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Black Mountain – Black Mountain

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I Black Mountain sono una band relativamente giovane conosciuta più dai critici rock che tra gli appassionati di rock, il che è un po’ quello che accadde per esempio ai Rare Bird di cui avevo parlato l’ultima volta.

Al contrario dei Bird i Black Mountain non sono certo avanti coi tempi, anzi, sono un po’ indietro.

La smodata passione di Stephen McBean per i ’70 e i ’60 non è certo un mistero, già nel suo primo ensemble, i Pink Mountaintops, progetto parallelo ai Black Mountain, McBean e compagnia bella si sdavano sul rock psichedelico, con un’anima però un po’ pesantuccia.

McBean fuori dai Black Mountain sembra Syd Barrett imbottito di valium, una noia tremenda. Dicono che per chi ama la musica psichedelica dischi come “Outside Love“, del 2009, sia un gran bel disco. Beh, a me piace la psichedelia, eppure “Outside Of Love” mi fa sinceramente schifo. Noioso oltremodo, ripetitivo, i testi che dovrebbero essere strappalacrime invece si rivelano banali e melensi. Sarà una questione di sensibilità, non lo metto in dubbio, ma a tatto i Pink Mountaintops mi fanno venire prurito alle parti basse.

Tutt’altra storia i Black Mountain che nel 2005 si presentarono con il miglior disco mai prodotto dalla Jagjaguwar. Ovviamente omonimo il primo album dei Black Mountain sembra a tutti un ottimo tributo ai Black Sabbath, ma niente di più, ma per me non è così semplice.

Dopo il successo McBean continua a scrivere canzoncine per la nonna con i Pink, ma nel 2008 stupisce ancora con “In The Future“, secondo disco dei Black Mountain, con una quantità incredibile di pura genialità, banalità, prog-rock, noise e ballate degne, al massimo, di Lenny Kravitz. Ce n’è per tutti i gusti!

“In The Future” è davvero una piccola perla nel 2008, un disco incompreso ancora una volta dal pubblico ma non dalla critica. È difficile nel 2000 poter ascoltare riff potenti e fughe psichedeliche come in Tyrants, e nello stesso album potersi fare un viaggio con Queens Will Play e la folle Bright Lights, oppure infilarsi nel trascinante rock tribale di Evil Ways. Tutti i lavori di questa band sono seguiti spesso da innumerevoli tracce che non rientrano nel cd, ma che sono tutt’altro che riempitivi, piuttosto spingono ancora più in là le idee della band, come in Black Cats, dove il sound è molto moderno, con una strizzatina a tratti alla new wave.

Trovo che nella gioiosa ecletticità dei Black Mountain ci sia tanta ingenuità, ma anche tanta sincerità. La band sperimenta i suoi limiti, niente di nuovo o di rivoluzionario, ma non c’è la pretesa di esserlo. Questa umiltà traspare decisamente nei primi due lavori dei Mountain.

Per i primi due dischi si parla fin troppo spesso di Led Zeppelin, quando in realtà degli Zep c’è solo qualche rimando, certamente McBean tende di più verso i primi monolitici Black Sabbath, i Blue Öyster Club e i Blue Cheer, ma anche i Dead Meadow senza contare gli Hawkwind, questi ultimi molto rivalutati in tempi recenti anche dal garage rock (vedi il californiano Ty Segall).

Non disdegnano ogni tanto qualche rimando jazz e al pop raffinato (Angels) ma continuo a premere sulla sincerità, che poi non è che sia un merito soltanto della musica, diciamo, fuori dal mainstream, perché anche giovanotti di belle speranze come Mitch Laddie fa revival (blues) ma meccanicamente, senza l’energia di gente come McBean, che pure nei soporiferi Pink Mountaintops ci mette l’anima, e si sente.

Inoltre anche se spesso ci vanno giù di wall of sound non essendo fanatici del low-fi a tutti i costi, tipo i Purling Hiss, il loro suono è sempre pulitissimo e molto calibrato. Nessun eccesso, nessuna nota storta, c’è un grande controllo, forse anche troppo. In effetti una caratteristica fondamentale del loro sound nei primi due album è un po’ questo eccessivo controllo, che alla lunga estranea, crea come una sorta di vuoto mentale nell’ascoltatore, si percepisce spesso nelle tracce dei Black Mountain un malessere esistenziale affascinante. La ripresa di Tyrants, la terribile ripetitività del riff in Don’t Run Our Hearts Around distruggono lo spazio e il tempo, inconsciamente ci finisci dentro, assieme a loro. Guardate che c’è una grande consapevolezza nella psichedelia dei BL, il che mi sembra sia stato poco sottolineato anche dai critici più entusiasti, i quali si sono decisamente soffermati sui ricordi rock che i riff rimandano, senza invece prendere in considerazione le qualità intrinseche alla band.

