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Pink Street Boys – Trash from the Boys

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Loudest band in Iceland
(dal profilo Facebook della band)

We are garage rock. We are not trying to be garage rock, but we come to this scene because we are loud and obscene and we are not hardcore.
(Axel Björnsson, membro dei Pink Street Boys)

Ho sempre pensato che un’isola che venne scoperta da un tale Naddoddr non potesse che produrre metal a fiotti (lo stesso “Naddoddr” è un nome praticamente perfetto per qualunque band metal), ed invece nella sperduta Islanda, precisamente nella fredda Reykjavik, è nata la Lady Boy Records, una delle etichette più interessanti e intraprendenti di tutto il panorama europeo.

Con un catalogo ancora limitatissimo, dove si trova tanta avanguardia e curiose creature, c’è pure spazio per una stranissima band garage, forse la più atipica che abbiate mai sentito girare sul vostro piatto, i Pink Street Boys.

Ho smesso da tempo di fare le recensioni pezzo per pezzo, anche perché perlopiù inutili, ma in questo caso vale la pena di spenderci del tempo.

Già dalla prima traccia questo “Trash from the Boys” colpisce per la sua incompatibilità con tutta la scena garage psych contemporanea. Che cacchio sarebbe Up in Air? Sembra un sogno ad occhi aperti di White Fence, finalmente non apatico ma felice di questa vita tra Syd Barrett e album (i suoi) mediocri. Si percepisce dalla spigolosità degli interventi chitarristici la derivazione psichedelica, mentre la melodia sembra rubata ad un film Disney mai uscito perché troppo lisergico per dei bambini.

Il garage vero e proprio arriva subito con il secondo pezzo: Sleazus, con un pizzico di hardcore e la costante sensazione che qualcosa non quadri. È come se una band scesa da Marte si fosse appassionata di Shadows, Thee Oh Sees e Soft Boys, decidendo di tradurli nel loro linguaggio musicale.

La stessa cosa vale per Drullusama, Body Language e Warrior, la band riscrive a suo modo i canoni estetici del 90% delle band garage a giro in questo momento, ribaltando l’esigenza pop della Burger Records attraverso una commistione di sperimentazione e… boh, “spirito islandese”? In fondo Body Language potrebbe essere un pezzo di Ty Segall e Mikal Cronin, ma la volgarità del suono e dell’esecuzione manca effettivamente ai due californiani, più legati alla tradizione e quindi più prevedibili.

Persino Warrior sembra uscita fuori da “Floating Coffin”, l’ultimo album della madonna dei Thee Oh Sees, ma è come lo avrebbero suonato una cover band dei Residents!

Get Away è un altro tributo ai Thee Oh Sees, stavolta più fedele e legato all’acustico “Castlemania”.

In Psilocybe Semilanceata si percepisce il vento freddo fuori dalla sala di registrazione, mentre l’alcol scorre lento nelle vene, e una musica calda e acida inebria i nostri sensi, in una lenta spirale certamente disorientante ma dolcemente piacevole.

Kick the Trash Out è un minuto e mezzo di garage abrasivo, dove l’estetica dei Thee Oh Sees viene piegata a piacere della band.

L’attacco di Kassastarfsmaður probabilmente farebbe piangere d’invidia il buon Dwyer, cazzo è proprio quello che ci aspettavamo da “Drop” dei Thee Oh Sees, un passo avanti verso la psichedelia e un suono più disorientante, meno attenzione al pubblico e più al rumore, al fastidio.

Ecco, i cinque minuti di Korg Madness (il titolo è pienamente rispettato, fidatevi) valgono l’acquisto di questo “Trash from the Boys”. Non c’è un tentativo né di autocompiacimento né di compiacere il pubblico ormai frastornato, i Pink Street Boys si lasciano trascinare dalla marea travolgente del suono, ripetitivo, artificiale, come dei Kraftwerk sotto anfetamine. È circolare come Blow Daddy-o dei Pere Ubu, ma invece che inquietare aliena, ma è un’alienazione dolce, che sa di bourbon e neve.

La chiusura dell’album con Fautar non aggiunge molto al resto e suona come un riempitivo non ben nascosto.

Il quadro che ne esce fuori è piuttosto omogeneo, se non consideriamo l’apertura e la chiusura dell’album. Un garage sicuramente potente e ignorante, come vuole la tradizione, ma con una tocco particolare, unico, a tratti tremendamente glaciale, in altri quasi sperimentale.

Un album veramente curioso, ci ho trovato cose tremendamente banali e alcune stupefacenti, alla fine della giostra ascoltarlo mi diverte, è come un giocattolino rotto a cui ti sei affezionato senza un preciso motivo.

