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… e infine alcuni pezzi prog piuttosto cazzuti.

Eccoci alla fine di questa mia personalissima trilogia del prog italiano.

Dopo averne criticato gli aspetti più banali e dopo aver elogiato i grandi album meno conosciuti, ci apprestiamo adesso a fare una noiosa e puerile lista di quei pezzi che nei miei anni del liceo consumavo (facevo playlist nelle musicassette, e no: non ho quarant’anni, ne ho ventitré) fino allo sfinimento.

Non si parla dunque di capolavori assoluti o di pezzi al limite della sopportazione per la loro componente sperimentale, ma solo di quelle impressioni positive che un genere pieno di sfaccettature come il prog spesso utilizza inconsapevolmente.

Dal jazz dei Perigeo alla sperimentazione dei Dedalus, dai riff heavy dei Blue Phantom al musical di Tito Schipa Jr., il prog ha intrinseco la possibilità di abbracciare tantissimi generi, tanto che anche band come Gentle Giant che Tool sono assolutamente prog senza avere però nient’altro in comune.

La mia playlist non tocca nemmeno per sbaglio i veri capolavori del prog italiano (anche perché sarebbe semplicemente una lista di tutti i pezzi degli Area dal 1973 al 1978), e un po’ seguendo il leit motiv di questa trilogia raffazzonata è la mia impressione di un periodo che, nel bene e ne male, ha segnato la musica underground italiana.

Stavolta evitiamoci le solite seghe a cielo aperto e andiamo dritti alle songs proposte da questo blogger insopportabile.

L’Uovo di Colombo – L’indecisione

‘Sti cazzi. Allucinante giro di hammond, energia non indifferente in anni come quel 1973 dove il prog italiano si stava stanziando su forme sempre più auto-celebrative, e dove la forma sovrastava non di poco i contenuti. Il prog de L’Uovo è di una accezione ancora rock, e nei suoi voli pirandici non satura l’ambiente come gli Hunka Munka, né si formalizza eccessivamente. Una versione breve e molto più heavy e rock (senza eccessi psichedelici) degli Alphataurus.

Blue Phantom – Diodo

Avevo già parlato di questa band, ma ripetersi non fa mai male, al massimo solidifica quelle prese di posizione nette che fanno tanto bene in tempi in cui “relativizzazione” significa che ogni idiota può scardinare a suon di insulti su Facebook anche le leggi fondamentali della termodinamica. In realtà Diodo non anticipa l’heavy metal, come invece avevo sentenziato con un bell’eccesso di entusiasmo a Gennaio, ma piuttosto la deriva della distorsione verso la drone music. Formazione sconosciuta sorretta dal genio di Armando Sciascia, da recuperare a tutti i costi.

Reale Accademia di Musica – Padre

Uno dei pezzi pregiati della stagione 1972, anche se non tutti potrebbero essere d’accordo. In effetti su questa scelta sono molto titubante perché tra il prog auto-celebrativo per eccellenza c’è proprio la Reale Accademia di Musica! Ma la come i Pink Floyd di Roger Waters cambiarono molto nel soft rock sopratutto grazie ad una meticolosità nella registrazione ormai storica, questo album della Reale Accademia (“Reale Accademia di Musica”) fa più o meno lo stesso nell’Italia prog del 1972, alzando non di poco lo standard.

Free Action Inc. – Aunt Trudy

Il rock spensierato, corale e terribilmente hippie dei Free Action Inc. a me ha sempre fatto impazzire. I meno auto-referenziali di tutta la stagione prog italiana, uno sguardo disincantato verso Broadway e un rock gioioso ma non semplificato attraverso una prospettiva punk. Come avrete già intuito questa mia lista non sta assolutamente andando al di fuori di quelli che sono gusti strettamente personali, non voglio convincervi che questi siano i migliori singoli del prog italiano, sarebbe anche piuttosto difficile, ma è quel che della stagione prog mi  è rimasto particolarmente impresso, e questo folle e corale pezzo dei Free Action Inc. è qualcosa che ti entra nel cervello per non uscirne mai più.

Il Punto – Il tallone di Achille

Seconda traccia da “Ettore Lo Fusto”, disco che fa da colonna sonora all’omonimo film del 1972 diretto dal grande e quasi-dimenticato Enzo G. Castellari. La psichedelica visione di Castellari dell’Iliade è qualcosa di atroce quanto miracoloso, e le musiche de Il Punto c’entrano benino,  peccato che da una prospettiva di musica per film non sono costruite per essere raccordate alle immagini, quindi sono del tutto inutili. Ma senza considerare gli aspetti filmici il prog rock de Il Punto spacca oltremodo.

Buon Vecchio Charlie – Rosa

Un bell’album coronato da alcune idee meravigliose, tra queste la bonus track Rosa. Invece della solita menata su Gesù o sul proletariato (temi portanti di buona parte della produzione italiana fino ai CCCP) stavolta un bel lamento d’amore, tipicamente pop, ma dipingendo un uomo fragile che ha amato una donna di grande intelletto, tale Rosa, e che adesso deve fare i conti con la sua vita di cazzone insensibile (ma che insensibile non è). Mi piace il fatto che si trovi nel mezzo di un album pieno di esaltanti momenti tecnici e spicchi nella sua tragica semplicità.

Biglietto per l’Inferno – Confessione (strumentale)

Sono per le bonus track, non è una novità. Questa versione strumentale di Confessione sebbene orfana della voce di Claudio Canali (e dei suoi testi profondamente anti-clericali) rende giustizia alla grandiosa abilità tecnica della band, il mio pezzo strumentale preferito del prog italiano.

Perigeo – Looping

Pura tecnica, non asservita al Dio mastrurbatorio però, gradevolissimo e importantissimo per il 1975 “La Valle Dei Templi”, un esempio più unico che raro di un jazz-prog davvero fruibile da tutti, frizzante e dinamico come mai. Album capolavoro con una Looping da paura.

Tito Schipa Jr. – Eccoci alla Fine (Tema delle stelle e Finale)

[il pezzo comincia al minuto 6:19]

Non credo che “Orfeo 9” del bravissimo Tito Schipa Jr. sia un capolavoro, né come musical né come film (né tanto meno come doppio album in sé), ma è uno spaccato romantico, ingenuo e al contempo riflessivo e consapevole di quel periodo intriso di lotta politica, rivoluzione giovanile, concerti nel fango, e inutili e inermi vittime della droga. “Orfeo 9” spettacolarizza tutti gli elementi del passaggio tra i ’60 e i ’70 italiani, si impasta in un miscuglio Broadway-blues-pop-rock troppo spesso ridondante, ma di grande effetto. E dunque eccoci davvero alla fine di questo percorso molto intimo e poco critico nel prog italiano, con un pezzo che per la prima volta inserisce la parola “sound” nel contesto musicale italiano, perennemente più ingenuo del suo corrispettivo americano e inglese, ma altrettanto incantato da quelle poche note che in sequenza fioriscono nel rock&roll.

