, disgregazione sociale, la crisi economica, le rivoluzioni, invece per i Boards i problemi sembrano essere altri, anzi: non ne esistono proprio. Questo è un album per viaggiare forse al di là dell’ansia esistenziale del 2013, peccato che se davvero fosse così allora i toni dovrebbero essere più “allegri”, se invece fosse un viaggio più introspettivo un po’ più gravi e meno pop. Sinceramente i Boards of Canada, per quanto mi riguarda, fanno una musica simpaticamente estetica, ma nulla più.

[voto: 6/10]

The Dirty Streets, “Blade Of Grass”: sì! Questo è un buon acquisto! Tranquilli, è la cosa più lontana dal capolavoro che possiate immaginare, però è roba buona, autentica, senza pretese. Vi ricordate quelle fighette degli Answer? Band hard-rock-revival vestita come una cover band dei Deep Purple infighettati oltremodo (praticamente il male)? Bene, questi sono l’opposto, anche se fanno la stessa merda. Però gente, questa è merda di qualità, hard rock anni ’70 fatto bene, pochi cazzi. Undici pezzi a fuoco, nessuna pausa, nessuna melodia melensa (oddio, una in realtà ci sarebbe…), ovviamente se non vi piace il rock auto-referenziale e per fare le pulizie di casa ascoltate i Faust, allora questo album non fa per voi (insomma: uomo avvertito…).

[voto: 6/10]

Una piccola postfazione sul voto.
In alto troverete una pagina “la guida ai voti” dove spiego con che metro giudico gli album, in questo caso però vorrei specificare la diversità delle due sufficienze tra i Boards of Canada e i The Dirty Streets. I primi hanno una buona tecnica, sono musicisti proiettati verso il futuro mentre i Dirty rimembrano ancora con una certa nostalgia quei ’70 andati perduti. Però, come detto nella breve recensione, i Boards sfruttano questa tecnica senza dargli una direzione concettuale, è musica prettamente estetica, che ha poco a che fare con l’argomento principe di questo blog: il rock. I Dirty invece rockeggiano a tutto spiano, peccato che siano fuori tempo.

Due 6, ma con significati e valori piuttosto diversi.

Nirvana – Nevermind

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Perché i Nirvana ebbero tanto successo?

Da una parte ci sono i fan, i quali semplicemente ti rimandano ad ascoltarti i loro album, dall’altra i detrattori, che li trovano una band normale (se non indecente) che ha semplicemente solcato l’onda di una moda.

C’è bisogno di fare ordine.

Partiamo da lontano, ovvero dall’hardcore. Intorno alla fine degli anni ’70 il punk inglese libera in America un’idea di rock in realtà sopita da qualche anno, ovvero quel proto-punk primordiale che aveva le sue origini nei The Stooges e sopratutto nei MC5. Perché prendo proprio la band di “Kick out the jams” in maggior considerazione? Semplicemente perché era una band fortemente politicizzata, proprio come il movimento hardcore.

Ma se gli MC5 appartenevano ad un partito vero e proprio (il White Panther, estrema sinistra) invece l’hardcore non si tende a relegarlo ad un partito vero e proprio, ma piuttosto come un movimento di protesta verso una singola persona: Ronald Reagan.

Reagan cominciò la sua avventura politica nelle file del partito Democratico, ma spaventato dal crescente pericolo del comunismo passò ai repubblicani (è importante tenere conto di questa paura che perseguiterà Reagan e ne influenzerà enormemente la politica una volta Presidente).

Non è infatti un caso se dopo aver perso contro Ford (come candidato per i repubblicani, ovviamente) nel 1976 imbastirà un famoso discorso in cui getterà il seme della sua futura campagna elettorale basata sulla paura del “pericolo rosso”.

Nel 1981 diventa Presidente, nel suo celebre discorso d’insediamento, dopo aver accennato alla crisi economica che ciclicamente attanaglia gli U.S.A., proferirà la famosa frase: “In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem.” Grillo ne sarebbe fiero.