Per lasciarvi anche a voi col sorriso vi consiglio di leggere questa intervista ad uno dei membri della band, per il resto vi lascio con il lettore bandcamp qua sotto con tutto l’album e una stupefacente live con tanti pezzi ancora inediti.

Cherry Glazerr – Haxel Princess

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La band di oggi è una piccola realtà californiana a cui sono molto affezionato, il loro primo album dell’anno scorso non l’ho recensito perché, come al solito, sono dannatamente pigro.

Papa Cremp” e il suo etereo shoegaze è un album legato a sensazioni decisamente dream pop piuttosto che garage, a conti fatti è l’album che “MCII” di Mikal Cronin doveva essere nella mente del musicista californiano.

A meno di un anno di distanza esce questo “Haxel Princess”, una pillola indie rock piacevole e con delle sorprese.

La voce dolcissima e le note eteree della chitarra sono di Clementine Creevy, che qualche anno fa chiusa nella sua cameretta scrisse qualche pezzo da mandare alla Burger Records, la quale riconobbe le potenzialità di Creevy e spinse per la formazione della band che ha firmato “Papa Cremp”, i Cherry Glazerr.

Questo trio (chitarra, basso, batteria) da il suo meglio in pezzi come Grilled Cheese e Haxel Princess, con un alternative rock che suona molto meno nineties dell’ultimo album dei canadesi Pack A.D.. Lo shoegaze è davvero mitigato dalla poca propensione di Creevy di fare più casino del dovuto, mantenendo un equilibrio che non ridonda mai.

Alcuni pezzi sono davvero corti, come la nenia dolce e amara di Glenn The Dawg o nella alternative pop Teenage Girl, e in generale le canzoni non superano quasi mai i tre minuti mantenendo l’album leggero e maledettamente modesto. Ma questa modestia non è da intendersi come incapacità, piuttosto come una presa di posizione in confronto all’eccessivo protagonismo di tante personalità dell’underground californiano ora che riviste e blog si sono accorti di loro. Ovviamente questa non è la Loro presa di posizione, ma è quello che ci leggo io nella mia mente contorta.

Per me i Cherry Glazerr rappresentano quanto c’è di buono nel sottosuolo, meno potenti e immensi di band come Has A Shadow, Nun e Harsh Toke, ma sono tre ragazzi autentici con qualcosa da dire, senza doversi per forza auto-incensare ad ogni intervista.

Bloody Bandaid è un piccola perla che mostra le capacità liriche-emotive di Clementine Creevy.

Così a primo acchito vi confesso che preferivo “Papa Cremp”, ma devo anche premettere che la band è davvero giovane e ha ancora il meglio da dare. Alcuni pezzi che presentano nelle live o in qualche approfondimento radiofonico prospettano sorprese. Aspettiamo e vediamo.

  • Link utili: se volete ascoltare tutto l’album cliccate QUI per la pagina bandcamp, se non resistete al fascino indie di Clementine e volete chiederle di prendere un gelato insieme discutendo di Kundera cliccate QUI per la pagina Facebook della band.

Godetevi questa Had Ten Dollaz, probabilmente uno dei pezzi di punta del prossimo album, è uscito credo in questi giorni il 7 pollici:

Dopo un po’ di shopping musicale a Hollywood nel Amoeba Music, cosa avranno acquistato i Cherry Glazerr?

Ty Segall – Manipulator

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Sul nuovo album di Segall avevo delle aspettative, forse anche troppo alte, non lo so, però non è “Manipulator” l’album che mi aspettavo.

Con “Slaughterhouse” (2012) aveva raggiunto la saturazione senza stonare, il feedback straziante di Death che apre le danze del suo album più rabbioso è il raggiungimento di tutto il suo percorso come garagista, mentre in “Twins” (2012, sei mesi dopo Slaughter.) aveva raggiunto il suo massimo come compositore, raffinando il sound e le melodie, mantenendo fede alla sua rabbia borghese ma cospargendola qua e là di ballad, sperimentazione e melodie pop rock assolutamente non banali. È stato non solo il suo anno di grazia il 2012, ma anche un punto di non ritorno dal quale poteva solo evolversi, altrimenti qualunque altra sua produzione avrebbe suonato come un passo indietro.

Dopo l’esperienza con i Fuzz e l’album acustico-riflessivo esce il suo primo doppio LP, in cui Segall fa i conti con le sue pulsioni glam rese evidenti in “Ty Rex” del 2011. Sembrava solo una fuga momentanea dallo psych garage più spinto quel “Ty Rex” seguito l’anno scorso dal brevissimo “Ty Rex 2”, esperimenti minori nella già vastissima discografia di questo piccolo talento californiano, ed invece sono diventati la base portante di questa ultima fatica.

