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Built To Spill – Perfect from Now On

UNITED STATES - APRIL 10:  Photo of BUILT TO SPILL and Jim ROTH and Brett NELSON and Doug MARTSCH and Brett NETSON and Scott PLOUF; Posed studio group portrait L-R Jim Roth, Brett Nelson, Doug Martsch, Brett Netson and Scott Plouf  (Photo by Wendy Redfern/Redferns)

Dato che le riviste di tutto il mondo stanno elogiando oltremodo il ritorno a 33 giri dei Built To Spill (che non credo sia ancora disponibile per noi mortali, e comunque me lo potrò permettere alla meglio verso natale) mi pare quantomeno adeguato passare del tempo a scrivere di quanto sia stato importante “Perfect from Now On”, il loro terzo album del 1997, e di come questo meraviglioso disco dovrebbe essere considerato uno di quelli da avere ad ogni costo, come il primo dei Pink Floyd o “Aftermath” dei Rolling Stones.

È che, essenzialmente, se non hai ascoltato Perfect ti sei perso semplicemente il meglio degli anni ’90. Un’unione trascendentale tra Syd Barrett, Captain Beefheart e l’hardcore, un incontro, quello tra i primi due, già celebrato nel 1980 dai Soft Boys di Hitchcock, ma che nei Built To Spill trova nuova linfa vitale da una generazione che di grunge non c’ha proprio un cazzo.

Ok ok ok, forse Beefheart c’entra poco, forse la loro ispirazione erano effettivamente Barrett, la seconda ondata hardcore e certamente Hitchcock, forse di Zoot Horn Rollo e di Jeff Cotton non gliene fregava una cippa a Doug Martsch, però i suoi Built To Spill hanno spesso il piglio ordinatamente scalmanato della Magic Band, molto più dei Mule di P.W.Long, tanto per dire.

E quel piglio da blues storto nella forma ma non nell’anima si sente eccome nel micidiale attacco di Distopian Dream Girl, uno dei più belli della Storia Del Rock (la mia personale classifica recita più o meno così: 1) Moonlight On Vermont, 2) Old Pervert, 3) Humor Me, 4) Psycho, 5) 1969, 6) Louie, Loui, 7) Distopian Dream Girl e via dicendo, comunque sia è una classifica parecchio suscettibile a cambiamenti). Beh, ok, quello è un pezzo dal secondo album, però se una band sa fare una roba così vorrà pur dire qualcosa!

Quello che caratterizzava “There’s Nothing Wrong with Love”, il secondo lavoro dei BTS, era la freschezza dei pezzi, molto dinamici e zeppi di spleen anni ’90, mentre in Perfect il suddetto spleen diventa dominante, e la forma si modifica attorno alla sostanza. I tempi si allungano, la consapevolezza aumenta.

Ecco, spleen è una parola chiave per comprendere fino in fondo questa band (Alberto Leone nella bio per Ondarock la userà seicento volte, crist’iddio), ma lo spleen cos’è? È giovanile malinconia, è insofferenza verso la vita e i suoi avvenimenti, un concetto ovviamente universale sempre esistito e cazzi e mazzi, ma che trova la sua definizione, nell’ambito del rock, negli anni ’90.

Il grunge riprende l’hard rock, anche se è figlio dell’hardcore, i Built To Spill riprendono la psichedelia anche se sono figli dell’hardcore. Badate bene che è questo il punto di svolta, la cosa che rende i BTS tra i grandi dei ‘90. L’hard rock come genere è una gabbia espressiva: intro, riffone, melodia, riffone, assolo di trenta minuti, melodia, chiusura (se dal vivo aggiungersi: “altro assolo”), o lo fai così o fai un altro genere, c’è poco da fare. Ma i BTS se ne straffottono di Deep Purple, Led Zeppelin e amenità varie, prendono il genio sregolato di Barrett e lo reinterpretano da bravi figli dei vari “Zen Arcade”, “Damaged”, “Double Nickels on the Dime” e via dicendo.

Per cui se la malinconia di Barrett era comunque stemperata dalla voglia di raccontare strane favole, qua lo spleen si scontra con la rabbia hardcore punk (politica sì, ma anche generazionale), e quello che ne viene fuori è la musica instabile, nervosa, dinamica ma ordinata dei BTS.

Nel primo album del ’93, “Ultimate Alternative Wavers”, ci sono ancora troppe incertezze. A volte si sfocia nel manierismo, mescolando una grande potenza espressiva ad eccessi chitarristici (penso a Shameful Dread), ma è comunque un esordio CON LE PALLE, dove Martsch mostra i muscoli e la sua eccezionale abilità come compositore.

Gli basta un anno per sfornare “There’s Nothing Wrong with Love”, una sorta di concept album/manifesto generazionale. I suoni sono più puliti, la chitarra appare più definita, e i suoi dialoghi elettrici continui drappeggiano ogni pezzo superando i vincoli estetici della psichedelia classica (e avvicinandosi tantissimo ai Dinosaur Jr.), il sound ormai è loro e loro soltanto. Tra riff azzeccati e finali inaspettati si arriva al vero capolavoro dell’album, che ho già citato ma che ri-cito perché questo è il mio cazzo di blog, ovvero Distopian Dream Girl.

E poi niente, dopo questi due album tosti, ma non eccezionali, bisognerà aspettare fino al 1997 per trovarsi di fronte alla magnificenza di “Perfect from Now On”. Ad ascoltarlo oggi questo album, come i precedenti, ha un grosso problema: è davvero anni ’90. Uno strano problema direte voi, appartenere ad un periodo musicale è inevitabile, anche se sei un genio avveniristico sei comunque “figlio del tuo tempo”, ma nei BTS si soffre un po’ per la voce, stuprata da migliaia di band su MTV, ci si storcono ogni tanto le budella per il suono della chitarra, diciamo che la superficie, il primo impatto, non è quasi mai dei migliori. Questo discorso però è valido solamente se sei nato nei ’90, come me, altrimenti cazzotenefrega.