Detto ciò nel 1981 band come T.S.O.L., Black Flag (ora con Rollins alla voce), Flipper, D.O.A. e Bad Brains trovarono modo di esplodere definitivamente, generando l’hardcore americano.

La forza di questo movimento è l’odio contro Reagan e la sua politica di austerità, presto migliaia di band si uniranno e le varie fazioni dei diversi stati cominceranno a girare per tutto il paese.

L’energia sprigionata in quegli anni fu devastante, le due band di spicco erano i Black Flag, con il loro hardcore velocissimo e potentissimo nelle live, e i Bad Brains, i quali, al contrario delle altre band, sapevano suonare.

Ci sarebbero fin troppe formazioni da citare, ma non perdiamo la bussola. Questo hardcore però finisce presto, finisce con la rielezione di Reagan nel ’85, che sancisce la fine di un sogno e la speranza che l’hardcore potesse in qualche modo cambiare le cose.

Per fortuna i semi gettati da queste band fioriranno presto.

I Bad Brains, trasformatosi in una band di reggae (è così) lasciano il timone ai Beastie Boys (che prima spaccavano i culi), arrivano i virtuosi Minutemen, i Hüsker Dü e i Meat Puppets, tutte band che influenzeranno non poco i Nirvana.

Quando nel 1987 i Nirvana compiono i primi passi vengono subito presi in simpatia.

La loro tendenza segue il punk-rock con incursioni di hard-rock, tipiche di quegli anni orfani della prima ondata di hardcore.

Le loro performance nei locali di Aberdeen (assieme ai Melvins) non saranno esaltanti per la band, la quale si unirà ben presto alla scena emergente di Seattle. Se l’hardcore nasce in tante città americane, e solo dopo la prima ondata arriverà anche a New York (le leggende narrano dopo uno storico concerto dei Bad Brains), a Seattle invece si riunisce una forte tendenza hard-rock, la quale rallenta tantissimo i ritmi forsennati dei Black Flag portandoli a quelli pesanti e mastodontici dei Black Sabbath.

Non ne farà di certo un segreto Cobain, i Nirvana prendevano dai Knack come dai Black Flag, dai dimenticati Bay City Rollers ai Black Sabbath.

La band avrà un successo enorme a Seattle, mostrandosi una delle più amate nel circolo underground emergente.

Quando nel 1989 pubblicano “Bleach” le trentamila copie vendute non sembrano così poche. Anzi. Per una band di una scena emergente e così fuori dal mainstream era un ottimo risultato. Non saranno virtuosi come gli Hüsker Dü, né violenti come i Melvins di “Ozma” (in “Bleach” alla batteria per soli tre pezzi parteciperà proprio Dal Crover, il batterista che sostituirà Dillard nei Melvins), ma “Bleach” è un album pesante e piuttosto hard, con tematiche che colpiscono fortemente l’immaginario collettivo americano di quegli anni.

Di certo non sono i testi il valore in più dei Nirvana, nulla di che come liriche (non che nel rock in generale ci siano chissà che cime) ma la voce di Cobain farà diventare ogni pezzo dei Nirvana un vero e proprio inno generazionale.

Sempre sull’orlo di spezzarsi la voce di Cobain è tra le più espressive di tutta la storia del rock, segno anche di una personalità fragile ma all’epoca ben lontana dalle terribili pressioni emotive che la condurranno ad una fine tragica.

Ma l’impensabile arriva con “Nevermind”.

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La premessa storica è necessaria per capire come “Nevermind” fosse un album incredibilmente al di fuori dell’idea di rock che i media propinavano (e propinano) alle persone, frutto proprio di quella rabbia e di di quella frustrazione che ha le sue radici nell’hardcore.

È un album scomodo “Nevermind”, un album che svetta al primo posto aprendo le porte a tantissime altre band (primi fra tutti Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam) e dando voce all’underground (Melvins e Meat Puppets tra tutti).