“Manipulator” è di gran lunga il peggior album di Segall, ideale seguito di “MCII” del suo fido Mikal Cronin, è la fine (im)perfetta per tutta la nuova ondata garage californiana.

Credo di essere il primo a declamare la parola “fine” per quella che è stata una stagione notevole, che ad oggi tutti (tutti) sotto stimano e stanno ben attenti ad elogiare sperticatamente. Tra questi mi ci metto anche io, che anche per i migliori album dei Thee Oh Sees ho sempre cercato di andarci coi piedi di piombo, ma forse le vere gemme di questo periodo sono da cercare nel sottosuolo (Harsh Toke, Zig Zags e il psych doom).

Fatto sta che le due punte di diamante hanno appena rilasciato i loro album più retorici e auto-celebrativi, i Thee Oh Sees ci hanno fatto rivoltare lo stomaco con “Drop” (anche se la colpa è tutta di Dwyer, dato che il resto della band è stato mandato a casa senza troppi complimenti), e adesso Ty Segall tradisce tutta la sua esperienza come rocker autentico cercando di vendersi al miglior offerente. Probabilmente come per Cronin essere un oggetto di culto non basta più.

E così la musica diventa tronfia, il suono avvolgente delle chitarre di “Slaughterhouse” qui serve a coprire la mancanza di idee, quasi un’ora di riff riciclati e banalità in ogni dove.

Se in “Twins” c’era coraggio qui c’è un imbonimento che già alla fine del lato A del primo dei due dischi sbadigli. Non che Tall Man, Skinny Lady o It’s Over siano pezzi da buttar via, a livello di composizione ci troviamo di fronte ad un album notevole (se confrontato ai precedenti) ma senza un cazzo da dire. Fino a The Faker non c’è una melodia che non sia già stata utilizzata da Segall un miliardo di volte, non c’è un cambio che ti faccia saltare dalla sedia, non c’è un acuto in mezzo ad un mare di grigiore glitterato.

A Green Belly se togliete gli inutili abbellimenti della post-produzione, che appiattisce tutto l’album, e lasciate la chitarra acustica solista diventa magicamente un pezzo dei The Beets. Meglio se vi comprate un loro album a questo punto, vi costa meno ed è quantomeno sincero e diretto, Green Belly riesce persino ad essere pretenziosa nella sua dichiarata banalità, non so cosa ci sia di peggio.

Ma è con il secondo disco e il pezzo d’apertura Connection Man che raggiungiamo il fondo. Un riempitivo “glamtizato” davvero imbarazzante. Ascoltare per credere, non so nemmeno come descrivervelo.

The Hand poteva anche essere piacevole fosse durata due minuti meno, Susie Thumb è un misto tra “Ty Rex” e “Reverse Shark Attack” (2009), ma se il garage punk di Reverse era acido questo invece soffre sempre di questa leggerezza glam che rende tutto bello e platinato, le pareti di camera tua si colorano di rosa e verde sparati mentre le paillette scendono dal soffitto, abominevole.

Scoppia la furia primordiale a suon di fuzz e feedback con The Crawler, ma è abbondantemente troppo tardi.

The Feels suona come una canzone scartata per “Goodbye Bread” (2011). Stick Around conclude per sempre questo straziante doppio album (forse il pezzo più ascoltabile di tutto il lotto, finché non si conclude con quegli archi da brivido), che segna la fine di Ty Segall come musicista con qualcosa da dire e da esprimere, e comincia la sua nuova carriera come musicista di talento pronto a riempire stadi e arene con musica vuota per gente vuota.

So che non metto più i voti, ma per questo album non risparmierei di certo un bel 3,5/10.

E ora qualche video per ricordarne i fasti:

Thee Oh Sees – Drop

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Sono ormai settimane che ascolto “Drop” volenteroso di scriverci sù una recensione decente, ma non è facile.

Sicuramente, come i miei lettori affezionati sanno bene, molto è dovuto dalla mia palese incapacità di scrivere recensioni comprensibili. Ma ci amiamo lo stesso. Credo. Comunque non è questo il punto, il punto è che questo “Drop” è davvero un album controverso per la band californiana per eccellenza.