[Grazie di cuore a Romina che nei commenti mi ha fatto notare che Schipa Jr. ha un profilo su YouTube dove ha pubblicato gran parte dell’opera sopra citata, mentre io credevo avesse fatto l’italianata di distruggerne ogni traccia sul webbe. Grazie Romina, la prova vivente che il web serve a qualcosa a parte i magniloquenti video sui gatti.]

Alla riscoperta del prog italiano

Dopo aver sputtanato senza ritegno qualche scamorza mal pensata o semplicemente mal riuscita del prog italiano in Non è tutto prog quel che luccica, appropinquiamoci alla seconda parte di questa mia modesta trilogia alla riscoperta non tanto critica, ma piuttosto sentimentale e ingenua, del mitico movimento prog italiano.

Vi consiglio degli acquisti non sempre di facile reperibilità, ma di assicurata qualità.

Troppo spesso ci soffermiamo sugli album più conosciuti o sulle band più consigliate. PFM, Area, il Banco, Rovescio Della Medaglia, Le Orme, Il Balletto di Bronzo (e gli altri dodicimila) senza contare tutte quelle che magari ci aspettavamo meglio, ma che invece non hanno passato la prova del tempo divenendo perlopiù materiale dal valore prettamente archeologico.

Quelli che vi propongo oggi sono album che secondo il mio modesto parere dovrebbero obbligatoriamente comparire negli scaffali di un appassionato. Naturalmente se siete appassionati di vecchia data è del tutto inutile che vi sorbiate anche questo post (tanto c’avete pure l’originale dei Gleemen e dei Dalton, pervertiti!), ma di solito il vecchio progger è nostalgico quanto Winnie The Pooh goloso di miele, o se preferite quanto Bukowski voglioso di una birra.

Cominciamo con un album che, se non avessi la ristampa del 2002, potevo permettermi solo se di nome facevo Bill e di cognome Gates.

genesi_01La Seconda Genesi – Tutto Deve Finire (1972)

Questo capolavoro assoluto uscì in 200, e dico solo 200, fottute copie, e tutte (e dico TUTTE) con una copertina diversa.Ma per quale cazzo di motivo, mi chiedo, la gente fa queste cose? Forse già immaginavano che giovani virgulti come me, sentendo le prime note di Dimmi Padre, presi dalla smania di avere una dannata copia di quel discone avrebbe sborsato, chessò, 4.000 euro??? Maledetti!

Ma grazie ad un progressivo interessamento verso il prog (notare il gioco di parole) di questi ultimi anni molte di quelle opere perdute o ultra-valutate sono oggi disponibili a prezzi umani.

“Tutto Deve Finire” è un capolavoro di composizione, stile e testi, l’epicità e la squisitezza tecnica sono sopra le righe, un disco che può tranquillamente rivaleggiare con molta produzione coeva inglese. Se vi piace il prog italiano, o se volete approcciarvi a questo genere, non vedo come non partire da questo album.

  • Voto: 7,5/10

ilgiro

Il Giro Strano – La Divina Commedia (1992)

Non fatevi ingannare dalla data di uscita, le registrazioni di questi pezzi risalgono ai primi anni ’70, ma purtroppo la band non riuscirà mai a pubblicarli mentre erano in attività.

Questa pubblicazione postuma è una fortuna, non tanto per la qualità musicale (che varia dall’eccelsa alla confusionaria in pochi attimi) ma perché rivela uno spezzato musicale senza i troppi filtri che spesso intercedono nella costruzione di un album. Liberi di spaziare e inventare Il Giro Strano capitanati da Mirko Ostinet e Alessandro Feltri non provocano l’ascoltatore con esercizi di stile, né con la sperimentazione, ma suonano quello che gli piace come gli piace.

Ascoltarsi questo album è come ritrovarsi di punto in bianco in un locale di Milano, Roma o Torino nel 1973, riassaporando le impressioni e le espressioni di quel periodo.

  • Voto: 6,5/10

jJumbo – D.N.A. (1972)

Il miglior disco di tutto il prog italiano.

E adesso potete picchiarmi.

Purtroppo “D.N.A.” dei Jumbo è un album che divide decisamente l’opinione tra gli appassionati, ma credo che ciò avvenga perché esistono due appassionati di prog: il primo è appassionato di rock in generale, particolarmente di quello diretto e incazzato, il secondo invece ama più di tutto il prog nelle sue forme più complesse e esasperate.

I Jumbo sono incazzati, sono sporchi, sono virtuosi eppure imprecisi, controllati eppure anarchici, poetici come volgari. Nel loro secondo album, questo “D.N.A.”, la band di Alvaro Fella (voce e unico autore) pongono una personalità forte e decisa nel sound quanto nei concetti espressi, divenendo di fatto l’unica band di tutto il panorama italiano a riuscire a fondere l’aspetto tecnico a quello concettuale in modo perfetto, senza privilegiare né l’uno né l’altro, senza mai staccarsi da terra per volare su pensieri filosofici e senza mai adombrare la mancanza di idee con abbellimenti non necessari.

Alvaro Fella, con quella sua voce così particolare da sembrare semplicemente inadatta, è il più grande cantore della rabbia rock in Italia, sempre sull’orlo del precipizio, sempre sul punto di spezzarsi quanto gridava anatemi via via più terribili e ineluttabili, per poi riprendersi all’ultimo, consapevole che c’è sempre un momento per la rabbia come per la riflessione.

Politici, poetici, filosofici e proletari, i Jumbo sono l’essenza di cosa dovrebbe essere una rock band, al di fuori dell’appartenenza culturale e nazionale.

Magnifica ed elegiaca la suite che prende tutto il lato A: Suite Per il Sig. K, ma è altrettanto indimenticabile come comincia il lato B, con i cambi di ritmo e l’essenza rock di Miss Rand, probabilmente il singolo rock più bello della storia italiana.

