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The Doors – The Doors

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I Doors sono stati forse la band più rappresentativa degli umori hippie, riuscendo a catalizzarli in una musica trascendentale e al tempo stesso teatrale, sciamanica, febbrile, che sì apre le porte della percezione, ma al tempo stesso è soggettiva in modo angosciante, i testi dei Doors sono una lunga delirante poesia, un De Profundis che Jim Morrison cantò per se stesso, un poema morboso e straziante fino all’irreversibile fine.

Non è di certo un caso che Morrison volesse fare il regista cinematografico, le visioni descritte dal cantante-sciamano sono chiare, nitide, anche se senza una soluzione di continuità. Si dice che Morrison fosse alimentato dall’odio verso i suoi genitori e da una strana visione che lo perseguitava, quella di un gruppo di indiani sanguinanti che narra aver visto da piccolo durante un viaggio, canta in Peace Frog dell’energia sciamanica che dai loro immobili corpi lo penetrava nel profondo, le porte della percezione erano state aperte, tutto entrava e tutto usciva, in poco tempo Morrison divenne un ubriacone molesto, un poeta affascinante, un timido studente e un’esplosivo casinista, come se tutte quelle anime cercassero di farlo impazzire, ma lui invece di resistere a questa schizofrenia tribale lasciò che questa lo trasportasse e lo guidasse oltre.

Il sui riferimenti sono Huxley e Jean-Luc Godard, dal primo comprende come le droghe, la mescalina in particolare, siano solo uno strumento per trascendere un piano della conoscenza che gli andava stretto, dal secondo imparerà a vedere il mondo per come è, descrivendolo così come gli appare, solo che il mondo che Godard descrive è il nostro, quello di Morrison invece appartiene alla sfera dei poeti e degli sciamani.

Di sicuro si può definire una carriera di successo quella dei Doors, ma se si cerca il capolavoro dobbiamo parlare del primo album, l’esordio omonimo targato Elektra Records. Già in “Strange Days” i Doors perdono qualcosa, sebbene un album con When The Music’s Over sia già di per sé definibile come un capolavoro, con il primo album dei Doors possiamo tranquillamente parlare di opera d’arte.

I Doors erano un’esperienza, un connubio principalmente di blues-rock e jazz senza precedenti, una sezione ritmica che passava dalla musica sudamericana allo psych rock ipnotico senza battere ciglio, Manzarek che con una mano impostava melodie esotiche o addirittura garage mentre con l’altra teneva una imperturbabile linea di basso, e Morrison che richiamava a sé gli spiriti di quegli indiani trapassati, urlando e danzando come in preda ad un trip di peyote.

Questo album ha ridefinito il genere e anche un’intera generazione di hippie, per quanto radicato in quella cultura è riuscito persino a superarla, perché la psichedelia dei Doors non è quella dei 13th Floor Elevators, l’aura misticheggiante non è posticcia come quella di Donovan, mistico e psichedelico s’incontrano in questo fuoco eterno acceso in un accampamento indiano, mentre il Re Lucertola danza nudo illuminato dalla luna, definirlo in un genere è francamente inverosimile.

Quando Manzarek fa ballare il suo Fender Rhodes nell’intro di Light My Fire tutto ti puoi aspettare tranne che un inno sessuale così intenso, così penetrante, così catartico. La prima parte è tutta di Krieger, un’intuizione geniale che grazie alle urla di piacere alla tastiera di Manzarek diventa arte, Densmore e Knechtel mantengono una sezione ritmica ipnotica per tutti i 7 intensi minuti, variando dallo psych rock al jazz, Morrison trasforma il testo di Krieger in un inno al suo fallo mentre nel finale sembra scoparsi con la voce il microfono.

Break on Through (To the Other Side) è uno degli apici del rock, una furia bestiale che propone ai pacifici hippie di spezzare le catene che li tengono imprigionati in questa dimensione con un ballo sciamanico attorno al fuoco di Morrison. Frastornante, immenso.