Probabilmente si parla dell’ultimo lavoro in assoluto per i Thee Oh Sees, ed io mi aspettavo i fuochi d’artificio per l’occasione ed invece…

Beh, partiamo da una constatazione troppo poco ribadita, se non proprio volutamente censurata, in molte recensioni: questi non sono i Thee Oh Sees. L’unico nome che accomuna il penultimo album “Floating Coffin” a questo è quello di John Dwyer, il deus ex machina della band, ok, ma dove sono finiti gli altri?

Non è un caso se quindi “Drop” è un miscuglio indefinibile di Thee Oh Sees, Coachwhips e gli esperimenti solisti di Dwyer, con un pizzico di White Fence, ma invece di essere un mix delizioso come vodka e frutti di bosco questo è più come uno di quei frullati di Maurizio Merluzzo.

Senza Lars Finberg alla batteria i ritmi restano blandi, manca la voce acida di Brigid Dawson e ovviamente la furia al basso di Petey Dammit a dare corposità ad un suono etereo e francamente soporifero. In compenso c’è un sassofono baritono (Casafis) e un sassofono contralto (Mikal Cronin? Sul serio? Ora può pure rubarmi il nome del blog!) che non sfigurano.

Piuttosto apprezzabile The Penetrating Eye, un pezzo vecchio scuola, mentre già con Encrypted Bounce i nodi vengono al pettine. Non c’è potenza né coinvolgimento, la canzone in sé non è una merda, ma non c’è il mordente di una Sweets Helicopters o di una Maria Stacks.

Savage Victory per esempio rientra nei canoni estetici, ritmici e melodici che contraddistinguono il sound dei Thee Oh Sees, ma è davvero lontano dagli standard con cui la band ci aveva abituato.

Forse l’acuto dell’album arriva alla fine del primo lato con Put Some Reverb On My Brother, un pezzo ispirato dall’enfant prodige TimWhite FencePresley, che mescola bene la psichedelia soft del primo con il sound di Dwyer. Mi piacciono i cambi di velocità e quel ritmo da disco rotto, quantomeno la posso ascoltare senza distrarmi un secondo sì a l’altro no.

Divertente il surf garage di Drop, inutile Camera (Queer Sound), mentre è davvero strana The King’s Nose. Sì, lo so, “strano” è un termine esageratamente tecnico. Intendo dire che è una roba a metà tra l’indie dei Raconteurs (vi prego, prendete questa affermazione con le pinze, non fracassatemi i coglioni) e i Thee Oh Sees ma in generale si può dire che non sa di un cazzo.

Il primo minuto e mezzo di Transparent World conia un nuovo genere, la porn-drone. Lascio a voi le dovute conclusioni.

Si finisce con The Lens, una prova di assoluto spessore per Dwyer per quanto riguarda la costruzione di un pezzo più appetibile per un mercato diverso dai festival psych garage. Si parla del pezzo più “pop” dei Thee Oh Sees, ma è quantomeno un lavoro quadrato, beatlesiano al punto giusto lasciando Syd Barrett come padrino spirituale degli album precedenti, qui dimenticato. 

Il problema principale di questo album dei Thee Oh Sees è, come dicevo, che non è dei dannati Thee Oh Sees. Dwyer poteva benissimo farsi un progetto parallelo, come ne ha già fra l’altro, e pubblicare questo album senza infangare l’ottima discografia della sua band più famosa.

Una delusione su tutti i fronti, un album poco più che mediocre. 

  • Lo Consiglio: se proprio adori John Dwyer ci sono comunque due o tre spunti interessanti.
  • Lo Sconsiglio: a tutti, sopratutto a chi vorrebbe approcciarsi per la prima volta a questa ottima band. Ascoltatevi “Carrion Crawler/The Dream” (2011), “Floating Coffin” (2013) e “Castlemania” (2011) piuttosto.

E ora qualche video:

Due singoli dall’ultimo album.

Qualche live per ricordarne i recenti fasti.

Zig Zags – 10-12

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Non hanno nemmeno pubblicato un solo sudicio album, eppure mi fanno impazzire.

Quando una band unisce garage, punk, psichedelia e metal senza fare un pastrocchio (o della fusion pseudo-intellettuale) per me vuol dire che ha le carte in regola.

Il ritorno progressivo al garage “esoterico” (e passatemela, dai) alla Nuggets partito dalla California non è semplice revival o una moda. Lo sta certamente diventando, basta considerare la sterzata commerciale di Mikal Cronin o la nascita di nuove band copia-incolla come gli Hot Lunch (quelli dalla Pennsylvania non quelli glam metal da San Francisco) ma la furia del rock autentico, fatto di sudore e feedback, resiste strenuamente alla base.