Nessuna band MAI ha raggiunto le vette lirico-espressive dei Jumbo, i quali cercarono di ripetere il miracolo col terzo album “Vietato ai minori di 18 anni?” (1973), dove però l’equilibrio si perde, e dove la bilancia cede sotto il peso delle ispiratissime liriche lascia a mezz’aria la qualità musicale, meno aggressiva e autentica che in “D.N.A.”.

Disco obbligatorio non solo per i progger ma per tutti.

  • Voto: 9/10

Angoscia_1Ultima Spiaggia – Il disco dell’angoscia (1975)

Partiamo subito dicendo che se un giorno, possibilmente prossimo, qualche benefattore decidesse di ristampare tutta la discografia di Ricky Gianco gli saremmo veramente grati.

Eh sì, perché voi leggete Ultima Spiaggia (ehi: mica siamo ciechi) ma in realtà questa è la nuova fatica di Ricky Gianco dopo l’esperienza beat di Alberomotore (“Il grande gioco”, 1974), il quale per pubblicizzare la sua nuova etichetta (Ultima Spiaggia, attiva dal 1974 al 1979) produsse un album assolutamente allucinante e fuori dagli schemi.

Non è un caso se anche i più appassionati del Riccardo nazionale trovano una certa difficoltà a collocare questo album.
È progressive?
È pop?
È rock?

Il disco dell’angoscia” è uno di quei rari casi in cui un musicista invece che seguire il tradizionale metodo di composizione prova una strada diversa. Questo album infatti è una sorta di visione d’insieme che depreda e riassimila tutti gli input della musica underground dell’epoca, incollandole in un concept psichedelico che principia da un terribile incedente d’auto.

Gianco infatti non narra una storia (modus operandi di un concept classico), né una vicenda, non cerca di esprimere una sensazione o un singolo concetto, ma ci introduce all’interno della mente di un uomo che ha avuto un incidente automobilistico, e ci fa schizzare a destra e a manca all’interno del suo inconscio, producendo così un’opera ben più azzardata di quanto si creda.

Più che un album si può parlare di esperienza.
Un caposaldo del rock, del pop e della musica italiana.

  • Voto: 8/10

delirium_-_viaggio_negli_arcipelaghi_del_tempo_-_frontDeliriumIII – Viaggio Negli Arcipelaghi Del Tempo (1974)

Ultimo album dei Delirium e anche il più estremo e sperimentale.

Finalmente fuori dall’ombra di “Dolce Acqua” i Delirium danno vita ad un affresco complesso e davvero avvincente (quando non incomprensibile). Il tono epico ed elegiaco riprende buona parte della produzione italiana, ma con un piglio personalissimo e un ispirato sax di Martin Grice.

Spesso snobbato, questo album contiene perle di indiscutibile valore, oltre che la certezza che i Delirium avessero ancora molto da dire.

  • Voto: 7/10

Fede-Speranza-Carità-coverJ.E.T. – Fede, Speranza, Carità (1972)

La band più hard di tutto il panorama prog italiano, le sferzate di chitarra in questo album e le urla dell’hammond fanno impallidire gran parte delle altre band coeve (esclusi New Trolls). Strano constatare che dalle ceneri di una band così nacquero i Ricchi e Poveri e i Matia Bazar. Mah.

Difficile rimanere impassibili di fronte all’attacco sanguinolento de Il prete e il peccatore o di Sinfonia per un Re.

Unico album di questa strana formazione, ottima variabile ai New Trolls in tinta cattolica.

Notevolissimo anche il singolo che compare come bonus track: Guarda coi tuoi occhi, che nella sua semplicità e senza l’eccessiva ricercatezza degli altri brani dell’album se ne esce come il più quadrato e convincente!

  • Voto: 7/10

cover_52141717102008Maxophone – Maxophone (1975)

Inspiegabilmente ancora poco conosciuti i Maxophone hanno scritto una delle pagine più interessanti della storia del prog italiano.

L’unico grande difetto (oltre la presenza di cori in falsetto, i miei nemici da sempre) è stata la data di uscita del loro primo complesso album: 1975. Un po’ tardino per il prog classico, ma i Maxophone a ben ascoltare non erano mica così classici.

Esperti musicisti con una sensibilità davvero particolare, tale da unire in alcuni momenti King Crimson a Supertramp! Il loro primo e unico album è davvero un ponte di passaggio che decreta la fine dell’epoca underground del prog, spostando l’attenzione su un piano più pop che lentamente invece che liberare il prog dalle catene della tecnica fine a se stessa lo trasformerà in una parodia di se stesso.

Uno degli album italiani che ho amato di più, a diciott’anni mi sono bruciato il cervello ad ascoltarli notte e giorno.

  • Voto: 7,5/10

pierrot_1[1]Pierrot Lunaire – Pierrot Lunaire (1974)

Ma che sto ascoltando?
Ma siamo scemi?
Più o meno fu questa la mia reazione all’ascolto del primo album dei romani Pierrot Lunaire, una band che mi ha scombussolato le interiora.

Le impressioni che compongono questo esordio sono come appena appena accennate, molti pezzi per qualcuno potrebbero addirittura sembrare incompiuti, siamo lontanissimi dalle tinte hard dei J.E.T. o dalla profusione tecnica dei Seconda Genesi, il romanticismo dei Pierrot Lunaire però non è mai ampolloso ma sempre ben calibrato.

Magnifico quando modesto, questo è un album che dispregia il prog auto-referenziale e si produce in 12 pillole di soft-rock fuori dal tempo.

Un disco che dal ’74 ad oggi non è invecchiato di un giorno.

  • Voto: 7/10

cover_3392117102008Museo Rosenbach – Zarathustra (1973)

Io credevo fosse un classico ormai talmente conosciuto da essere annoverato tra i grandi capisaldi del prog italiano, ed invece trovo molti, sopratutto giovani della mia età, che ‘sti Museo Rosenbach non sanno proprio a quale parrocchia appartengono. Eppure nelle live vedo sempre un sacco di ragazzi… mah…

Comunque credo non ci sia molto da dire su questo album, ormai quasi più leggenda che altro.

I Museo Rosenbach sono sempre stati perseguitati dalla sfiga, prima tacciati di fascisti nel ’72 (il che potete immaginare cosa potesse significare in termini di apprezzamento in un circuito spartito da comunisti e catto-comunisti), poi dimenticati in Italia, successivamente rivalutati quando ormai l’unica cosa che riescono a fare è riproporre sistematicamente questo album e nient’altro.

Mi ripeto, non c’è nulla da dire su un monolite così, compratelo di corsa e non rompete il cazzo.