Il messaggio di “Nevermind” era destabilizzante, un attacco diretto all’establishment dal suo interno, proprio come disse “King” degli Urge Overkill:

[…]anche se in maniera indiretta, “Nevermind” manda affanculo il governo, lo status quo e gli imbecilli. E si può estendere tutta la loro filosofia all’anti-razzismo, l’anti-fascismo e l’anti-censura.

Tanti gli atti della band che sovvertivano lo status quo delle majors, a partire dal celebre video di Smell Like Teen Spirit, in cui la band decise di suonare davvero scatenando il putiferio negli spalti (il tutto assolutamente in disaccordo con il regista, il quale però riprese comunque anche dopo che la situazione andò fuori dal suo controllo).

Oppure la loro esibizione a Top of the Pops, in cui sempre contro le regole chiesero che la voce non fosse in playback, e imbastirono uno show demenziale che mandò su tutte le furie i direttori dello show.

I Nirvana non potevano essere corrotti perché autentici, non erano una band costruita a tavolino per essere fotogenica e piacevole, tutt’altro.

Cobain fu dapprima il più entusiasta del successo, ma mano a mano che esso cresceva sempre di più in lui crescevano anche i problemi. La droga sarà certamente il fattore scatenante che portò ad una spirale decisamente discendente il giovane rocker.

Il grande successo della band, planetario dopo “Nevermind”, è l’apice di un lungo percorso che vide nei Nirvana una band portatrice di un forte messaggio politico e sociale, figlio dell’hardcore e del suo successivo fallimento. È la storia di ben due decenni d’America condensati in una band, non è un caso se la parola “empatia” sarà usata molto spesso per spiegare lo stato d’attrazione dei fan alla figura di Cobain.

Non ci deve stupire quindi che l’ultima lettera che Cobain scrisse, pochi istanti prima del suicidio, fosse rivolta prima di tutto ai suoi fan.

Se band che hanno sfornato album che sono la Storia del rock, come “Double Nickels on the Dime” dei Minutemen, “Meat Puppets II” dei Meat Puppets o “Zen Arcade” dei Hüsker Dü oggi sono oscurate dalle chitarre distorte di Cobain, dai ritmi e dalle melodie tutt’altro che rivoluzionarie dei Nirvana, è dovuto alla forte autenticità che si cela dietro il messaggio e la storia (ben più profonda) che questa band rappresenta.

Sì, lo so che non ho recensito “Nevermind”, sono un coglione.

  • Pro: un album storico, la voce di almeno due generazioni.
  • Contro: se preferite “Double Nickels on the Dime” al fottuto grunge si ‘sta ceppa non posso di certo dissentire. Anzi.
  • Pezzo consigliato: Polly è struggente e decisamente rappresentativa dell’angoscia e delle ripercussioni emotive della fine prematura dell’hardcore.
  • Voto: 6,5/10

Mountain – Climbing!

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Fare le recensioni serie va bene fino ad un certo punto.

Sopratutto se parliamo di rock.
Se poi parliamo di hard-rock la prima cosa da fare e stapparsi una birra e guardarci dritto-dritto nelle palle degli occhi.

Amanti dell’hard, di quello vero, di quello incazzato, di quello che se ne frega se è più metal o più dark, l’importante è che sia hard. Di quelli che nel cellulare per riconoscere la ragazza hanno come suoneria Gypsy dei Uriah Heep, che come musica di sottofondo erotico-romantico gli piace spararsi Speed King dei Deep Purple, coloro i quali In-A-Gadda-Da-Vida ce l’hanno pure in musicassetta. Parlo a voi.

Ma che cazzo state là ad ascoltarvi quelle merdine dei The Answer? O quelle macchiette da Hard Rock Café dei Airbourne? Scommetto che qualcuno di voi si è ridotto ad elogiare anche qualche pezzo dei Muse. Come vi compatisco.