L’ultima fatica in studio dei Black Mountain è il mediocre “Wilderness Heart” (2010), più in linea con le altre band prodotte dalla Jagjaguwar, roba perlopiù pseudo-intellettuale o triste-intimistica, o semplici scempiaggini come i Foxygen, gruppo californiano di grande successo ma senza un bel niente da dire.

Ma andiamo a conoscere meglio l’album d’esordio dei Black Mountain.

Black Mountain 2005

Modern Music è un inizio sconcertante. Avevo detto Black Sabbath e Hawkwind, ed invece eccoci a partire con un pezzo pieno di ecletticità e allegria, e un istrionico McBean che ripete: we can’t stand your modern music, we feel afflicted! e a chi si riferisce? Probabilmente a tutto il movimento della new wave più afflitta, all’indie più autolesionista, al brit pop senz’anima, o più in generale a tutta quella musica moderna senza passione, meccanica, vuota. Ok, ci dicono, ci rifacciamo al passato, ma solo alla sua musica.

Netto lo stacco con Don’t Run Our Hearts Around, un riff potente ma imperniato di psichedelia pura, il pezzo è un susseguirsi di variazioni imprevedibili ma mai eclatanti (mi piace un casino).

Ennesimo salto con Druganaut, si può parlare di prog, ma sempre senza orpelli inutili, duetti di ottima fattura tra McBean e Amber Webber, psichedelia e chitarra elettrica che passa dall’essere protagonista di sostanziosi riff all’essere totalmente disassemblata in suoni distorti ma sempre espressivi.

In No Satisfaction la band si lancia in un folk leggero. Mi piace il ruolo del testo, la ripetizione ritmica di: ‘cause everybody like to claim things, everybody shame things and everybody likes to clang bells around è un po’ più sofisticata di come si presenta. McBean ragiona su alcuni luoghi comuni del loro far musica, del revival, sul modo di vivere questa esperienza, cantando we can’t get no satisfaction per me rivela una sorta di “costrizione”, un modo di apparire che però non si confà con la realtà che si cela dietro, la mancanza di un reale sentimento di appartenenza verso la comunità, esplicata bene nel pezzo successivo (inoltre si citano i Velvet di Lou Reed, avete presente I’m Waiting for the Man?).

Set Use Free è un pezzo semplice ma costruito con grande maestria, terribilmente malinconico ed estraniante. Rimandi a Killer dei Van Der Graaf Generator sono da vedersi nel testo, questo sentirsi killer, assassini delle emozioni che ci circondano, il tema della liberazione dalle macchine (=società) per tornare ad essere davvero, a poter amare, a poter essere liberi è di una banalità sconcertante, ma ben esplicato.

Invece No Hits rivela una propensione all’elettronica (moooolto velata) che si ripresenterà in vari aspetti in tutti gli album dei Black Mountain, ma ad oggi non ha trovato ancora un sviluppo interessante. Molto prog, ma senza una direzione precisa.

Heart Of Snow si presenta con un prog classico, ma il sound della band riesce a far riscoprire il gusto di ascoltarsi anche la più banale struttura prog pensabile. Un pezzo molto delicato e tragico.

Devo dire che dal 2005 ad oggi ancora non sono riuscito a trovare niente di interessante nell’ultima traccia dell’album, Faulty Times, buttata lì così, un pezzo alquanto insipido e senza il piglio dei Mountain, più scolastico diciamo.

Credo sia un disco che merita, come anche il secondo, “In The Future”, forse nel 2005 avevate altro da fare mentre la critica adorava questo album d’esordio, ora però non avete troppe scuse per non ascoltarlo.