  • Voto: 8/10

Anche per stavolta abbiamo dato, nel prossimo capitolo di questa trilogia sul prog italiano vi consiglierò qualche pezzo notevole magari non sempre incastonato in dischi indimenticabili.

Alla prossima, feccia!

Non è tutto prog quel che luccica

Lo so, lo so.

Per questo post sarò gambizzato da qualche progger alterato, però prima di essere ucciso e violato da uno di voi vorrei premettere qualcosina.

Il prog italiano è stato il mio primo amore, ma lo è stato anche di tantissimi altri. Prima del movimento prog non c’era molto in Italia di cui andar fieri (per quanto riguarda il frangente rock chiaramente). Ma la totale adesione alla rivoluzione inglese e in secondo piano americana a posteriori è quanto di più prevedibile ci potesse essere.

Se in America il rock si sviluppa su una idea fondamentale di immediatezza e autenticità (con le dovute eccezioni) in UK il rock è ammaestrato tramite la tecnica e il virtuosismo (con le dovute eccezioni). L’Italia manierista anche in musica ha preferito affrontare un discorso alla Soft Machine piuttosto che Velvet Underground, più King Crimson che Captain Beefheart, più Yes che Who.

Affermare che nel prog italiano di originale non ci sia un granché non è una bestemmia, e sopratutto non toglie valore ad alcune opere uniche ed irripetibili (di queste qualcuna sarà discussa tra qualche post).

Ho partecipato ad una accesa discussione su questo tema proprio qualche giorno fa e come al solito quando gli animi si scaldano a me girano i coglioni. La gente si offende molto di più quando gli offendi il clavicembalista preferito che la mamma. Per me i musicisti, in particolare quelli che amo, mi sembrano tutti dei gran coglioni, e comunque sanno difendersi da soli dagli insulti o dalle illazioni di un cazzone sul web.

Per fortuna che in Italia siamo così ben forniti di cavalieri senza macchia e senza paura per difendere i Queen di turno. C’è da riempirsi il cuore d’orgoglio tricolore.

Comunque quello che vi presento quest’oggi è il primo passo verso una mia brevissima trilogia (sì, m’è presa con le trilogie, sono brevi, inconcludenti e approssimative, per questo mi piacciono tanto) , lo scopo prefisso stavolta è presentarvi una parte del mio percorso nella scoperta del prog italiano.

In questo primo post stilerò una lista di quei pezzi che proprio non capisco come possono essere stati pubblicati senza vergognarsi o di quelli che non hanno passato la prova del tempo. Nel secondo vi consiglierò alcuni pezzi che invece sono (secondo me) da rivalutare. Nel terzo vi proporrò gli album che in assoluto mi sono piaciuti di più (eliminando i soliti noti: PFM, Banco, Area e via dicendo perché imprescindibili e noti a tutti).

Partiamo?

I Vocals – Il Cuore Brucia

[Per gli svegli: è una cover di Into the Fire] Eh, sì, I Vocals non sono esattamente prog, ok, ma perché privarvi di questa perla? Mica si coverizzava solo David Bowie e il brit pop, c’è chi ha tentato la strada maestra delle hard rock band inglesi con fierezza e forse poco acume. Considerando che i testi dei Deep Purple notoriamente fanno schifo e provocano la morte di un neurone di Umberto Eco ogni volta che li cantate a squarciagola sotto la doccia, la versione dei Vocals è talmente brutta da essere incommensurabilmente bella! Un capolavoro trash che travalica i limiti umani dell’immaginazione! Aggiungo una postilla personale: Il Cuore Brucia dei Vocal è anche la canzone con più ascolti completi di tutto il mio iTunes.

Gli Uh! – Più nessuno al campo

Gli Uh! citano nel nome chiaramente gli Who, ma sono una band prog. Coerenti. Più nessuno al campo fa parte di quella lunghissima trafila di canzoni che si annoverano nella grande categoria: “Salva un albero, mangia un castoro”. Ma perché la gente non ara più la terra? A che servono ‘sti campi incoltivati? Un tema micidiale per l’epoca, oggi al ragazzino con l’iPod ultima generazione, disperato perché non sa se riuscirà a comprarsi il PC pompatissimo per l’uscita di Dragon Age 3, fottesega del campo d’arare. Il pezzo in sé è tutto tranne che maligno, carina anche la parentesi strumentale, ma cazzo, ‘sto testo fa davvero scendere le palle!

I Califfi – Fiore Finto, Fiore di Metallo

Ma cosa non vi scovo io? Quali perle! I Califfi si prodigano in un rock impegnato vecchio stile con un risultato a metà tra una sigla di un anime anni ’70 e una serie di virtuosismi fuori luogo, più che rock sembra plastica tale è la sua immediatezza e freschezza compositiva. Ecco, gran parte del sound di moltissime band prog era legato ad una sorta di finzione, era tutto molto cartonato, mancavano però i sani attributi maschili.

Jacula – In Cauda Semper

No ma… davvero? Davvero qualcuno ha preso sul serio gli Jacula? Davvero qualcuno li ha accostati ai Black Sabbath? Anche scavando nella memoria sono pochi gli album così spiccatamente tamarri e privi di contenuti come “In Cauda Semper Stat Venenum”. Ok le atmosfere gotiche, ma una cosa sono i Current 93, un’altra gli Jacula! Quando a metà dei 9 lunghissimi minuti di In Cauda Semper parte anche la sezione ritmica c’è da mettersi le mani nei capelli. Il testo in italiano poi è da infarto…

Flea On The Honey – Mother Mary

Sebbene siciliani, e quindi per me son già due voti in più, i Flea On The Honey (poi Flea, poi Etna e poi per fortuna si son fermati) nel loro primo omonimo album mi hanno insegnato molto, in primis come si fa un album rock davvero brutto. I musicisti son mica scarsi, però la musica torna a far scendere i coglioni. Mother Mary anche stavolta presenta un testo da nobel, utilizzando un tema epico molto caro ai progger italiani: il cattolicesimo. Cosa c’è in fondo di più epico e devastante di un uomo crocifisso e risorto, Re della gente tutta, il quale tornerà per giudicarci inesorabilmente? Dai cazzo, in effetti è figo. Anche se, dopo 2000 anni, un po’ ripetitivo.

I Maya – Salomon

No, non state ascoltando il coro della chiesetta di paese dove vostra nonna va tutte le domeniche mattina. Sono I Maya. Praticamente la conferma ufficiale che in Paradiso si ascolta un sacco di merda.