Ma invece che menarvelo con quelle mezze seghe, non provereste più gusto nel riscoprire e nel far assaggiare a chi non li conosce, il duro e puro membro dei Mountain?

Nel lontano 1969 Leslie West assieme al buon Felix Pappalardi tirano sù una band che più hard proprio non si può. E no, non erano ex-porno attori.

Ammetto che il discorso si sta volgendo pericolosamente verso il gay ingenuo, torniamo alla nostra birra, e intanto tiriamo fuori dagli altri vinili “Climbing!” dei Mountain.

Pappalardi è un bassista, noto turnista nel giro di chi conta, reduce da un’esperienza assai positiva con “Bleecker & MacDougal” (1965) di Fred Neil, ormai è un nome. Assieme alla moglie, artista completa, saranno protagonisti anche nei Cream.

West è un cazzo di nessuno (epocale cazzata) che bazzica in tredicimila sconosciute band (non sapete chi sono i Vagrants?), ma la sua chitarra brucia posseduta da un demonio ancora incatenato all’Inferno, che aspetta la sua ora, aspetta il 1970.

Se vi piace la roba masturbatoria alla Atomic Rooster forse non apprezzerete i Mountain, però sareste anche degli stronzi – è un’equazione matematica finissima.

Il sound della band è semplice, così semplice da essere considerato oramai all’unanimità come l’archetipo più credibile per l’hard rock. La “corposità” del suono di West alla chitarra sfiora lo stoner vero e proprio, i ritmi indiavolati non sono mai susseguiti da fughe barocche per checche prog, solo una lenta ma inesorabile successione di riff granitici.

Possiamo smetterla di sparare cagate ed ascoltare questa roba? (lo dico a me stesso, chiaramente)

Mettiamo sul piatto il buon vecchio “Climbing!” e drizzate le orecchie.

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Cosa? Riconoscete il riff della prima song? Porca pupazza gente, quella è Mississippi Queen, uno dei pezzi più hard che la mente umana abbia mai concepito! Pura dannata energia, un attacco che ha fatto storia (notevole anche il lavoro di Laing, il batterista, non così scontato nel ’70).

Ci sono i riff e gli assoli. Sì amici miei, proprio come nei bei vecchi tempi.
E i riff non sono glammizzati alla Glitter o resi innocui dai Kaiser Chiefs di turno. Siamo alle origini, nessuna influenza commerciale o brit-pop del cavolo.

Si continua con la magniloquenza di Theme Form An Imaginary Western, un elogio alla grande epopea americana (anche se, va detto, c’è poco di Tiomkin e molto di loro, però vabbè).

Si torna al riffone spezza caviglie con Never In My Life, e intanto godiamoci i testi impegnati e pieni di spleen tipici dell’hard:

Never in my life
Could I find a girl like you
Never in my life
Could I find a girl like you
When I wake up in the morning
You make me feel so good
Bringing me the cider whisky
Feel a bit lonely too […]”

Aaahhhh (*boccata d’aria fresca dopo una settimana di Tom Waits*)

Ma non c’è tempo e si rimonta subito in sella con Silver Paper, e l’hammond tradisce la presenza di Steve Knight, aficionados della band. Gran rock.

Giriamo l’LP senza fretta, gustandoci il momento con una birra torinese ghiacciata. Ci guardiamo soddisfatti di cotanti decibel liberi nell’aria. Via col lato B.

E quando pensi che forse ti basta anche così giù di nuovo con For Yasgur’s Farm, per alcuni la punta di diamante dell’album. Rimani basito.

Finalmente una pausa dall’epicità straboccante, Leslie da solo con una bella chitarra acustica ci trasporta assieme a lui in un bellissimo viaggio. To My Friend.

E già ti rendi conto di come questo album sia già di per sé un classico, anche se meno conosciuto di altri. Inspiegabilmente, nell’era di internet.