  • Pro: non è semplice revival, la band non ha enormi qualità, e probabilmente non ha già più niente da dire dopo soli due album, ma c’è molta passione e tanta sincerità, che al giorno d’oggi è merce rara.
  • Contro: se non vi piace lo stoner rock non è esattamente un disco che vi consiglierei. Riffoni che si perdono in ripetitivi momenti psichedelici, voci suadenti e mai un momento di vera rabbia rock, praticamente una palla.
  • Pezzo Consigliato: è difficile perché alcuni pezzi sono molto slegati tra di loro, comunque credo che Druganaut sintetizzi efficacemente il sound e le idee dei Black Mountain.
  • Voto: 6,5/10

Ty Segall – Goodbye Bread

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[Dopo un paio d’anni mi pento di parecchie cose in questa recensione, ma il bello di fare recensioni perché mi va sono anche queste uscite così entusiastiche, esagerate, prorompenti. Da qui ho cominciato ad aprirmi alla scena garage californiana, e adesso nel 2015 posso dire che è stata la protagonista di questo blog per un paio d’anni buoni. Quindi grazie Ty, non so bene di cosa, ma grazie.]

Ty Segall è californiano gente, cresciuto come solo in California crescono i veri uomini, pane, acqua e garage rock.

Quando ascolti Segall non sai bene da dove partire. Delle volte sembra appena uscito da una jam session con Iggy, delle altre invece con i Sonics, non è raro che mi rimembri a tratti anche i Seeds, i Troggs e i Crime.

La musica di Segall non vuole colpirvi il cervello, punta dritto dritto alle budella. I suoni distorti, il feedback, errori palesi e le sbavature, tutto fa parte della potenza espressiva di questo cazzone.

Per me è difficile fare un recensione di “Goodbye Bread“. In realtà la cosa è andata così: mi giravano le palle perché volevo recensire il Richard Hell dei tempi d’oro, però poi ho pensato che faccio troppe recensioni di vecchiardi, in seguito mi è venuto in mente che potrei fare una recensione sui Foxygen (che, per inciso, odio) e mentre mi lambiccavo con questi dilemmi iTunes, che se ne stava lì a buttare in sequenza casuale miliardi di ore di musica, mi spara a tutto volume California Commercial, proprio da “Goodbye Bread” di Ty Segall. È stata come un’illuminazione, una sorta di luce in fondo al tunnel. Non è il mio disco preferito del giovane californiano, però da qualche parte dovevo pur cominciare.

L’ambiente di Segall è quello underground pesante, uno dei tanti sconosciuti che infestano le radio streaming e i locali più infami con i loro brufoli e la loro scocciante gioventù. Paffuto e biondo, Segall a prima vista potrebbe anche apparire come un bravo ragazzino arrivato tardi al concerto dei Nirvana, ed invece è proprio un pazzo, anzi: è incazzato.

Molti amanti dell’indie sono rimasti sconvolti dall’implume Segall, riconoscendo sulle prime qualche accordo depresso-introspettivo si sono avvicinati, per poi ritrovarsi sommersi da pura rabbia rock. Ehi, niente contro l’indie, mi piacciono pure gli Underground Youth, però il garage è unico, anche per i personaggi tipo Segall.

Va bene, si ispira a gente come Iggy, come ai Black Sabbath e ai Black Flag, come pure alla psichedelia di Syd Barrett e dei White Witch e via dicendo, ma chi con un po’ di cervello non lo fa? Probabilmente lo fa anche Jeffrey Novak, non tanto bene però, ma Segall sembra attingere proprio dalla forza originaria che smuoveva tutti quei maledetti geni.

Sì, ok, forse, e dico forse, “Goodbye Bread” è il suo disco più moscio a tratti, però è quello che mi è capitato sotto mano adesso. È uscito nel 2011 sotto la grandissima Drag City, un’etichetta con le palle. Il sound appare più canzonato e “limitato” almeno in confronto ai lavori precedenti, un po’ come se durante le registrazioni qualcuno tenesse per le palle in prode Ty, ma in realtà non ci trovo niente di sconvolgente, anzi, anzi

Ty arriva a questo album dopo una serie infinita e incatalogabile di collaborazioni, di tutti i tipi e con con tutti i tipi più strani della scena californiana. La sua prima esperienza di rilievo è certamente con i The Traditional Fools (2008), un paio di 45 giri ed un album con i coglioni, ma un po’ dispersivo. Poi sembrava dovesse fare quasi il serio con Mikal Cronin, ed invece “Reverse Shark Attack” risulta essere uno degli album più fancazzisti e divertenti del 2009.