E poi quelle gentili discese nella nebbia dei sensi, The Crystal Ship e End of the Night, la chitarra di Krieger raggiunge un minimalismo siderale, la voce baritonale di Morrison più che accompagnarci ci avvolge, le parole propongono immagini spezzate, specchi rotti dove si riflettono tutte le nostre versioni alternative.

E quelle pillole di puro rock, un’evoluzione più viscerale e psichedelica dei Kingsmen, I Looked At You, Twentieth Century Fox, mentre il blues come moneta da giocarsi all’inferno come conferma Soul Kitchen. Perché ovviamente c’è anche il demonio, figura benevola e crudele, messaggero dell’aldilà inteso non come inferno, ma come quarta dimensione. La poesia di Morrison si inebria di figure e iconografie che riscrive su se stesso, compiendo un prodigio letterario di rara efficacia.

E poi The End… Più di We Will Fall degli Stooges, senza il bisogno della funerea viola di Cale, con il pizzicare i piatti di Desmond e i giri misticheggianti di Manzarek, con quella nenia funebre di Krieger ma sopratutto con le visioni apocalittiche di Morrison, l’ineluttabile che sconvolge ogni suo pensiero, quell’ulteriore, quell’altrove che Morrison sa come raggiungere, con la droga, col sesso, con la violenza. Le immagini sono di nuovo frammentate, inutile cercargli un senso, il senso è farsi trascinare come un corpo morto verso il baratro, alla fine di esso c’è una porta e una volta aperta tutto prende forma, tutto ha un motivo, anche se purtroppo solo per 11 minuti e mezzo…

Kurt Cobain, The Man Who Sold Himself

Articolo di : bfmealli

1992 MTV Video Music Awards

La morte di Kurt Cobain resta, tutt’ora, avvolta nel mistero: omicidio o suicidio? L’hanno ucciso o si è tolto la vita da solo? Dato che per indole non sono un complottista io protendo per la seconda ipotesi. Questa scheda, infatti, ha il timido ardire di spiegare i prodromi dei motivi del gesto estremo del musicista di Aberdeen.

Non credo che ci sia bisogno di dover spiegare, a coloro che si sono presi la pensa di leggere, chi sia stato Kurt Cobain; i Nirvana sono state una delle poche band sulle quali l’onta del tempo sembra non averne attaccato lo spirito. Ancora oggi, non a caso, a più di venticinque anni di distanza dal loro primo album, i ragazzi si avvicinano a questa band con reverenziale curiosità grazie anche ad una produzione fresca, a delle melodie distorte ma efficaci ma, soprattutto, per via della messa in scena di un criptico disagio esistenziale che ancora riesce a penetrare nei cuori dei molti spiriti adolescenziali che li ascoltano per la prima volta.

Sono piuttosto certo che Kurt Cobain non avesse previsto il successo planetario che sconvolse il mondo e la sua labile personalità. Non a caso il giovane chitarrista, dopo il boom di Nevermind, decise di pubblicare prima una raccolta di B-Sides e, dopo, il loro terzo ed ultimo album di studio con la produzione di Steve Albini, guru della scena Indie-Rock anni ’80 americana, come se Cobain, tramite il nuovo produttore, cercasse di rifarsi una verginità musicale nei confronti del suo pubblico e, ancor di più, verso sé stesso. Il successo insomma non gli diede alla testa quanto lo spaventò e lo rese più preoccupato del solito: che la sua si fosse trasformata in una di quelle band che riempiono gli stadi e sono circondati da uomini della security in ogni angolo del palco? Che si fosse trasformato, lui stesso, in una macchina da soldi per quei ricchi discografici che hanno rovinato il rock? Che, tirando le somme, si fosse venduto?