Moby Dick – Il Giorno Buono

Nel caso non l’aveste capito da soli i Moby Dick si chiamano così in omaggio ai Led Zeppelin, e tra cover e pezzi di collage tra idee originali e plagi di questa caratura si sono fatti paladini della hard rock band inglese per eccellenza. ‘Na roba deflagrante.

Il Balletto Di Bronzo – Incantesimo

Non vi incazzate, a me piacciono i Balletto di Bronzo, ma ditemi voi se questo è un testo normale oppure è stato rubato da un set di fantascienza porno-soft. Ditemelo. Sù.

Milords – Solo vento, solo sabbia

Difficilissimi da reperire i Milords non mancano di certo tra i collezionisti più compulsivi. Tra strumentali alla Il Punto e schizofrenia beat, momenti filo-Battisti e pop, senza dimenticarci degli “effetti speciali” atroci, giuro, cazzo lo giuro davanti a tutti voi, i Milords hanno creato un genere unico, nuovo, inimitabile. Una smerdata davvero inimitabile.

Black Sound – Smog

Torniamo sul tema civiltà contro natura con i Black Sound, band trevisana ormai di culto della sotto-cultura musicale italiana. Commistione unica di cliché e strutture sfruttate fino all’inverosimile, i Black Sound sono una fotocopia vivente di tutto quello che tirava all’epoca, mettendo qua e là un eco (che fa figo).

Hunka Munka – L’aeroplano d’argento

Dedicato a Giovanna G” degli Hunka Munka fu un acquisto obbligatorio, primo: lo conosceva un sacco di gente tranne me, secondo: la copertina è una figata allucinante. Essendo stato ristampato di recente lo comprai senza dover spendere i canonici sessanta euro che di media ti spillano per queste bellezze italiane (parlo ovviamente di pezzi di plastica graffiati dai gatti e con copertine ricamate con un km di scotch, le copie messe bene vanno via a botte di 100.000 €!). Cazzo gente, ma che droga vi sparate in vena? No, sul serio, che cazzo succede in questo album??? Tutti ‘sti suoni che esplodono dalle casse saturano l’ambiente peggio di un disco degli Sly & The Family Drone, ma poi l’avete capito bene il testo? Che cazzo vuol dire “se avessi un aeroplano d’argento farei le corse con il vento, ed una sigaretta col sole mi accenderei” ma scherziamo??? Porca vacca gente, all’epoca ne passava di roba buona…

So bene che questa mia lista è incompleta e di certo non spaventosa come potenzialmente potrebbe, così invito chiunque passi di qua a lasciare pure un suo contributo, sarà pubblicato (deh, sì, col vostro nome, ok) assieme agli altri – se avete un link da qualsiasi piattaforma dove poter ascoltare il pezzo consigliato sarebbe gradito, ovviamente mi aspetto anche una gustosa descrizione!

Alla prossima, feccia!

The Move – Move

the move

Negli anni ’60 sono venute sù così tante band che oggi è davvero difficile fare il punto della situazione.

Un genere particolarmente sfigato è il progressive, oggi noto perlopiù grazie ai gruppi più influenti. Si và dalla musica complessa e consapevole dei Weather Report ai barocchismi degli Yes alla genialità di Peter Gabriel con i Genesis. Purtroppo molte band che furono come un ponte ideale per il prog e i suoi sviluppi vengono tutt’ora ignorate. Tempo fa parlai dei Rare Bird, band eclettica che decise di andare avanti con un hammond, due tastiere, una batteria, un basso e nemmeno mezza chitarra, tirando fuori dal cappello un disco eccezionale nel 1970 come “As Your Mind Flies By”. Oggi invece ci concentreremo su una band molto diversa.

Le influenze che portarono il prog a diventare un genere ben (insomma) definito sono state tantissime, e non tutte d’accordo con loro! Si va dalla psichedelia nel garage rock a John Cage e alle tecniche stocastiche, fino a Anthony Braxton e magari qualcosa dalla musica di fine ottocento.

Comunque nella maggior parte erano band che nascevano sulla scia dei deliranti anni ’50-’60, ragazzi che vedevano nella strumentazione elettrica una via di scampo e un simbolo della lotta contro al generazione precedente, la loro emancipazione, la loro libertà.

Alcuni di essi a forza di sperimentare iniziarono ad interessarsi ai generi suddetti, cominciarono ad affinare la loro tecnica, e sempre in quegli anni iniziarono i primi bisticci tra le band.

Il successo incredibile degli Who portò in quel di Londra una lotta musicale senza paragoni. Ogni quartiere si sentiva in dovere di rispondere, ma la guerra dei mod era una vera e propria guerra a suon di chitarra e batteria!

Tra le band più rappresentative ci sono certamente gli Small Faces, ma è ingiusto che il tempo si sia lasciato dietro una band eclettica come i The Move.

I The Move nascono proprio come risposta a questa situazione musicale, una risposta di tutto punto che racchiudeva in sé alcuni dei maggiori talenti della Londra dell’epoca. Roy Wood fu il filo conduttore della band, dai The Nightriders ai Move fino ai Electric Light Orchestra: la sua sarà una carriera in decisa ascesa, potremmo dunque definire i Move come il momento di passaggio per Wood dall’anonimato alla fama.

Cosa c’è nei The Move che possa far presagire al salto con gli ELO?

Tante cose, anche se al contrario degli ELO i The Move erano un progetto in continuo movimento (come si intuisce dal nome della band), si ispirarono ai Beatles come ai Faces, ai Byrd e ai Creem, e tentarono molto presto, cioè già al secondo disco, di appoggiare appieno il movimento prog inglese.

Nel 1970 con “Shazam”, e nel 1971 con “Looking On” riuscirono a ritagliarsi un posto importante in quella difficile Londra, mischiando pop basilare al prog e a qualche timida sperimentazione.

A mio modestissimo avviso il lavoro più interessante è il primo disco, omonimo ovviamente, del 1968, il quale racchiudeva le esperienze della band dal ’65 fino a quel momento. Fu una band molto vivace politicamente, niente a che vedere con i feroci MC5, ma ricevettero denunce e censure di ogni genere. I loro testi andavano da gente chiusa in cliniche per l’infermità mentale ad attacchi a noti politici, alcuni dei loro pezzi degli ultimi ’60 hanno ritrovato la luce solo negli anni ’90!