Ma se si supera l’iniziale sconcerto di trovarsi di fronte a quei suoni che hai volontariamente dimenticato per cedere la tua anima ai Ramones, ecco che viene fuori tutta la grandezza della band. Prima di tutto la tecnica, non buttata lì per farsi belli, ma al servizio del discorso musicale/spleen, come nei nove minuti di Untrustable/Part 2 (About Someone Else), inizialmente monolitica, statica, e poi profonda, giocosa, inaspettata. Sebbene I Would Hurt a Fly sia il pezzo più conosciuto dell’album (anche perché rispecchia quell’idea comune di rock intimista anni ’90) è nel resto che la band compone un arazzo di dolce complessità, senza la pesantezza dei progger né l’autoreferenzialità delle band grunge.

Ma quanto è tirato l’intro di Made-Up Dreams? Già in quelle note acustiche e nella voce di Martsch c’è tutta la potenza inespressa di quello che seguirà. Come resistere al dialogo elettrico di Stop the Show, che culmina in un finale devastante e ipnotico?

Non c’è un pezzo in più, è tutto proprio come dovrebbe essere. E senza quella forzatura di essere un manifesto generazionale, come nell’album precedente, Perfect diventa uno specchio fedelissimo della sua generazione, con tutti i suoi difetti e le sue sorprese, con l’introspezione e la necessità di essere ascoltati dagli altri.

La cosa bella è che dopo il ’97 i BTS hanno continuano a sfornare album (cinque in tutto, contando il nuovo arrivato, “Untethered Moon”) e non ci riescono proprio a far cagare. È più forte di loro. Qualcosa di buono lo trovi sempre, un’idea, un guizzo. Però l’inesplicabile tensione giovanile di “Perfect from Now On” rimarrà lì, in quella dimensione dove mettiamo momenti brutti e belli, con i contorni ormai sfumati dalla malinconia.

Running – Asshole Savant

038 Running on Vimeo

We want to do things that make people uncomfortable.
Alejandro Morales (batterista dei Running)

Il problema di gran parte delle band rock contemporanee è esprimere il disagio della nostra epoca (e delle nostre crisi) in modo efficace. Personalmente non mi ritengo particolarmente dotto in fatto di rock, ho aperto il blog per passione non perché mi ritenga un critico o un eletto unto da Chuck Berry, ma credo che nel mio piccolo di aver trovato e recensito alcune band che ci stanno riuscendo, almeno in parte, a svolgere questo arduo compito.

Molti gruppi per trovare un modo di esprimere l’urgenza dell’arte (perché a questo punto di arte si deve parlare) stanno rispolverato la new wave/post punk, genere in cui la nevrosi collettiva e gli artistoidi da SoHo hanno rivoluzionato la grammatica del rock. Da qui il sound eighties di Corners, Dreamsalon, Ausmuteants e Nun. Ma se l’orecchio tende agli insegnamenti di Devo, Pere Ubu e Einstürzende Neubauten, la mente è radicata nel presente. Cercando quindi di trovare ispirazione dal vecchio si costruisce il nuovo, un meccanismo necessario che solo le grandi band hanno saputo far funzionare al meglio.

Che cosa c’entrano con tutto questo i Running? Beh, già dal titolo del disco forse intuite qualcosa.

Asshole Savant” (Captcha Records, 2012) è un EP scarno, ruvido, un rigurgito di Pussy Galore, Rake e “Metal Machine Music”, ma con una spinta in più, ovvero la sua profonda e intima relazione col contemporaneo.

Il trio in questione è formato da Jeff  Tucholski alla chitarra (invece che “elettrica” direi “abrasiva”) e voce, Matthew Hord al basso e voce (e smorfie) e infine Alejandro Morales alla batteria, nonché fondatore di questo progetto che sta devastando Chicago a suon di noise punk da qualche anno a questa parte.

Tra LP ed EP più o meno di culto (tra cui “Vaguely Ethnic” dell’anno scorso, uscito per la Castle Face Records di John Dwyer) ho scelto di consigliarvi questo brevissimo lavoro uscito nel 2012, pietra miliare di una band che non devasta solo dal vivo (come molte formazioni di culto) ma anche in studio.

Pezzi stratosferici come I Can’t Believe I’m Alive sono un manifesto concettuale, trascendendo i generi si può dire senza arrampicarsi sugli specchi che c’è un contatto tra la furia dei Running e le melodie amare dei The Molochs di Lucas Fitzsimons, come anche con Felix Tried To Kill Himself degli Ausmuteants, sono il manifesto quindi di una dimensione giovanile devastata, torturata dall’ondata di informazione prima televisiva e poi dal web, una dimensione che queste band stanno cominciando a dipingere, ognuno secondo la sua personale scuola di pensiero.

Se Fitzsimons punta sul songwriting (anche in virtù della sua immensa capacità lirica, che lo colloca senza troppi intoppi tra Bob Dylan e Tom Waits come ordine di grandezza) e gli Ausmuteants invece sulla foga dell’informazione e sulla devastazione della parola, i Running ripescano la chiusura ritmica del kraut rock senza miscelarla alla psichedelia (come nei Thee Oh Sees) ma piuttosto immergendola in un denso calderone sonoro noise e hardcore, rendendo questo brevissimo EP ben più devastante della mezz’ora di feedback e garage rock di “Slaughterhouse” di Ty Segall.

La sensazione che si ha ascoltando la title track è terribile, una versione rabbiosa di Ghost Rider dei Suicide, come invece il garage punk di Everybody’s Fucking Everybody è una versione moderna delle violente espressioni dei Pussy Galore.

È sempre brutto ridurre una recensione ad una sequenza di nomi, ma cercate anche di venirmi incontro, questo “Asshole Savant” spezza le coordinate con la sua furia devastante. Ah, fra l’altro è così che si satura lo spazio sonoro, non come quella cagata di “The Electric Hour” dei Jefferitti’s Nile, dove si butta nel mezzo tutti i generi conosciuti su questa terra perché non si ha un cazzo da dire, il disagio dei Running è vero, è palpabile dal pavimento che trema per i bassi, dalle orecchie che sibilano a causa dei feedback, dal peso nel petto per quei testi così pieni di vuoto.