Inizia a collaborare con i Sic Alps nei ’10, si fa una bella cultura anche psichedelica, e si prepara mentalmente alla collaborazione con White Fence. Chi vi dice che “Hair” (2012) il disco di Segall con Fence sia roba da checche ci capisce sinceramente poco o pochissimo. Segall, come ben dimostra la sua discografia, non è solo Stooges, non è solo garage (e già sarebbe comunque tanto), ma principalmente è divertimento. Tira fuori due o tre dischi all’anno, che cazzo credete gliene freghi di come viene incasellato, o se delude i fan del “feedback a tutti i costi”? “Hair” vede collaborare due grandi e giovanissimi rocker, ma se Segall è il lato oscuro del rock, quello viscerale, quello puro, invece White Fence fa parte di quel rock psichedelico angosciante, ironico e disturbante. La loro passione per i sixties e i seventies si fa sentire tutta in “Hair“, con colpi di genio assoluti come in Time e Easy Rider, oppure in totali momenti di noia, eppure anche la merda di Fence e Segall è preferibile a una qualunque band della Jagjaguwar (a parte i primissimi Black Mountain).

Praticamente sto spendendo più parole per i dischi peggiori che per i migliori. Ma in realtà va bene, è quello che volevo sotto sotto.

Il crescente successo che investe Segall lo porta nel 2011 a fare una bella raccolta di singoli dal 2007 al 2011 ovviamente, un modo per farsi conoscere anche da noi europei, che in California a cercare i suoi dischi proprio questo weekend non possiamo andarci. E nemmeno nel prossimo.

Quello che ne viene fuori da quella stranissima valanga di singoli sono perle di saggezza che rischiavano di essere perse per strada. Roba garage-punk come Bullet Proof Nothing, rigurgiti barrettiani come in Fuzz Cat, rumorosissime hit come Ms. White. Sembra che Segall, un fottuto ragazzino (ma non lo erano forse anche i Sonics, i Count Five e gli Stooges?) per giunta californiano, abbia riscoperto il garage, e ce lo stia insegnando di nuovo.

Goodbye Bread

Dopo “Lemons” (2009) e “Melted” (2010), due dischi a tratti notevoli ma anche presuntuosi, esce il nostro “Goodbye Bread“. Obbligatoriamente, come ogni buon disco garage, va ascoltato ad un volume ESAGERATO, meglio senza cuffie.

L’album si apre con la title track e se vi sembra un pezzo “serio” provate ad ascoltarlo così.

Si passa alla sopracitata California Commercial, garage puro e semplice.

Seguono a fuoco Comfrontable Home, You Make The Sun Fry e I Can’t Feel It. C’è rumore, ma ci sono già tante idee che verranno sviluppate con Fence in “Hair“. Ascoltandole non si capisce proprio come Segall abbia tirato fuori due dischi al sangue come “Slaughterhouse” e “Twins” (entrambi dell’anno scorso), ed è infatti impossibile se non si conosce la discografia del ragazzo.

My Head Explodes mi fa bene al cervello, sento confluire più ossigeno quando la ascolto. Si comincia con un misto di indie e grunge, per poi scoppiarti in faccia a piena potenza: rumori assordanti e distorti, e c’è pure la chitarra spaziale alla Hawkwind!

Si spazia un po’ con The Floor, eclettica e modesta, moscia invece Where Your Head Goes, c’è un po’ di Barrett anche in I Am With You, per il finale c’è Fine, che non sa di un cazzo, probabilmente a Segall stava alquanto fatica scrivere ancora qualcosa di decente (tra ottomila collaborazioni e al ritmo di due dischi all’anno mi stupisco che non ci sia molta più merda).

In conclusione si può può benissimo dire che “Goodbye Bread non è un disco particolarmente rilevante nella discografia di Segall, ma da qualche parte bisogna pur cominciare no? Inoltre sono dell’avviso che anche quando caga Segall fa della musica molto più sincera e vera della maggior parte delle band che dicono di fare rock.

Segall non fa arte, non fa roba intelligente, non sta riscrivendo i capisaldi della musica, fa rock, fa garage. E lo fa bene, dannazione.

  • Pro: alcune idee sono stupefacenti nella loro semplicità, come in California Commercial, o come nel gustosissimo climax di My Head Explodes.
  • Contro: questo dipende voi: Segall cazzeggia per tutto il tempo, sbavature e ingenuità costellano tutto il disco dalla prima all’ultima traccia, se la cosa vi piace non è un difetto, se invece vi dà fastidio state lontani mille miglia da questo disco e in generale da Ty Segall.
  • Pezzo Consigliato: ho un fottuto debole per Goodbye Bread. Che ci posso fare?
  • Voto: 7/10