The Move - Move

“Move” è un disco pop, con tinte prog, decise virate psichedeliche e qualche tentativo sperimentale (davvero accennato e ingenuo). Con le dritte di Dennis Cordell e della Regal Records Zonophone questa band sembrava pronta per sbancare ovunque.

La Regal fu tra le etichette che unite si trasformarono nella EMI, e gran parte del suo valore lo deve proprio alle orecchie di Cordell, produttore di successi mondiali come “A Whiter Shade Of Pale” (1967) dei Procol Harum e il glorioso “With a Little Help from My Friends” (1969) di Joe Cocker.

Sì, ok, mi sono un po’ perso in seghe mentali come al solito.

Il disco si apre con Yellow Rainbow, da Barrett ai Beatles per i Move c’è un passo, certamente a livello compositivo non hanno niente da invidiare ai secondi, magari peccano un po’ di creatività.

Segue bene Kilroy Was Here (Wood è un trascinatore nato), conferma la psichedelica vena creativa anche (Here We Go Round) The Lemon Tree con una una ingenua sezione d’archi che fa sorridere senza infastidire.

Molto garage la Weekend di Bill and Doree Post, molto Beatles Walk Upon The Waters.

Flowers In The Rain è una di quelle cose per cui ringrazi gli anni ’60. Spensieratezza derivata da un uso poco ragionevole di acidi, con quegli effetti sonori che sarebbero quasi ad un livello narrativo (è presente un effetto temporale). Ricordo che anche Le Orme, nel loro primo disco, nel singolo Oggi Verrà utilizzarono un effetto simile (un po’ più scrauso magari) ma senza donargli questa piccola, timida, valenza narrativa. È comunque un punto a favore per i The Move.

Hey Grandma spinge sul rock, e non possiamo che apprezzare. Il disco fin qui non annoia mai, nessun capolavoro, ma buona e sana musica popular.

Useless Information è un riempitivo semplice senza motivo di esistere. Più divertente e filo-zappiana Zing Went the Strings of my Heart, una nota di colore decisa nell’album.

Daje cogli archi con The Girl Outside, un sound molto italian style, ma non c’è da sorprenderci. I Move hanno avuto un breve ma intenso momento di popolarità in Italia, grazie al singolo Blackberry Way (ideato assieme all’Equipe 84, in Italia è conosciuta come Tutta Mia La Città), addirittura nel ’71 i The Move canteranno in Italiano con Something nel loro disco”Looking On”.

Fire Brigate è simpatica, ma nulla più. Mist on a Monday Morning fa molto primo prog, con l’idea del suono del clavicembalo e gli archi e Wood che canta come un vero lord inglese. Gustoso.

Chiude una versione un po’ infima di Cherry Blossom Clinic, certamente il loro capolavoro, ma in questo singolo c’è solo la potenza di quello che poi sarà atto nell’album successivo, ovvero “Shazam”, dove troneggia senza dubbio una Cherry Blossom Clinic Revisited di ottima fattura, psichedelica e prog oltre modo, uno dei miei pezzi preferiti del ’70 per follia e goliardia.

Insomma, “Move” dei The Move non ha cambiato le nostre vite alla fine di questo ascolto, ma non ci ha nemmeno fatto pentire dei soldi spesi.

  • Pro: un disco da custodire come documento storico, in “Move” potete sentire tutte le influenze che definirono alle orecchie della gente generi come il garage, il prog, la musica psichedelica e il pop raffinato degli ELO.
  • Contro: pochissimo, le ingenuità in questo caso sono un valore aggiunto per me!
  • Pezzo Consigliato: non è di questo disco, ma Cherry Blossom Clinic Revisited è davvero un gioiello perduto dei ’70. Godetevelo.
  • Voto: 6,5/10

Blue Phantom – Distortions

La recensione di oggi è davvero una chicca allucinante. Per ascoltare decentemente questo disco sono finito nella cantina di noto venditore di vinili fiorentino, l’originale è una rarità assoluta nel campo del collezionismo. Certo, mi direte, ci sarà su YouTube (e difatti oggi l’ho trovato per i link), ma un recensore che ascolta un album su YouTube è credibile? Credo che anche la ricerca aiuti la recensione, diventa molto più sentita e attenta proprio perché frutto di uno sforzo (anche se minimo) invece che frutto di un semplice svago girando tra i collegamenti consigliati dal Tubo.

I Blue Phantom non sono molto conosciuti all’infuori dei circoli del collezionismo e non sono da confondersi con i Phantom Blues Band (band blues in attività che vanta collaborazioni con Etta James, Joe Cocker e i Rolling Stones) o con i Blue Phantom Band (band italiana in attività fondata nel ’71, fanno un blues vecchio stile, dal vivo sono indimenticabili) o con le temibili Phantom Blue (le cinque fattucchiere dell’heavy metal).

La band ha probabilmente come factotum il polimorfo Armando Sciascia, dato che il compositore del disco si firma “H. Tical”, celebre pseudonimo del violinista. Siamo nel 1971, Sciascia è stato un grande sperimentatore come dimostrano molte delle sue colonne sonore, difatti per confermare ulteriormente la sua paternità và ricordato come Distortions, il disco che mi appresto a recensire (prima o poi, se non mi perdo in ulteriori digressioni), sia stato usato come colonna sonora di molti film del discusso regista spagnolo Jesús Franco (sì, proprio Jess Franco).

Di certo uno dei più importanti lasciti di Sciascia è stata la fondazione della Vedette, la sua casa discografica, nel lontano 1962. In quell’anno l’eclettico compositore italiano aveva dato la sua arte all’inutile regista Renzo Russo, il film in questione è il noiosissimo Sexy, un delirio di chiacchierate futili e balletti stomachevoli. La Vedette dal canto suo una delle case discografiche sicuramente più attive dell’epoca, e la qualità era piuttosto elevata: si passa dal rarissimo Contrasto dei Pooh, a nientepopodimenoche il primo disco degli Equipe 84, c’è posto anche per il mai abbastanza compianto Giorgio Gaber, il capolavoro dei Metamorfosi Inferno, ma c’è spazio anche per Stefano Rosso! Di certo il colpaccio la Vedette lo fece quando prese il posto della mitica Elektra e pubblicò in Italia nel 1970 Morrison Hotel dei The Doors, uno dei picchi della band americana tornata finalmente al blues che le apparteneva (anche per taluni è invece una netta virata verso idee più rock). Sciascia ha prodotto oltretutto un’altra rarità del panorama italiano: il leggendario Uno dei Panna Fredda.