Al contrario di altre band i Running sanno bene quello che fanno, sono scientifici nella loro ricerca estetica, e non gli basta esprimere la desolazione intellettuale e emotiva in cui viviamo, ma vogliono svegliare il pubblico a suon di rumori devastanti e raccapriccianti, incubi sonori dove ti ritrovi a correre per scappare da un mostro, ma ti accorgi solo all’ultimo di stare fermo.

Minutemen – Double Nickels On The Dime

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Dopo il punk dannato e maledetto dei The Alley Cats, e quello beach e arrabbiato degli X, concludiamo questa brevissima e personalissima trilogia del punk californiano made in eighties con un disco che non è un disco, ma è il massimo risultato del punk come genere musicale.

Legati indissolubilmente al punk antagonista dell’hardcore anti-reaganiano, il loro sound è la geniale commistione di intuizioni musicali che spaziano dai Van Halen ai Bad Brains, dai Meat Puppets ai Hüsker Dü, fondendo jazz, funk e reggae il tutto nell’arco di canzoni brevissime ma sempre compiute.

I Minutemen sono stati una grande rock band, almeno fino al 1984.

Un trio di ottimi esecutori, dal compianto D. Boon (voce e chitarra: e che voce e che cazzo di chitarra!) al veloce ma dannatamente preciso George Hurley (batterista e talvolta voce), fino a Mike Watt, un bassista che è più un mito che un uomo, ma che adesso segue Iggy Pop nella sua inutile riesumazione di un furore punk leggermente anacronistico.

Dopo due ottimi album, “The Punch Line” (1981) e “What Makes a Man Start Fires?” (1983) i Minutemen hanno come una sorta di divinazione.

Non si sa bene come cazzo sia potuto succedere, insomma, fino a un anno prima questi tre facevano soltanto della buona musica, dichiaratamente democratici e incazzati fino al midollo con le politiche repressive e la mentalità da cavernicolo di Reagan, una band hardcore da rispettare e onorare, ma nel 1984 decisero, inconsciamente, di cambiare la storia del rock.

Se le vendite esaltavano l’ennesimo disco copia-incolla dei Queen, “The Work”, arrivato al successo grazie al singolo Radio Ga Ga (che già dal titolo fa intuire la profondità culturale e musicologica intrinseca), nessuno poteva di certo aspettarsi il successo che arriderà a questo trio hardcore.

Double Nickels On The Dimeè stato un terremoto che ha scosso le fondamenta di tutto il rock autentico. Le 45 tracce che compongono l’originale LP del 1984 sono l’esempio lampante di come delle volte il genio si manifesti senza preavviso, e di come il rock possa anche innalzarsi dalle sue chitarre suonate alla meno peggio e diventare Musica.

Un album di questa caratura va considerato da almeno tre punti di vista:

  • quello musicale
  • quello letterario
  • quello storico

In generale per fare una buona critica a qualsiasi album i tre punti sopra elencati vanno presi sempre in considerazione, ma il terzo album dei Minutemen è uno di quei rarissimi casi in cui la rivoluzione comprende tutti e tre i punti.

Musicalmente D. Boon, Watt e Hurley spingono al massimo l’acceleratore, velocizzandosi e raffinandosi ancora di più. È straordinario constatare con quale facilità la band abbia fuso tutte le maggiori intuizioni degli anni ’80 e ’70, guardando all’avant-garde come ai più materiali Black Flag, riuscendo allo stesso tempo a non ripetersi mai in 45 tracce. Il sound complessivo ne esce incredibilmente compatto, creando nell’arco di una ottantina di minuti un’esperienza unica e irripetibile.

La musica, sebbene tecnicamente tutto tranne che scontata, è anche fruibile. Al contrario di un rock destrutturato, come quello reso celebre da Captain Beefheart, o a esempi di estremismo come nel bellissimo “Right Now!” (1987) dei Pussy Galore, i Minutemen riescono a distruggere ed estremizzare senza sodomizzare l’ascoltatore, il che è innegabilmente un pregio.

A livello letterario siamo di fronte ad una sintesi della storia del linguaggio punk-rock. Dagli inni pacifisti all’introspezione indie, dalla poesia di Patti Smith al linguaggio volgare e irriverente dell’hardcore, Double Nickels è un compendio irrinunciabile per studiare il linguaggio sociale del rock, le liriche che parlano allo stomaco senza dimenticarsi del cervello, la perfetta simbiosi tra ritmo, melodia e rumore assieme al testo.

Per la storia della musica siamo invece di fronte ad un lavoro inarrivabile, un punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere la carriera del rocker. Non solo Double Nickels si fa rappresentante musicale e sociale di un intero movimento, riuscendo al contempo a superarlo concettualmente, ma è anche un punto di incontro musicologico di altissimo livello che merita l’attenzione degli studiosi oltre che dei rimasti con le magliette dei Ramones tipo me.

Ammetto che sarebbe stimolante recensire pezzo per pezzo questo album, valutando con attenzione tutti gli spunti e le idee buttate all’interno di questo calderone infernale. Vi dico solo che comincia con l’accensione dell’auto di D. Boone, l’invito ad entrare in un viaggio modesto con tre amici punk che girano l’America tra concerti e avventure, che ne vedono e ne sentono di tutte, che te le raccontano spassionati tra una cerveza e l’altra, con i quali puoi scherzare, vomitare e magari confessarti, puoi dividerci una pizza o magari anche una ragazza, e che quando li lascerai andare via all’orizzonte non saprai mai dove e quando te li potresti ritrovare davanti.

Voto: 9,5/10.

Nirvana – Nevermind

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Perché i Nirvana ebbero tanto successo?

Da una parte ci sono i fan, i quali semplicemente ti rimandano ad ascoltarti i loro album, dall’altra i detrattori, che li trovano una band normale (se non indecente) che ha semplicemente solcato l’onda di una moda.

C’è bisogno di fare ordine.