Tutte queste domande, questi dubbi, sono certo, Cobain se li pose e, fino ad un certo punto, non riuscì a trovare risposta. Il giorno in cui quella maledetta risposta arrivò fu lo stesso giorno, io credo, in cui prese in lui la forma dell’idea di un suicidio (le mie sono mere illazioni, non hanno la presunzione di essere veritiere). Fu quando la sua band, fresca del successo di Nevermind, si trovò di fronte il pubblico degli MTV Video Music Awards del 1992, lo stesso pubblico che Kurt biasimava e, in un certo qual modo, disprezzava; sue le parole: “La mia musica non appartiene a quei giovani che pascolano al McDonald’s e stanno piantati davanti ad MTV tutto il santo giorno”. Ma il monkey business, si sa, è fatto di compromessi, ed i compromessi tendono sempre, inevitabilmente, verso il basso. Questa apparizione gli costava giusto il tempo di una canzone, una qualsiasi del repertorio dei Nirvana basta che, si raccomandarono i capi della rete, non suonassero Rape Me (Stuprami), brano che poi finì in In Utero, ché, con quel titolo, stonava di molto con l’amenità dell’evento.

Kurt Cobain tace ma acconsente di non suonare quel pezzo mentre dentro di sé pensa: “Rape Me sarà la canzone che verrà ascoltata da milioni di vuoti adolescenti, pecore insulse della MTV Generation… gli farò sentire io, a loro, ai capoccia della rete, quello che vuol dire essere una fottuta rock band!” Immagino si sia detto questo mentre lentamente guadagnava il palco per suonare e per suonargliele a tutti. Pensò a Jim Morrison, all’Ed Sullivan Show, durante l’esecuzione di Light My Fire, che urlava reiteratamente la parola High, lemma che il signor Sullivan gli aveva precedentemente intimato di non usare se i Doors avessero voluto tornare, in futuro, a suonare ancora nel suo programma. Ma Morrison, però, figura istintiva e ribelle, preferì fare un torto alla possibilità di una maggiore visibilità che tradire la propria indole censurandosi: urlò con ferocia quella parola al pubblico borghese del Sullivan Show. Questo Kurt aveva in testa mentre calcava il palco, immenso, luminoso ed incandescente, degli MTV Video Music Awards. Il boato del pubblico lo fece sentire piccolo e meschino, imbracciando la sua chitarra vacillò: “I miei musicisti seguiranno qualsiasi riff io inizi a suonare… quindi: cosa faccio?” La parte più materiale di Cobain si manifestò a lui nella sua intera bruttezza; restò un solo spiraglio di quegli ideali che aveva sempre perseguito con la sua attitudine di perdente che, purtroppo, si eclissarono con l’effimero accenno del riff di Rape Me, solo quello, il giro di accordi che introduce la canzone e poi basta, passò a suonare Lithium. Ecco, aveva perso, sconfitto dalla sua stessa vanagloriosa umanità, aveva appena venduto la sua purezza di outsider per entrare nell’ipocrita élite della gente bella, sorridente ed abbronzata di MTV. Adesso Jim Morrison gli sembrava così lontano, anni luce, manco fosse di un altro pianeta. Mentre suonava Lithium, Kurt Cobain, si rese conto che stava diventando gradualmente il tipo di persona che aveva sempre disprezzato, il cancro del successo era andato in metastasi dentro di lui poiché quel gesto eclatante, accennare soltanto il riff della canzone proibita, gli aveva finalmente aperto gli occhi: sì, proprio così, si rese conto di essersi venduto!

Questo era il suo primo passo verso il bolso invecchiamento in mezzo ai milioni di dollari, ai milioni di fans, alle mega ville, lontanissimo dal mondo comune, senza più un’anima, quella, scambiata per una manciata di dischi di platino. Mi piace pensare che Kurt Cobain si sia ucciso perché conscio di non essere capace di riuscire a sconfiggere quella parte di sé avida di applausi e riflettori; mi piace credere che il suo non sia stato un gesto folle e sconsiderato quanto un estrema presa di coscienza nei confronti di quella persona che era sempre stato fino a quando il cancro della celebrità non gli ebbe divorato la sua grande, pura, integrità morale. Se ne andò così, il 5 Aprile del 1994, con una vampata, l’ultimo barlume di lucidità, per non arrugginirsi lentamente tra gli ingranaggi della macchina del successo.

Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui: L’algebra del bisogno.