Il disco dei Blue Phantom viene pubblicato con l’etichetta Spider records, una sotto-etichetta della Vedette dimenticata per strada dall’inefficiente Wikipedia. Dell’ensemble che traduce in musica le indicazioni di Sciascia non sappiamo nulla neppure oggi, un gruppo da studio che molto probabilmente era legato al compositore italiano, quello che sappiamo di certo che uscì solo Distortions e un singolo a lui legato sotto il nome dei Blue Phantom, poi il nulla: niente live, nessuna apparizione in riviste o TV, nessuna paternità riconosciuta, niente. Gran parte di queste informazioni le ritengo sicure, difatti le ho prese dal blog di John’s Classic Rock, in Italia una fonte più che mai autorevole per tutto ciò che concerne il prog made in Italy.

Le influenze derivano certamente dai grandi come Le Stelle di Mario Schifano, qualcosa da Dies Irae (1970) dei Formula Tre, e forse forse dallo sconosciuto quando eccezionale Plays Eddy Korsche – Rock & Blues (1970) dei Free Action Inc., in ambito internazionale c’è tanto dei primi Iron Butterfly,  avrà forse ispirato il disco d’esordio de L’Uovo Di Colombo (omonimo, 1973) e azzardo magari Generazioni (Storia Di Sempre) (1975) dei miei amati E.A. Poe. Il disco è interamente strumentale.

Blue Phantom - Distortions

L’album si apre con una potentissima Diodo. Il riff anticipa in maniera impressionante l’heavy metal inglese più oscuro, mentre la prima variazione con un tastierista sotto acido ci fa tornare in clima psichedelico, un’andirivieni tra riff spettacolari e fughe allucinate.

Metamorphosis ci ricorda che siamo di fronte a degli anonimi che suonano in modo perfetto. Un po’ confuso a tratti, per fortuna la chitarra e la batteria sono ispirate da non so quale divinità musicale. Una chiave di lettura alquanto particolare per il ’71, anche se si presta molto meglio come colonna sonora che come singolo.

Microchaos è una breve perla di saggezza. Riff potenti, suoni da un altro pianeta si intersecano perfettamente, nulla in realtà è lasciato al caos. Questo è un singolo con i coglioni.

L’attacco di Compression per un attimo rimanda a quei torbidi film erotici italiani dei primi settanta che Sciascia certamente conosce fin troppo bene. Per fortuna il suo sviluppo è dedito alla psichedelia più favoleggiante possibile, rimandi con i classici della psichedelia a sfare, un piacere sovra-dimensionale.

Equilibrium riprende un po’ il pezzo precedente, con una profondità maggiore, un tema molto più riconoscibile e un pizzico di Santana (pizzico eh, non mi insultate).

Lato B, si ricomincia col riffone, Dipnoi però è certamente più folle dei suoi precedenti Diodo e Microchaos. Virtuosismi che si susseguono, e mi ritrovo a pensare: questi ci sanno fare di brutto, così mi rendo conto che questo disco vale molto più del suo già folle prezzo da collezione.

Distillation mi fa balzare dalla sedia, un’attacco potentissimo, una cosa del genere se la sognano i Black Sabbath (ci sono tantissime sfumature che rimandano all’heavy metal dalla band di Iommi & Osbourne, comunque l’accostamento – che è stato fatto spesso da altri recensori – è piuttosto difficile per me). Il pezzo dopo qualche minuto parte per i conti suoi, una jam psichedelica di ottima fattura.

Violence è l’ennesima allucinazione corredata di moog e fughe barocche. Il brano è tra i più ispirati del disco, una struttura solida dentro la quale la fantasia dei musicisti capitanati da Sciascia si propaga oltre i limiti consentiti dalla razionalità (esagero un po’, ma è tutta colpa dell’esaltazione di poter ascoltare un rarità di questo tipo).

La calma dopo la tempesta è Equivalence, sostanzialmente una buonissima colonna sonora per un film diretto ipoteticamente da Syd Barrett.

Psycho-Nebulous ha un grande difetto per i miei gusti, inizia come se fosse già a metà pezzo. Mi ha sempre dato fastidio questa pratica, per fortuna mai troppo abusata, quando si cerca di comporre “rock d’avanguardia”. Va bene che il disco è bello ma non è mica Parable Of Arable Land, quindi se magari ti attieni a quanto fatto finora non sputtani tutto nel finale. Comunque Psycho-Nebulous è un chiarissimo caso di riempitivo senza funzione, strano, noioso, di una psichedelia che non ha alcuna funzione se non quella di un fastidioso scampanellio di musicisti sotto acido.

Nella versione CD del 1998, che ho giustamente recuperato solo stamani, sono presenti inoltre Uncle Jim (un bellissimo divertissement alla Barrett, ma arrangiato divinamente) e una versione singolo di Diodo.

Il lavoro è sicuramente un prodotto del tutto inusuale, sebbene le ottime premesse di Sciascia con dischi come Mosaico Psichedelico (1970), in Distortions i suoni e le idee sono inspiegabilmente avanguardistiche, un disco da avere assolutamente per la sua unicità e genialità.*

  • Pro: è un disco unico nel 1971, un caso musicale da studiare e conservare gelosamente.
  • Contro: momenti in cui la follia psichedelica dilagano senza un motivo apparente, a volte la sperimentazione non trova un motivo di essere e dà oggettivamente fastidio.
  • Pezzo Consigliato: Diodo è davvero bellissima, ma anche l’inedita Uncle Jim mi ha esaltato tantissimo all’ascolto.
  • Voto: 6/10

[*ERRATA CORRIGE: come gentilmente fattomi notare nei commenti “Mosaico Psichedelico” è una raccolta postuma mentre il link è riferito a “Impressions in Rhythm and Sound” (qui il link a Circuito Chiuso) album del buon Sciascia del 1970.]

Delirium – Dolce Acqua

Nello scorso post avevamo chiacchierato dei Soundgarden, stavolta cambiamo decisamente direzione.

I Delirium furono tutto, ma proprio tutto, tranne che un gruppo di successo. Tutte le beghe della prima band di Ivano Fossati furono strettamente legati all’inusuale metodo di promozione dei loro lavori. Prima pubblicano un disco che non caga nessuno, anni dopo pubblicano singoli di successo, l’anno dopo ancora tirano fuori l’ennesimo disco senza seguito, e poi pubblicano singoli che ricalcano pari pari quelli vecchi e quindi non se li fila più nessuno. Beh, il loro destino si concluse nell’arco di ben tre album.