Partiamo da lontano, ovvero dall’hardcore. Intorno alla fine degli anni ’70 il punk inglese libera in America un’idea di rock in realtà sopita da qualche anno, ovvero quel proto-punk primordiale che aveva le sue origini nei The Stooges e sopratutto nei MC5. Perché prendo proprio la band di “Kick out the jams” in maggior considerazione? Semplicemente perché era una band fortemente politicizzata, proprio come il movimento hardcore.

Ma se gli MC5 appartenevano ad un partito vero e proprio (il White Panther, estrema sinistra) invece l’hardcore non si tende a relegarlo ad un partito vero e proprio, ma piuttosto come un movimento di protesta verso una singola persona: Ronald Reagan.

Reagan cominciò la sua avventura politica nelle file del partito Democratico, ma spaventato dal crescente pericolo del comunismo passò ai repubblicani (è importante tenere conto di questa paura che perseguiterà Reagan e ne influenzerà enormemente la politica una volta Presidente).

Non è infatti un caso se dopo aver perso contro Ford (come candidato per i repubblicani, ovviamente) nel 1976 imbastirà un famoso discorso in cui getterà il seme della sua futura campagna elettorale basata sulla paura del “pericolo rosso”.

Nel 1981 diventa Presidente, nel suo celebre discorso d’insediamento, dopo aver accennato alla crisi economica che ciclicamente attanaglia gli U.S.A., proferirà la famosa frase: “In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem.” Grillo ne sarebbe fiero.

Detto ciò nel 1981 band come T.S.O.L., Black Flag (ora con Rollins alla voce), Flipper, D.O.A. e Bad Brains trovarono modo di esplodere definitivamente, generando l’hardcore americano.

La forza di questo movimento è l’odio contro Reagan e la sua politica di austerità, presto migliaia di band si uniranno e le varie fazioni dei diversi stati cominceranno a girare per tutto il paese.

L’energia sprigionata in quegli anni fu devastante, le due band di spicco erano i Black Flag, con il loro hardcore velocissimo e potentissimo nelle live, e i Bad Brains, i quali, al contrario delle altre band, sapevano suonare.

Ci sarebbero fin troppe formazioni da citare, ma non perdiamo la bussola. Questo hardcore però finisce presto, finisce con la rielezione di Reagan nel ’85, che sancisce la fine di un sogno e la speranza che l’hardcore potesse in qualche modo cambiare le cose.

Per fortuna i semi gettati da queste band fioriranno presto.

I Bad Brains, trasformatosi in una band di reggae (è così) lasciano il timone ai Beastie Boys (che prima spaccavano i culi), arrivano i virtuosi Minutemen, i Hüsker Dü e i Meat Puppets, tutte band che influenzeranno non poco i Nirvana.

Quando nel 1987 i Nirvana compiono i primi passi vengono subito presi in simpatia.

La loro tendenza segue il punk-rock con incursioni di hard-rock, tipiche di quegli anni orfani della prima ondata di hardcore.

Le loro performance nei locali di Aberdeen (assieme ai Melvins) non saranno esaltanti per la band, la quale si unirà ben presto alla scena emergente di Seattle. Se l’hardcore nasce in tante città americane, e solo dopo la prima ondata arriverà anche a New York (le leggende narrano dopo uno storico concerto dei Bad Brains), a Seattle invece si riunisce una forte tendenza hard-rock, la quale rallenta tantissimo i ritmi forsennati dei Black Flag portandoli a quelli pesanti e mastodontici dei Black Sabbath.

Non ne farà di certo un segreto Cobain, i Nirvana prendevano dai Knack come dai Black Flag, dai dimenticati Bay City Rollers ai Black Sabbath.

La band avrà un successo enorme a Seattle, mostrandosi una delle più amate nel circolo underground emergente.

Quando nel 1989 pubblicano “Bleach” le trentamila copie vendute non sembrano così poche. Anzi. Per una band di una scena emergente e così fuori dal mainstream era un ottimo risultato. Non saranno virtuosi come gli Hüsker Dü, né violenti come i Melvins di “Ozma” (in “Bleach” alla batteria per soli tre pezzi parteciperà proprio Dal Crover, il batterista che sostituirà Dillard nei Melvins), ma “Bleach” è un album pesante e piuttosto hard, con tematiche che colpiscono fortemente l’immaginario collettivo americano di quegli anni.

Di certo non sono i testi il valore in più dei Nirvana, nulla di che come liriche (non che nel rock in generale ci siano chissà che cime) ma la voce di Cobain farà diventare ogni pezzo dei Nirvana un vero e proprio inno generazionale.

Sempre sull’orlo di spezzarsi la voce di Cobain è tra le più espressive di tutta la storia del rock, segno anche di una personalità fragile ma all’epoca ben lontana dalle terribili pressioni emotive che la condurranno ad una fine tragica.

Ma l’impensabile arriva con “Nevermind”.

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La premessa storica è necessaria per capire come “Nevermind” fosse un album incredibilmente al di fuori dell’idea di rock che i media propinavano (e propinano) alle persone, frutto proprio di quella rabbia e di di quella frustrazione che ha le sue radici nell’hardcore.

È un album scomodo “Nevermind”, un album che svetta al primo posto aprendo le porte a tantissime altre band (primi fra tutti Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam) e dando voce all’underground (Melvins e Meat Puppets tra tutti).

Il messaggio di “Nevermind” era destabilizzante, un attacco diretto all’establishment dal suo interno, proprio come disse “King” degli Urge Overkill:

[…]anche se in maniera indiretta, “Nevermind” manda affanculo il governo, lo status quo e gli imbecilli. E si può estendere tutta la loro filosofia all’anti-razzismo, l’anti-fascismo e l’anti-censura.

Tanti gli atti della band che sovvertivano lo status quo delle majors, a partire dal celebre video di Smell Like Teen Spirit, in cui la band decise di suonare davvero scatenando il putiferio negli spalti (il tutto assolutamente in disaccordo con il regista, il quale però riprese comunque anche dopo che la situazione andò fuori dal suo controllo).

Oppure la loro esibizione a Top of the Pops, in cui sempre contro le regole chiesero che la voce non fosse in playback, e imbastirono uno show demenziale che mandò su tutte le furie i direttori dello show.