Queste band non sono mosse come nei ‘60s dalla voglia di spiccare il volo seguendo il nuovo sogno Beatles (sarà stato almeno il 96% delle band), o magari proprio contro la distopia Beatles (vedi i Monks), perché oggi non c’è un modello o un nemico, oggi si combatte contro il nulla.

Sono un trio gli Zig Zags, voci acide, chitarre distorte che spaziano dall’hardcore punk fino agli Spacemen 3, batteria spesso martellante, ipnotica. Cosa c’entrano con questa guerra al grande nulla di mia totale invenzione?

Quando la politica repressiva di Reagan negli USA si fece pesante l’hardcore sembrava l’unica risposta possibile (anche contro la plastica zuccherosa che radio e televisione di stato promulgavano), ma in quel caso c’era un nemico da combattere e non c’era nemmeno troppo tempo per pensarci sù. Si imbraccia una chitarra e si registra con gli amici in garage o nella palestra della scuola, era vero rock perché spesso ignorava le regole base per suonare decentemente, facevano le cose così come venivano, lasciandosi trascinare dalla rabbia che a quel punto divenne forma. Per questo molti album del periodo sono straordinari, perché trascendono la fruibilità per accettare la sostanza, non c’era una ricerca estetica a priori nel tentare di riprodurre la sensazione di repressione, ma era questa stessa a visitare le band e a farsi strada nelle pessime registrazioni di buona parte della produzione hardcore.

Il garage contemporaneo, quello senza un nemico ben preciso, trova la sua dimensione ideale nell’interiorità. Non denuncia, semmai ammalia con brusche virate drone e un abuso di ritmi martellanti, costruendo un muro di rumori lancinanti quanto rassicuranti.

Ty Segall è un po’ il ragazzo di città che ha voglia di sfogarsi, mette sul piatto buona musica ma senza chissà quale profondità, i Thee Oh Sees sono la band che hanno sondato meglio finora le possibilità di questo nuovo garage sprofondando nella psichedelia, gli Zig Zags, a mio modesto (modestissimo) avviso saranno quelli che lo eleveranno definitivamente.

Unione ideale tra le jam catastrofiche e anarchiche degli Harh Toke, meno puerili dei Criminal Hygiene, restando nella classica forma-canzone gli Zig Zags combattono questo vuoto che ci circonda senza lasciare un attimo di respiro all’ascoltatore, e lo fanno con una propria personalità.

10-12” è una raccolta uscita in un numero limitato di musicassette e in formato digitale su Bandcamp, sono spizzichi e bocconi di una band in fase di crescita, dove non mancano le banalità come i colpi di genio.

C’è ovviamente una buona parte di garage punk senza pretese (se non quella della fruibilità), parliamo di Randy, Tuff Guys Hands, Turbo Hit (gran bel singolo, fra l’altro), Down The Drain, Eyes, I Am The Weekend, No Blade of Grass, che poi altro non sono se non la base che sorregge la struttura sulla quale  gli Zig Zags svilupperanno il loro sound dal 2012 ad oggi.

Ma il ritmo, la distorsione, quell’helter skelter autistico che inconsapevolmente è la risposta alla desolazione quotidiana (vuota ormai di qualsivoglia senso e futuro) si trovano in Human Mind, Love Alright, Scavenger e Monster Wizard. E aggiungiamo a questo elenco anche la recente Voices of the Paranoid, una versione disillusa e acida dei Thee Oh Sees.

Probabilmente sono in errore nel contestualizzare una musicassetta composta perlopiù di banale garage punk in un discorso così ampio e difficile da decifrare quali sono i nostri tempi, la contemporaneità. O forse no. Fatto sta che qui non si sente la mancanza del Vero Genio come negli album di Ty Segall (sempre in equilibrio tra convenzionalità e grande rock), o quella di una opera davvero compiuta nei Thee Oh Sees (anche se con “Carrion Crawler/The Dream” ci sono andati vicino), la strada che hanno imboccato gli Zig Zags sembra una di quelle che lasciando il segno, se non nella musica quantomeno in chi la ascolta.

  • Lo Consiglio: a chi sta amando questa California e i suoi protagonisti, ma anche a chi cerca del punk decente o della psichedelia d’annata senza per forza cadere nel revival.
  • Lo Sconsiglio: a chi crede siano una band per intellettuali (anche se dalla mia recensione sembrano potenzialmente la band preferita da Heidegger), a chi cerca nel punk qualcosa di più Clash piuttosto che della fottuta psichedelia.
  • Link Utili: per la pagina Bandcamp clicca QUI, per l’altra recensione che ho scritto sulla band invece QUI.