Bella prova anche The Laird, troppo anni ’70 per essere vero, scritta dai coniugi Pappalardi, coppia purtroppo celebre più nella tragedia che in questi dolcissimi componimenti (in cui si troverà benissimo il soft rock dei Pink Floyd del lato A di “Meddle”).

Il ritmo indemoniato di Corky Laing ci introduce nella bellissima Sittin’ On A Rainbow, l’ennesimo riff da paura della premiata ditta Mountain.

Si conclude il tour con un’altra prova dei Pappalardi, malinconica ma potente Boys In The Band, non riuscitissima a dir la verità, ma non è facile tenere botta con i pezzi precedenti.

Non so davvero che dire, album così hanno fatto la storia del loro genere, basta. Comprate questa roba, dannazione!

E poi “Climbing!” non neanche è il loro miglior disco. Immaginatevi gli altri!

  • Pro: praticamente storia del rock.
  • Contro: se non ti piace l’hard rock tienilo lontano un miglio dal tuo piatto.
  • Pezzo consigliato: sebbene storica Mississippi Queen ormai la sappiamo tutti abbondantemente a memoria, dunque mi butterei più su Silver Paper, la quale racchiude anche l’atmosfera epica di cui è intriso l’album.
  • Voto: 7,5/10

Led Zeppelin – II

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[AGGIORNAMENTO DEL 2015: È bello vedere come, a distanza di soli due anni, ci sia stato un grosso cambiamento per quanto riguarda la mia opinione sull’hard rock, e su band come gli Zep. Fare questo blog mi ha aiutato a crescere, scrivere i miei pensieri li ha cristallizzati e resi più “reali”, e al tempo stesso mi ha evidenziato certe incoerenze. Oggi degli Zep salvo solo il primo album, ma ciò non significa che io debba cancellare i miei “peccati del passato”, perché fanno parte di me e della mia personale evoluzione nei gusti e nella critica. Magari un giorno gli dedicherò una monografia, per ringraziarli e al tempo stesso demolirli con una ruspa. Già pregusto i commenti su mia madre…]

Forse con l’estate comincerò a scrivere qualche recensione più contemporanea, intendiamoci: del 2013 ne abbiamo parlato, anche se troppo spesso concentrandoci su residui bellici come i Deep PurpleIggy Pop, David Bowie e Burdon, senza contare l’ultima “fatica” dei Daft Punk e ora ci tocca pure attendere il nuovo album dei Black Sabbath.
Allora perché buttarmi su un disco stra-mega-conosciuto e vecchio come “Led Zeppelin II” o “II” o “il disco dei Led Zeppelin con il collage assieme ai piloti del dirigibile del famoso incidente, un po’ ingiallito”.

Ultimamente va di moda insultare gli Zep, considerati sempre più come dei bravi plagiatori o poco più. Personalmente non credo che gli Zep siano la più importante band rock di sempre, non credo che nessuno lo sia, ognuno ha i suoi meriti e la storia ci aiuta non poco a capirli e a valutarli con oggettività.

I Beatles non hanno di certo portato una rivoluzione concettuale nel rock, al massimo lo hanno denigrato a livello di protesta sociale (è inutile citare Imagine o il testo provocante di Come Together perché non è niente in confronto a quello che il rock fin lì era significato in termini di provocazione), però è innegabile che il loro “sound”, miscuglio di pop, di tanto George Martin e delle mode del momento, abbia scolpito nella mente di molti musicisti un’idea di rock ben precisa e resistente alle avversità del tempo.

Vi parla uno che di dischi dei Beatles ne ha, e alcuni li apprezza in particolar modo, ma che ha anche bisogno di una certa dose di onestà intellettuale.