I Nirvana non potevano essere corrotti perché autentici, non erano una band costruita a tavolino per essere fotogenica e piacevole, tutt’altro.

Cobain fu dapprima il più entusiasta del successo, ma mano a mano che esso cresceva sempre di più in lui crescevano anche i problemi. La droga sarà certamente il fattore scatenante che portò ad una spirale decisamente discendente il giovane rocker.

Il grande successo della band, planetario dopo “Nevermind”, è l’apice di un lungo percorso che vide nei Nirvana una band portatrice di un forte messaggio politico e sociale, figlio dell’hardcore e del suo successivo fallimento. È la storia di ben due decenni d’America condensati in una band, non è un caso se la parola “empatia” sarà usata molto spesso per spiegare lo stato d’attrazione dei fan alla figura di Cobain.

Non ci deve stupire quindi che l’ultima lettera che Cobain scrisse, pochi istanti prima del suicidio, fosse rivolta prima di tutto ai suoi fan.

Se band che hanno sfornato album che sono la Storia del rock, come “Double Nickels on the Dime” dei Minutemen, “Meat Puppets II” dei Meat Puppets o “Zen Arcade” dei Hüsker Dü oggi sono oscurate dalle chitarre distorte di Cobain, dai ritmi e dalle melodie tutt’altro che rivoluzionarie dei Nirvana, è dovuto alla forte autenticità che si cela dietro il messaggio e la storia (ben più profonda) che questa band rappresenta.

Sì, lo so che non ho recensito “Nevermind”, sono un coglione.

  • Pro: un album storico, la voce di almeno due generazioni.
  • Contro: se preferite “Double Nickels on the Dime” al fottuto grunge si ‘sta ceppa non posso di certo dissentire. Anzi.
  • Pezzo consigliato: Polly è struggente e decisamente rappresentativa dell’angoscia e delle ripercussioni emotive della fine prematura dell’hardcore.
  • Voto: 6,5/10

System of a Down, la discografia

System+of+a+Down

Sì, è ultimamente faccio solo speciali su dischi vecchi, perché?
Perché non ho soldi per quelli nuovi.
Cazzo.

Comunque, basta auto-commiserarsi e avanti tutta.

La prima cosa che si nota in tutte le recensioni sui SOAD è la menata sul genere. Ma sono forse nu metal, sono folk metal, sono disco music metal, ma che saranno mai ‘sti System? A me le sotto-categorie mi fanno venire certi pruriti alle zone basse che non vi immaginate, già non sopporto parlare di classic rock, soft-rock e robe simili, però ha un senso, ma il nu metal è qualcosa di ridicolo, mi spiace dirlo. È alternative, basta, ci piace così, chissene se è nu o , è alternative, ci va bene. Poi le influenze tradizionali armene son lì a far scena, mica per altro.

Il sound dei SOAD è la perfetta commistione di Slayer e Dead Kennedys. Dagli Slayer prendono sopratutto il sound metal, non tanto dalle idee fasciste di merda che li contraddistinguono (non è vero? Contenti voi), dai Dead Kennedys prendono invece tantissimo, tanto che delle volte ascoltandoli attentamente mi sembrava di ascoltare la band di Biafra velocizzata e metallizzata.

Lungi dal dire che i SOAD sono una copia dei Kennedys, anche perché già dal primo album trovano quelle sonorità che li distingueranno per sempre dal resto del mercato musicale, sopratutto grazie al grandioso lavoro di Rick Rubin.

Il valore politico dei testi invece è pressoché nullo, o quantomeno banale. Legalizzerebbero qualsiasi cosa, odiano il governo e la natura è bella (ma il sesso è meglio). Ovviamente sono anti-Bush (il che è apprezzabile). Riescono meglio invece le loro uscite comico-demenziali, certamente le più divertenti e plausibili di tutto il metal.

Il successo arrise presto ai SOAD, appena cominciarono a macinare qualche singolo accattivante Rick Rubin se li mette sotto contratto per la sua American Records, che all’epoca aveva già un decennio buono di attività ma sopratutto aveva prodotto gli Slayer, band che Tankian e Malakian adoravano da tempo.

Rubin è un vecchio volpone, storica la sua trasformazione del sound degli Slipknot da “Iowa” (2001, prodotto da Ross Robinson)  a ”Vol. 3: (The Subliminal Verses)” uscito nel 2004, stessa casa di produzione, la Roadrunner records, ma con una idea del sound e del marketing più moderna. Per i fan della band infatti Vol. 3 è stato un momento di rottura fondamentale, gli Slipknot diventano melodici e udibili per i più, per alcuni un tradimento bello e buono, per altri il miglior disco della band.

Essenzialmente Rubin riuscirebbe a far entrare nel giro del metal i Franz Ferdinand, e nel giro del brit-pop Burzum. Lui può.

System Of A Down

1998: esce “System of a Down” e tutti siamo un po’ più felici.
Felici perché i SOAD sono una boccata di aria fresca in un metal già all’epoca auto-referenziale, anche se non ai livelli indecorosi di questi anni.

L’album presenta in velocissima successione perle di genialità, rabbia e anche di virtuosismo (che scopriremo essere inesistente in live). Niente di masturbatorio, un metal così diretto non ricapiterà mai più, tanto che infatti i SOAD sono l’unica band metal che apprezzo davvero degli ultimi dieci anni.
Un metal che ha tanto da spartire con il rock autentico a livello ideologico, più che la forma si predilige la sostanza.

Suit-Pee, Know e Sugar ci iniziano al sound dei SOAD, i cambi veloci che si distinguono in questi pezzi non sono mai velleitari o puramente d’effetto, ma neanche denotano una forma prog, la costruzione dei pezzi (molto intuitiva) viene tradotta per noi da Rick Rubin e ci sembrano quasi dei musicisti ormai maturi. In questi tre pezzi c’è la goliardia, la malinconia, la velocità e la riflessione, il tutto in un timing complessivo che supera di poco i sette minuti, il che li avvicina felicemente al primo punk-hardcore (anche se siamo molto lontani dall’ecletticità di band come i Minutemen).