[I lettori attenti si saranno accorti che è sono scomparsi i voti e i vari Pro e Contro che mettevo alla fine di ogni recensione. Ho deciso che era meglio così.]

Hot Lunch – Hot Lunch

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Personalmente sono piuttosto infastidito dalla ricerca convulsiva del low-fi a tutti i costi. Avete presente, no? Migliaia di band che cercano di ricreare un’aura di mistica autenticità nei loro album, sperando che qualche feedback qua e là registrato alla cazzo di cane li renda in qualche modo rilevanti, o quantomeno più autentici della sbobba che passa MTV.

Beh, sull’autenticità di questi Hot Lunch non c’è niente da recriminare, garage e punk diretti allo stomaco sono le fondamenta incorruttibili della buona musica – non che il resto faccia cagare, insomma anche Steve Reich me la alza un casino, ma preferisco decisamente vedere delle chitarre spezzarsi dopo due minuti di spettacolo, piuttosto che sorbirmi due ore di disquisizioni pseudo-intellettuali alla fine di un concerto cervellotico seduto scomodamente in platea.

Quindi sì, ok, è merda autentica, ma c’è anche dell’arte? Insomma, dov’è la Grande Musica Rock dietro tutto questo, dov’è quella realtà fottutamente banale e spesso degradante riscoperta da una nuova prospettiva (avete presente Pere Ubu, Richard Hell, Velvet Underground, Nick Cave, ma anche Mule, Cracker, Soft Boys giusto per non citare sempre i soliti)?

Eccomi qui oggi a presentarvi l’ennesimo album autentico senza un cazzo da dire. Ehi, senza rancore però.

Dato che il low-fi ormai non tira più tanta patata come qualche mesetto fa, gli Hot Lunch si buttano sullo shit-fi (c’è scritto nelle tag della loro pagina su Bandcamp, che dire?). Come suona lo shit-fi? Mah, direi peggio di “Horn the Unicorn” di Ty Segall ma meglio di qualsiasi album di Daniel Johnston.

Chiaramente gli Hot Lunch non hanno pretese (il che va sempre bene, anzi rilancio: non c’è band che abbia enormi pretese artistiche che non faccia assolutamente, obiettivamente e insindacabilmente cagare), bei riff sparati al giusto volume, tutto materiale in linea con la ottima produzione californiana contemporanea, peccato che manchi il genio. O non si è ancora manifestato.

I ragazzi vengono dal florido stato della Pennsylvania, stato che ci ha donato gli osceni Utopia (la feccia del rock per eccellenza) e Will Smith, e ora questa band divertente ma fotocopia di altre diecimila.

La cover di Lovely One, del buon Ty Segall (bel pezzo fra l’altro, uscito nel 2009 nel sottovalutato “Lemons”, anche se preferisco decisamente la versione più grezza contenuta nella raccolta “Singles 2007-2010”), dice già molto sulle radici degli Hot Lunch e sull’importanza sempre maggiore della scena californiana, ma cosa aggiungono di loro?

Qualche traccia più che ascoltabile come Do You Want to Give $$, Ass, Brainfry, ma in sostanza nulla che non si sia già sentito un miliardo di volte. Proprio come Jeffrey Novak e Mikal Cronin anche gli Hot Lunch hanno capito che non c’è necessariamente bisogno di andare verso una direzione più “alta”, quella seguita assiduamente dai Thee Oh Sees di John Dwyer dal 2007 tanto per capirci, ma anche assecondare il mercato pseudo-underground può essere un’idea non troppo disdicevole (e nel caso specifico di Cronin cercando di sbarcare il lunario prostituendosi con il pop-rock vergognoso dell’ultimo album), in soldoni: perché non divertirci e nel caso tirarci sù un po’ di grano?

Niente di immorale o schifoso, sia chiaro, sono assolutamente certo che i più grandi album album punk e rock nascono dalla pazzia, dalla lussuria e in generale da una buona commistione di ignoranza, droghe e ambizione.

Alla fin fine tra Novak e Cronin vi assicuro che l’album d’esordio di questi Hot Lunch è qualcosa di ben più valido, un acquisto che comunque vi intratterrà qualche ora se amate il genere.

Ah, non confondete questa band con l’omonima formazione da San Francisco, astro nascente della label Who can you trust?, la quale annovera anche gli ultimi lavori dei magnifici Zig Zags e degli italianissimi In Zaire. Questi Hot Lunch sono molto più hard e glam rock, ma finora altrettanto banali.