Il discorso che ho appena fatto sui Beatles si può benissimo estendere a grandissima parte del rock leggero come a tutti i generi che ne derivano, raramente il rock “autentico” che rispetta quell’idea di trasgressione e provocazione si è fatto strada nel mainstream, motivo per il quale non considerare i Beatles come una grande band di rock è stupido, lo è stata per una certa corrente, sì ok: quella più legata al pop e alle mode, ma è pur sempre un rock che lo si voglia o no, e può piacere o far cagare.

A me non piace quasi alcun genere di metal, ma denigrare band come gli Slayer solo perché non mi piacciono oppure perché non rispecchiano la mia idea estetica-concettuale di come dovrebbe essere il rock mi sembrerebbe stupido. Ogni cosa va elogiata o criticata all’interno del suo contesto naturale, se no ogni critica o elogio sarà campato in aria.

Tutto ‘sto casino per dire che ridurre “II” come un disco hard-rock(-blues) di irriducibili plagiatori è davvero idiota.

Jimmi Page ruba qua e là riff o intere canzoni senza rimorsi da ben prima di unirsi agli Yardbirds, ma trovo una certa difficoltà a non accumunarlo a quasi tutto il rock tra gli ultimi ’60 fino ad oggi. Dai Cream ai Mountain si prendeva e si copiava senza problemi, tutti venivano dal blues e dal be-bop (sì, anche dal be-bop), senza contare le più recenti derive della psichedelia e del garage-rock (il rock più autentico, a mio avviso) e i pezzi spesso pluri-plagiati diventando spesso inni generazionali per più generazioni!

Basti pensare alla I’m A Man di Bo Diddley, da grezzo blues a rock vero e proprio con gli Yardbirds (e geniale garage quasi proto-punk con i The Litter), o al caso di Gloria inno garage dei Them ripreso da Hendrix come dai Doors, senza dimenticarci la celebre versione dei Shadows Of Knight.

La linea di confine tra citazione e plagio nella musica è sempre stato molto sottile, fin dai tempi di Corelli! Giudicare una band solo dalla originalità ridurrebbe il numero delle band nel mondo a qualche centinaio, di cui gran parte del tutto inascoltabili.

Se l’originalità folle e controllata dei Magma fa storia e ha un peso nell’arte in generale (assieme alla musica in particolare), quella degli Zep non ha alcun valore, però suona da Dio.

Cos’è cambiato dai New Yardbirds ai Led Zeppelin? Due cose, fondamentali per il sound di tantissimo rock a venire:
il numero delle chitarre
Peter Grant

2

Innanzi tutto non ci troviamo di fronte a un power-trio, ovvero quello che sembrava essere ormai il prototipo per fare rock “duro” dopo Cream, Jimi Hendrix Experience e Mountain. Questo chiaramente deriva dalla line-up precedente, eppure pensate quanto ha influito per l’hard rock delle origini che le band più ascoltate avessero quattro componenti, mentre quello che poi sarà il formato trio dal ’70 in poi vede i suoi maggiori protagonisti in alcune formazioni prog.

La differenza con gli Yardbirds è lampante, Page non si contende più il ruolo di prima donna, lui adesso è la prima donna. Anche se poche band nella storia vengono ricordate con una tale unità e parità come gli Zep (il discorso vale addirittura per John Paul Jones!) non vi sono dubbi su chi fosse la mente dietro il dirigibile, anche se col tempo Plant mostrerà qualche dote compositiva non sempre scadendo nel banale e nel cattivo gusto (ma della sua discografia solista salvo solo due album dall’infamia generale).

Da notare come anche Page fuori dagli Zep abbia perlopiù prodotto allucinanti cagate, e chi si masturba ascoltandosi “Outrider” è un dannato maniaco del cazzo.

Il fatto che Page non sia colui che sta dietro il sound della band (non è un caso dunque se il resto della sua discografia, limitata a delle collaborazioni, sembri una parodia dei suoi primi dischi e di quelli con gli Zep) non deve però farci cadere nel tranello di pensare che fosse l’amalgama magica di Page sui ritmi tribali di Bonham mentre Plant urlava come una ragazzina in calore ad aver donato un sound unico ai dischi degli Zep, perché c’è un fattore ben più importante: Peter Grant, il vero fondatore di questo gruppo.