Soil, War? e P.L.U.C.K. sono notoriamente tra i pezzi più amati dai fan della band, eppure sono sempre stati quelli che mi hanno meno convinto in questo album. Non amo apparire bastian contrario, credo sia una etichetta abbastanza infamante. Eppure, nella maggior quadratura musicale di questi tre pezzi, mi sembra che i concetti invece siano piuttosto mediocri. Finché i SOAD  si mantengono ad un livello goliardico mi convincono, appena tentano di “alzare” la qualità lirica mi cascano dal pero. Wars? non ha semplicemente senso, ma al contrario del solito qui si cerca di dare input più interessanti, peccato che poi ti ritrovi cose così:

International security,
Call of the righteous man,
Needs a reason to kill man,
History teaches us so,
The reason he must attain,
Must be approved by his God,
His child, partisan brother of war

Eh? Che diavolo volete esprimere o farci capire? No, davvero, mi piacerebbe saperlo. Io capisco che non bisogna mai badare troppo ai testi nel rock, chi li esalta di solito ha come metro di letterario Licia Troisi piuttosto che Marion Zimmer Bradley (per citare il fantasy, mi son tenuto basso basso), chi invece ci capisce apprezza comunque la valenza del messaggio, sebbene espresso con semplicità può essere valido. Peccato che qui il messaggio sia nella testa di Tankian e Malakian, a noi restano solo deliri incomprensibili.

Soil è uno dei peggiori testi che abbia mai letto sul suicidio (credo riferito ad una vicenda reale), P.L.U.C.K. dovrebbe essere una seria critica sul genocidio armeno ma il concetto più profondo espresso è: revolution, the only solution. Uao. Probabilmente sono io che rompo il cazzo, sia chiaro, però nel contesto di un disco come questo P.L.U.C.K. appare una prova al di là delle capacità lirico-espressive della band.

Il pezzo più particolare è certamente Mind, il pezzo più “corposo” di tutta la loro discografia, con uno dei cambi di velocità più violenti mai suonati (eppure perfettamente incastonato nella struttura del pezzo, non c’è nessun intento meramente spettacolare).

Detto questo il resto dell’album non presenta alcun difetto, il che per me spara questo esordio tra i migliori che abbia mai ascoltato in assoluto.

Arriva il 2001 e arriva anche “Toxicity”, il quale abbatte il disco precedente sotto ogni aspetto, cura ingegneristica, elaborazione dei pezzi, espressione di un concetto e ovviamente in termini di vendite.

Stavolta ad aprire le danze c’è Prison Song, il quale di certo non spicca tra le composizione poetiche più rilevanti dell’ultimo decennio, ma c’è un balzo in avanti in questo album nelle liriche che va comunque segnalato. La musica invece giova di una maggiore profondità, i suoni sono disposti con maggior accuratezza da parte di Rubin, il risultato è una vera e propria invasione di riff e urla dei SOAD nelle nostre case, e quindi nelle nostre orecchie, quasi impossibile nell’ambito dell’alternative metal trovare un album realizzato con tanta cura del suono e del sound complessivo.

Scivola via “Toxicity”, al contrario del primo album, dove non sempre la successione dei pezzi poteva suonare perfetta (ci sono parecchi raccordi di Rubin per ovviare proprio a questo) stavolta tutto si incastra senza problemi, come se questo disco fosse uscito tutto assieme (anche se “Steal This Album!” ci mostrerà che non era così, ovviamente).

Non c’è un solo pezzo di “Toxicity” che abbia un difetto evidente. Da Deer Dance a Chop Suey! non solo i pezzi hanno strutture diverse (e non è scontato nel metal, per niente) in minutaggi brevi, ma anche i vari momenti emotivi estremamente contrastanti si susseguono con logicità, ed è naturale passare dalla devastante malinconia di Chop Suey! per buttarci in un mega-pogo con Bounce.

Toxicity che da il nome al disco è uno singoli metal più conosciuti nel mondo commerciale, anzi, voglio sbilanciarmi: è il singolo metal più conosciuto da chiunque ascolti rock e i suoi derivati. La forma lascia il posto ad un messaggio universale, le psichedeliche immagini che si susseguono di una città nemica dell’uomo sono molto sentite nei primi del 2000, in particolare nell’America democratica che ancora si disperava per la sfiorata vittoria di Al Gore alle presidenziali. Il contesto aiutò i SOAD? Piuttosto direi che i SOAD sono un ottimo risultato di quel particolare contesto, ancora un po’ confusi nel primo album, adesso il loro messaggio può dirsi anche politico e sociale.

Potentissima ATWA colpisce un altro bel pezzo di America rievocando Charles Manson (un incubo inconscio tutt’ora presente nella cultura statunitense).
Poco nascosta invece la hidden track dell’album: Arto, ormai un pezzo leggendario tra i fan, che ha il merito di aver rivalutato il nome di Arto Tunçboyacıyan (a quando qualcuno che ci riabiliti il mio amato Mulatu? Mi vanno bene pure i Slough Feg!).

Dopo la celebre fuga degli mp3 (il caso “Toxicity 2”) i SOAD decisero di correre ai ripari pubblicando “Steal This Album!”, un disco che si presenta nei negozi riprendendo esteticamente le classiche cover “fatte in casa” delle copie dei cd pirata.

Il collage di pezzi scartati dal secondo album sono per molti il massimo raggiungimento dei SOAD, e sinceramente faccio molta fatica a comprenderne i motivi.

Sicuramente c’è di mezzo una visione critica superficiale, che consta nel dire: ci sono i miei pezzi preferiti della band! Peccato che questo non sia un metro di giudizio applicabile per un album.
“Steal This Album!” è molto forzato nella quadratura del sound che Rubin impone a tutti i lavori che gli passano tra le mani, i pezzi sono hanno l’omogeneità di “Toxicity”, né la complessità espressiva.