  • Pro: l’album fila liscio senza annoiare eccessivamente.
  • Contro: dopo la seconda volta lo saprete a memoria, e non lo ascolterete mai più.
  • Pezzo consigliato: Brainfry.
  • Voto: 6/10 (il voto è influenzato non poco dal fatto che il download dell’intero album è gratuito dalla loro pagina Bandcamp)
  • Link utili: QUI l’album su Bandcamp, QUI gli “altri” Hot Lunch in una compilation con altre band della Who can you trust?.

E infine il classicone di Reich, che ci sta sempre:

Arctic Monkeys – AM

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Trovo che tutta l’attesa che ha preceduto questo album sia sintomatica di come il mainstream stia cercando (inutilmente) di uccidere il rock, e penso che sia anche rivelatore di tutti questi finti rocker o critici di rock i quali a casa ascoltano Oasis, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Strokes, Foo Fighters e compagnia cantante, però commentano e criticano album dei Faust, dei Pere Ubu o chennesò dei Thee Oh Sees*.

Grazie ad internet tutto va più veloce, in particolare la comunicazione. Il rock definito giustamente e onorevolmente “underground” ha trovato la sua rivalsa a 196 kbps. I vari Captain Beefheart, Can, Amon Düül II, si sono rinsaviti come mai nella loro vita discografica e hanno cominciato a girare in quelle bancherelle (o librerie di iTunes) dove prima si spacciavano solo Muse, Kaiser Chiefs e Queen of the Stone Age.

E quindi, dai primi eroi dell’underground a 196 kbps, molti hanno potuto percorrere una strada che continua tutt’ora: quella del rock autentico, quella di quel genere così particolare da ispirare i sentimenti più bassi fino alle riflessioni più alte.

Cos’abbia dunque a che fare il rock col brit-pop o con l’indie da classifica proprio non l’ho afferro. È un mio limite, lo ammetto.

Gli Arctic Monkeys non provocano, non feriscono, il loro linguaggio da bulletto di strada inglese fa però breccia in una intera generazione (come ci dimostrano gli straordinari dati di vendita) ma nel momento stesso in cui si rivelano in tutta la loro bellezza, evaporano. Gli album di questa band sono come i nastri di 007, dopo che li hai ascoltati si auto-distruggono.

Dall’indie che strizza l’occhio al fenomeno brit-pop ai ritmi da rock discotecaro di questo ultimo album, i Monkeys si sono affermati come La band inglese per eccellenza, le loro songs sono una sfilza allucinante di hit per caratteri sensibili e indie e critici con vergognose pulsioni verso “The Next Day” di David Bowie.

Di colpo gli album usciti quest’anno di Thee Oh Sees, Has A Shadow, Fuzz, Harsh Toke,  scompaiono e le bocche si riempiono di lodi sdolcinate verso “RAM” dei Daft Punk (un dannato disco funk, oltretutto innocuo e spudoratamente commerciale, alla faccia dei Monophonics) , verso “Right Thoughts, Right Words, Right Action” dei Franz Ferdinand, e ora su quest’ultimo gingillo pop degli Arctic Monkeys.

Spero non mi fraintendiate, la musica della band di Alex Turner merita il plauso della critica. Un gioiello perfetto che ritrae con i suoi accordi spensierati tutto il nulla che ci circonda, il solito album autistico di chi guarda il mondo dall’alto del suo piedistallo. A livello filmografico lo si potrebbe tranquillamente accostare ad un blockbuster di enorme successo, ma senza la ricercatezza o la profondità di chi con il blockbuster, o col mainstream come usa adesso dire, cerca di veicolare messaggi un po’ più profondi (le differenze tra Transformer e Pacific Rim vi dicono niente?).

Perché fare una bella revisione dei dischi meno conosciuti dell’hardcore anti-reganiano quando puoi fare l’ennesima lista degli album che preferisci di David Bowie? Perchè non proporre numeri speciali di riviste sugli Amon Düül II o su Arthur Brown quando puoi fare l’ulteriore review da ottomila pagine sui Led Zeppelin o addirittura lo specialone sui Green Day? 

La verità è che sia anche a 33 o 45 giri, o a 196 kbps piuttosto che a 320, il rock autentico rimane una passione per pochi sfigatissimi, che non voglio chiamare “eletti”, perché per essere uno sfigato che adora Moonlight On Vermont e la favorisce a qualsiasi canzone dei Toto, o che preferisce “MMM” a qualunque album degli Strokes, o che venera i Sonics a discapito dei Franz Ferdinand di ‘sta ceppa non c’è bisogno di una spada regale poggiata sulla spalla, ma solo di una birra economica in mano e un film di Kevin Smith in VHS.