Grant colse i fattori interessanti degli Zep e li armonizzò al massimo, donandoci così album equilibratissimi come “II”.

Whole Lotta Love è il riff per eccellenza, mi spiace per i sostenitori dei Purple, ma c’è poco da fare. Assieme a band come gli stessi Deep Purple e i Black Sabbath (mentre il sound preso singolarmente per queste band porterà alla nascita di generi diversi fra loro) ovvero band adorate dal pubblico, in particolare americano, avevano una cosa fondamentale in comune: la mancanza di contenuti.

Il rock non è una cosa seria, lo diceva anche Bangs quindi c’è da crederci, ma da qui ad arrivare ai testi di queste tre band ce ne passa di acqua sotto i ponti. Gli MC5 scandalizzavano, Zappa faceva riflettere (e come lui i Fugs, e più di loro i Godz), i Troggs erano eccitanti, gli Stooges erano punk prima di essere punk, ed erano molto più punk di tutto il punk venuto dopo. Chi cazzo erano dunque quei tre là sopra? E sopratutto: ma di che cazzo vaneggiavano? Di figa e Tolkien assieme, di concerti andati a fuoco, di cimiteri atomici, ma che caaaaaaaaaaaaavolo è?

L’unico problema di album per me favolosi come “II”, come “In Rock”, come “Paranoid” è che sì suonano bene, ma di rock, dello spirito del rock, hanno solo gli strumenti! A quattordici anni mi andava pure bene, e vi dirò che io ascolto ancora con estremo piacere tutti gli album degli Zep, e addirittura il mio pezzo preferito è In The Evening dell’ultimo album (caso rarissimo per me che dopo il quarto album una band continui a piacermi), ma oggi è impossibile non rivalutare la portata musicale di queste band storiche dimenticandosi con totale disonestà intellettuale cosa vuol dire fare ed essere rock.

Però smettiamola di rompere il cazzo agli Zep per i plagi o per le palesi copiature non scritte a chiare lettere nel libretto, “II” è un album che fa accapponare la pelle, se si escludono i riferimenti all’epica fantasy (che porteranno ad una deriva nei testi di certo rock e di molto metal che tutt’ora ritengo oscena e indecente) quell’album spacca come poco nella storia. L’attacco allucinante di Page su Bring In On Home (la prima parte è del grandissimo e indimenticabile Sonny Boy Williamson) o il leggendario assolo di Bonham nella sua Moby Dick sono pezzi di rock tutt’altro che mediocri o frutto di una band buona solo a plagiare.

Diogesùcristo, ma poi si parla solo di ‘sti plagi famossissississimi quando in giro c’è della roba sconcertante: avete presente il celebre attacco di Mississippi Queen dei Mountain? Dopo pochi mesi l’uscita di quel gran disco che è “Climbing!” ci fu questo allucinante plagio dei neozelandesi Human Instinct presente in “Stoned Guitar”, Midnight Sun. Mica male, eh? Citazione dite? Quella sì che è una cazzo di vergogna, però toccare lo stoned è tipo reato ora come ora, mentre spalare merda a caso su band come gli Zep fa tanto fighi (e la questione è la stessa).

Ah, mi sono dimenticato di recensire il disco. Vabbè, tanto lo sappiamo tutti a memoria.

  • Pro: difficile dire di ascoltare rock e non avere questo album in casa, o perlomeno è poco credibile.
  • Contro: profondo come una pozzanghera, lyrics degne di The Wanderer.
  • Pezzo consigliato: ma ascoltatelo tutto e basta, cazzo.
  • Voto: 7/10

[è tipo la trentesima volta che cito The Wanderer di Glitter come esempio negativo, vi rendete conto di quanto stia ancora male per quel disco???]