Oltre a Boom!, pezzo celebre anche grazie al video di Michael Moore (un nome che pone il messaggio dei SOAD all’interno di una protesta sociale molto sentita e che, lo dico senza malizia alcuna, faceva vendere bene i dischi), e l’ottima prova di Tankian in I-E-A-I-A-I-O e l’apertura geniale e divertente di Chic N’ Stu il resto appare piuttosto raffazzonato e molto piatto se confrontato alla profondità di un album come il precedente.

Però è impossibile non salvare da questo macero le tracce acustiche Ego Brain e Roulette (mentre trovo ancora oggi confusa Streamline, eppure la mia ragazza mi insulta anche spesso, passandomela come la miglior canzone di sempre dei SOAD), magnificamente espressive e malinconiche.

“Steal This Album!”, per quanto mi riguarda, sebbene sia un disco che ascolto con piacere, è un passo falso piuttosto pesante nella striminzita discografia della band.

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Ed eccoci arrivati dunque al biennio del silenzio assoluto, 2004-2005, dove i SOAD stavolta semplicemente “aiutati” da Rubin (Malakian ormai vuole fare tutto da solo), compongono la loro opera più ambiziosa, il doppio… ah, no, già, non è un doppio, mi sbaglio sempre perché SONO DUE DISCHI USCITI A DISTANZA DI SEI MESI!

Il che potrebbe anche starci se non fosse che i due album sono in realtà un album diviso in due parti! Cazzo no!

Sì gente, a me rode ancora questa immane colata di merda che si nasconde dietro la scusa del “marketing” di ‘sta ceppa, potevano fare un doppio, un normale doppio, però quello non te lo potevano mica far pagare quaranta e passa euro, così te ne spiattellano due (che in realtà sono lo stesso) e via di vaselina e sorrisi compiaciuti del mio rivenditore di fiducia. Dannati metallari del cazzo!

Ma la cosa più irritante in assoluto non è tanto questo furto clamoroso seguito da biglietti ultra-mega-costosi per concerti suonati da impediti* ma quanto la schifosa ipocrisia della band stessa, che ci spiattella lì lì un disco moralista e iper-democratico, dove c’è la critica politica più spietata e comprensibile della loro storia, peccato che stavolta a coprire la sostanza ci sia troppa forma (iconograficamente rappresentabile con un chilo di merda).

Non era meglio non invischiarsi col discorso politico? Perlomeno non ci perdevate pure la faccia, IDIOTI!

Mezmerize”, quello uscito prima, resta comunque un disco più che sufficiente. Se stavolta il lavoro dei SOAD non solo riesce a guadagnare maggior respiro degli altri e anche profondità (sia nella complessità del sound che nelle liriche, almeno quando non fanno i cazzoni) manca però la violenza che caratterizza i primi due album, rallentando un po’ ma mantenendo comunque i cambi repentini e la magnifica potenza melodica.

Proprio sulla melodia stavolta c’è da riprendere per le orecchie la band, molto più scontata e banale che nei lavori precedenti.

Invece “Hypnotize” è una vera fregatura, favolosamente confezionata e degnamente suonata, ma resta una fregatura. Più che il seguito “Mezmerize” sembra la collezione degli scarti di “Mezmerize”, anche perché il disco non quadra per nulla, perdendo il respiro complessivo del disco precedente e perdendo anche la qualità compositiva. Tralasciamo Lonely Day, un pezzo scritto a tavolino per far cassa (quando la sentì su MTV fu davvero un giorno triste), ma la parte che più mi lascia esterrefatto è la rapida successione di Stealing Society, Tentative, U-Fig e Holy Mountain. Non trovo questi pezzi brutti, ma semplicemente ridondanti, si è persa sia l’ecletticità che distingueva comunque il prodotto finale dei SOAD che la costruzione ponderata degli album.

Io apprezzo moltissimo gli album che mantengono una sonorità ben precisa dall’inizio alla fine (“Toxicity” ne è un ottimo esempio), ma stavolta è un gira e rigira di idee e impressioni sonore senza capo né coda.

Se in “Mezmerize” Question! è l’apice, l’orgasmo multiplo del fan di vecchia data, invece in “Hypnotize” ci accontentiamo della feroce Attack (dal vivo rende davvero male, se non fosse per il bravissimo Tankian) e della chiusura di Soldier Side, pezzo che apriva il disco precedente, e che dovrebbe farci intuire una sorta di forma a concept album che però in realtà non esiste. Mah.

Una volta divisi cominciano le esperienze da solisti e mentre Shavo si è dato al cazzeggio creativo (collaborazioni mordi e fuggi, dj-set e video making, insomma: il vero genio della band)  gli altri hanno fatto sul serio, senza mai toccare nemmeno alla lontana le vette raggiunte come SOAD.

Di Tankian ho già abbondantemente parlato recensendo “Harakiri”, per Malakian e Dolmayan si apre invece l’esperienza degli Scars On Broadway, un primo disco discreto seguito da un secondo che voleva essere “duro e puro” e invece fa solo ribrezzo.

Ritornati assieme recentemente, sembra però non essere ancora finita quella “pausa creativa” che si erano dati, probabilmente sanno benissimo che di nuovo in studio non riuscirebbero mai a tirare fuori un ragno dal buco, e piuttosto che svilire ulteriormente il nome della band si fanno i cazzi loro e ogni tanto monetizzano con qualche tour mondiale.

*in realtà negli anni i SOAD migliorarono non poco le loro prestazioni dal vivo, però quando ho scritto il pezzo ero molto scazzato. Inoltre i ritmi più soft degli ultimi due album aiutarono non poco le esibizioni della band.

[“System of a Down”, voto: 7/10]

[“Toxicity”, voto: 7,5/10]

[“Steal This Album”, voto: 5/10]

[“Mezmerize”, voto: 6/10]

[“Hypnotize”, voto: 4/10]

Montauk – Montauk

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L’Italia è sempre stata un po’ il fanalino di coda del rock (assieme a molti altri paesi occidentali) qualche soddisfazione siamo riusciti a prendercela nei mitici ’70, ma poi siamo scomparsi di nuovo.

Di band da ascoltare a giro per fortuna ce ne sono, anche se raramente riescono a stare al passo delle corrispettive band americane e inglesi.