Chiaramente rivalutati e recentemente riorganizzati, i Delirium sono un pezzo di prog italiano ormai stra-conosciuto, ma come tutto il prog non vengono quasi mai contestualizzati in modo decente.

Prima di tutto sono figli dei ’60 e si sono presi il ’68 in faccia senza concedersi troppi spazi di riflessione. Un cultura musicale (e non soltanto) in pieno cambiamento, che sperimenta veramente di tutto comprendendo nel migliore dei casi il 30% di quello che facevano. Piano piano di artisti auto-consapevoli ne escono fuori e la loro lunga gavetta servirà per fondare gruppi che entreranno nella leggenda (Le Orme, Il Balletto Di Bronzo, la P.F.M. e moltissimi altri), i Delirium di gavetta non ne fanno tantissima dato che già ad un anno dalla loro nascita (conosciuti allora come I Sagittari) diventano famosi in tutta Italia vincendo concorsi qua e là.

Il 1971 seguiva ad un anno per la musica meno incasinato di quanto si pensi. Sebbene la rivoluzione in ambito concettuale portata prima da Beefheart con “Trout Mask Replica (1969) e in ambito artistico più ampio con “Desert Shore (1970) di Nico, il rock non seguirà di certo quella direzione, e il 1971 sfornerà capolavori come “3” dei Soft Machine e sarà figlio della tragicità di “The End Of The Game“, il disco che sancì l’uscita dai Fleetwood Mac di Peter Green. Il contesto musicale internazionale stava prendendo delle direzioni ben precise, in Italia invece si stava instaurando il regime del prog.

Nel 1971 esce “Dolce Acqua” sotto l’etichetta storica della Fonit Cetra (New Trolls, Osanna e Renzo Arbore tanto per citarne alcuni), però in questo disco d’esordio dei Delirium le premesse non sono delle migliori. La band propone sulla carta un miscuglio si può dire delirante di jazz, prog, rock e blues, un po’ di Jethro Tull, un po’ di King Crimson. E invece…

“Dolce Acqua” sorprende prima di tutto per la straordinaria eterogeneità dei pezzi. Come avrete capito se avete letto il mio post precedente, sono piuttosto fissato sul sound di un disco, sul rapporto tra una traccia e l’altra di un album e la sua riuscita in un ascolto  completo. “Dolce Acqua” in questo senso è una delle cose migliori mai uscite in Italia.

L’idea, piuttosto ingenua in realtà, è quella tanto in voga del concept album. Se facevi prog dovevi fare almeno un concept album se no non eri nessuno. Ne sono uscite di schifezze mica male, ma per fortuna controbilanciate da capolavori inestimabili. “Dolce Acqua” ha una narrazione veramente debole che si rifà ad un retaggio spiritualista-naturalista che tirava parecchio tra i giovani sessantottini. Le tracce sono titolate in modo evocativo pseudo-intellettuale, il tutto contornato da una cover a metà tra un graffito e un dipinto che dovrebbe riassumere i contenuti del presunto concept album. Vi lascio trarre le vostre conclusioni da soli.

Si comincia più che bene:

Preludio (Paura), e notare subito l’uso di un linguaggio tipico della musica classica in un ambito che però fa un po’ a botte (altre band sapranno invece far tesoro dei loro studi, e doneranno un po’ di filologicità a queste scelte), è un inizio davvero di un certo spessore. Un pezzo tra il beat e il rock acustico, le sonorità del flauto sono tra le più evocative e belle di sempre, di meglio si trova qualcosa soltanto nel terzo e ultimo disco proprio dei Delirium, “III (Viaggi Negli Arcipelaghi Del Tempo)“. Inoltre è una delle poche vette evocative di tutto il disco.

Movimento I (Egoismo) e il Movimento II (Dubbio) sono due pezzi strumentali che già complicano inutilmente delle belle idee. Un viaggio psichedelico tra la tecnica pura, tra l’altro non così eccelsa, e misti fritti di generi diversi. La cosa più incredibile è che non ledono in alcun modo all’orecchio, personalmente mi piacciono parecchio anche se con i loro limiti. To Satchmo, Bird and Other Unforgettable Friends (Dolore) riconferma le impressioni precedenti, anche se il dialogo tra gli strumenti in questo caso mi pare più efficace.

Sequenza I e II (Ipocrisia – Verità) continua il trend, portandolo però alla noia. Chiara la decisione di fare della musica a tratti quasi descrittiva, la scelta di un concept vuole essere rispettata in qualche modo, però se mancano le idee è inutile buttar lì riempitivi.

Johnnie Sayre (II perdono) prende il testo da una delle più celebri poesie della antologia di Spoon River, peccato per la musica, alquanto piatta e anonima. Il sound è comunque più che piacevole, di certo non vi metterete a pestare i piedi per terra ascoltandolo, però la piacevolezza lascia presto spazio alla ripetitività.

Favola o storia del lago di Kriss (Libertà) è il mio pezzo preferito di tutto l’album. In realtà non ha nulla di speciale, ma credo sia prima di tutto uno specchio fedele degli intenti della band e del loro contesto storico e sociale. Il testo conferma senza ulteriori dubbi la matrice ambientalista: sotto forma di favola si presenta l’angoscia di questo lago che vorrebbe conoscere cosa c’è nel resto del mondo, finché non compare questa sorta di spirito, presentato come un vento animato, che gli spiega quanto esso sia invece fortunato ad essere così lontano dal degrado umano e dalle sue immonde costruzioni. Lasciando da parte il testo sentite come la melodia, il ritmo, la voce, si mescolano tutte assieme e trovano un loro perfetto equilibrio. In un momento morto del disco (siamo nel lato b), quando la testa divaga tra tutti quegli spunti lasciati a metà nelle “fughe” strumentali, ecco un raccordo perfetto tra di essi e la futura presa di coscienza della band.

Il gran finale spetta a Dolce Acqua (Speranza), un gran bel pezzo prog, tra i più belli in assoluto, commistione ideale di tutti i sound presenti nell’album.

Che dire di più? Un disco da avere assolutamente per comprendere un periodo storico davvero esaltante per la musica italiana.

  • Pro: eterogeneità tra le tracce dell’album, alcuni brani sono tra i più rappresentativi del prog italiano.
  • Contro: ogni tanto momenti di noia.
  • Pezzo Consigliato: Favola o storia del lago di Kriss (Libertà), sintetizza temi, suoni, idee di un anno straordinario.
  • Voto: 7/10