I Montauk sono un gruppo giovane che sta muovendo i suoi passi nel terreno del post-core e dell’indie, terreni abbastanza fertili in Italia di questi tempi. Diciamo che puntare su tematiche melanconiche e depressive in questi giorni è un po’ da una parte ”vincere facile” e dall’altra rispecchiare fedelmente lo stato d’animo dei giovani.

La band mi ha spedito l’album un paio di giorni fa, è arrivato stamani stupendomi alquanto. Non tanto per la prontezza delle Poste, ma per la presentazione del disco stesso.

Dentro un cartoncino, tenuto fragilmente da un’elastico, c’è il cd e una specie di “manifesto” d’intenti, più una montagna di disegni di fumettisti e illustratori in linea con il Montauk pensiero.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, riprendono stilemi del fumetto della grafica contemporanea, qualcosa di simile si è già visto in “Requiem” dei Verdena se non ricordo male, dietro i disegni ci sono pure delle citazioni dai testi delle canzoni.

‘Na presentazione di nulla!

Nel manifesto degli intenti la band definisce la sua musica “post-core-slo-core, indie-punk” e cantautoriale, il che secondo me sintetizza bene il disco in sé, ma è quasi più una dichiarazione di limiti che di intenti, comunque ora ne parliamo meglio.

Dice, il foglietto, che loro non sono né gli Hüsker Dü né i Fugazi, e dice giusto assai. I Montauk non hanno la velocità degli Hüsker (e quelli andavano forte per davvero), non hanno la vena politica dei Fugazi e la loro musica scarna e sanguigna, in sostanza c’entrano poco e niente con queste due leggendarie band.

La musica dei Montauk parla ai giovani, suona come uno stralcio preso da un racconto di Ammanniti, senza però la sua psichedelica progressione verso un’infausta (e inevitabile) conclusione, il discorso della band libra in aria fendendo colpi qua e là, rievocando sensazioni e angosce senza però dargli mai una direzione precisa.

Le idee alla band non mancano, come anche la capacità tecnica. Il disco è definito lo-fi, ma non è proprio un lo-fi tipo. Insomma, non suona di certo come “Slaughterhouse” di Segall o “Rubber Factory” dei Black Keys, suona più come un disco degli Zen Circus, una via di mezzo in pratica.

Comunque prima di trarre delle conclusioni andiamo all’ascolto.

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Io, il pezzo che ci introduce in questo album cortino (dai, è un EP) comincia bene. Vada per il post-core, ma diciamo un post-core piuttosto rigido. Non c’è la veemenza degli Hüsker, ma nemmeno dei And You Will Know Us By The Trail Of Dead, piuttosto si lascia spazio ad una monocromia indie come negli The Underground Youth, senza salite o discese troppo rapide.

Come Fossi Il Tuo Cane conferma quanto detto e rimanda alle sonorità dei Teatro Degli Orrori, band molto apprezzata dal pubblico italiano in questi ultimi anni. Speravo in una citazione degli Stooges in tutto e per tutto, ma già il testo “vorrei che tu mi accarezzassi come fossi il tuo cane” – che ha qualche ricordo di I Wanna Be Your Dog, suona però come una sorta di sconfitta, mentre il latrare di Iggy era intriso di un fuoco che qui manca.

Il pezzo successivo, Il Bruco, è pervaso da un nichilismo adolescenziale che fa tanto indie. Mi piace la frase “e sceglierò il silenzio” perché rappresenta bene l’angoscia tipica di questo genere, ovviamente è un ossimoro che nobilita il tentativo di dire qualcosa dei Montauk. Peccato che la struttura compositiva cominci a sembrare un po’ ripetitiva.

Song No Tomorrow butta là qualche sprazzo di new wave, c’è un po’ più di energia e c’è molto potenziale; “la rabbia è una religione” ripetono ad un certo punto, non potrei essere più d’accordo, ma aggiungo che non è ancora la vostra parrocchia, le strutture sono troppo rigide e i suoni troppo calibrati, la rabbia c’è ma non trova ancora un’espressione adeguata. Il Mondo, il pezzo dopo, non aggiunge nulla di importante.

Con Da Quando Non Siamo Più la band comincia a tirare fuori le palle, e io apprezzo molto. Il pezzo credo parli di una coppia che si è divisa, in realtà ci capisco poco grazie ad un sistema di amplificazione da rivedere (il mio), ma frasi come “resto qui a cercare un pezzetto di te nei pantaloni” sono quanto di più post-core si sia finora sentito.
Inoltre la canzone propone una struttura decisamente più elastica, passando dalla velocità alla riflessione con un certo stile, peccato che sul finale il cantante tiri fuori questo:
“la mia vita ha il senso di un sapore
è un piatto di carne a base di interiora
la violenza della cucina tradizionale
le mosche mi fanno una corona di compagnia con al loro ronzante allegria”
Eh? Boh, però il finale mi è piaciuto un casino.

In Nessuno Partirà non manca il brio, ma quattro minuti francamente mi paiono tantini per un pezzo senza troppe sorprese.

Il disco si conclude con Piove, la traccia si distacca dalle altre per la presenza di una lunga introduzione fatta di impressioni sonore piuttosto semplici, c’è molta melanconia che sfocia in una sensazione di solitudine forzata mischiata a misantropia, che fa (ancora una volta) tanto indie.

Che dire?
La band ha idee, ha capacità, ha anche un sound abbastanza personale, che manca? Manca innanzi tutto il carisma di band come Il Teatro Degli Orrori o degli Zen Circus, e per paragonarli ad altre band ancora ai margini manca per esempio un po’ di coraggio alla Gli Ebrei.

Comunque ci sono le basi per qualcosa di potenzialmente interessante.

  • Pro: bel sound, un disco suonato bene e che non ha bisogno di virtuosismi per piacere.
  • Contro: sa di poco, dopo le prime due tracce il resto appare scontato.
  • Pezzo Consigliato: Da Quando Non Siamo Più ha anche una spinta in più.
  • Voto: 5,5/10