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Prodotto dalla Domino e col titolo di “AM”, voluta ma quanto mai disgraziata citazione ai cari Velvet Underground del finito Lou Reed, l’album si apre con la super-hit Do I Wanna Know?. Già da questa piccola perla indie-pop possiamo riflettere sui generi che sono stati accostati a questo album, ben riassunti dalla sintetica scheda della sempre inutile Wikipedia: indie rock, rock psichedelico (!), garage rock (!!), post-punk revival (!!!). Ci mancava il folk-metal ed eravamo a posto.

Una cosa alla volta. Do I Wanna Know? sono le riflessioni di un invertebrato verso una bonazza qualsiasi, il che, sia chiaro, potrebbe anche andarci bene, se non fosse la conclamata mancanza di palle nel genere indie che ci fanno rimpiangere i tragici testi dei Deep Purple o dei Led Zeppelin, che tra il nonsense e i riferimenti a Tolkien erano comunque un po’ più dignitosi. La musica è il solito brit-pop-indie che già i Monkeys hanno sperimentato nei primi album, con un tono più “elettronico”.

R U Mine? potrebbe essere una demo perduta di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, il primo e più riuscito album dei Arctic Monkeys. L’unico problema sono questi coretti davvero troppo brit-pop per essere sparati a cassa piena. La sensazione è che dal primo album ad oggi i Monkeys siano sempre più attratti dalle classifiche piuttosto che dalla musica.

One For The Road è una hit pop che gioverebbe di una bella cover degli Scissor Sister.

La “rockeggiante” Arabella dovrebbe essere la prima e “pesante” nota rock dell’album, ma qui mi sono messo le mani nei capelli. Intendiamoci, questo album l’ho comprato perché ne parlano come il nuovo Salvatore, e il primo mi piacque a sedici anni (anche se ora fatico ad ascoltarlo), ma qui siamo su un piano davvero diverso. Tralasciando i testi, perché nel rock sono importanti in modo piuttosto relativo, io sono rimasto sconvolto da chi mi definisce tutto ciò “rockeggiante”! Sembra la parodia di un pezzo rock, non rivoluziona i paradigmi del genere, né li rispetta a pieno perché altrimenti i Dirty Streets quest’anno avrebbero sfornato un album capolavoro mentre è semplicemente un album hard-rock che sfiora la sufficienza.

Passiamo a I Want It All, e qui mi faccio delle domande. Se “AM” è il disco dell’anno cos’era “Carrion Crawler/The Dream (2011) dei Thee Oh Sees? Porto spesso questa band ad esempio perché non sono dei fenomeni, ma fanno del rock con le palle, e neanche tanto scontato, ma qui stiamo parlando di canzoncine da classifica. Ma solo l’unico che se ne accorge?
Arriviamo ad un pezzo sulla bocca di tutti ‘sti “critici”: No. 1 Party Anthem mi fa riflettere ancora più del precedente. Mentre ascoltavo questa bestemmia mi viene in mente che una roba del genere, però decente, l’avevo già sentita. Queste sonorità molto più mature, molto più quadrate e sviluppate e con un romanticismo nei testi ben più aulico lo troviamo in un recente album rock ITALIANO, ovvero “Midnight Talks” (2010) degli A Toys Orchestra! L’album sforna un indie molto vicino a quello di “AM”, ma molto meno imbarazzante.
Inutile Mad Sounds, con quei “ullallallà” che mi fanno venire l’orticaria più o meno come come i “powpowpow” di Satellite Of Love. Altrettanto prevedibile e pop Fireside, finora questo album non ci pone di fronte né un sound nuovo, né delle idee nuove, né qualcosa che possa essere categorizzato nel rock, al massimo lo inquadrerei bene in quelle classifiche che vedono Strokes, Justine Timberlake, Rihanna e versioni riviste degli Oasis spadroneggiare senza concorrenza.

Why’d You Only Call Me You’re High non scappa alle precedenti critiche. Mi diverte il fatto che You’re High si possa tradurre in un gergo della mia zona: perché mi chiami solo quando ce l’hai alta? che a Firenze vorrebbe dire l’esatto contrario del senso inteso da Turner.

In questo sconcertante contesto Snap Out of It è solo ridicola. Cosa rappresenta della contemporaneità in modo così efficace questo album? 
If that watch don’t continue to swing
Or the fat lady fancies having a sing
I’ll been here
Waiting ever so patiently for you to
Snap Out Of It

Adesso le lyrics di Black Dog mi sembrano scritte da Bob Dylan.

A ritmo di marcia con Knee Socks, si rallenta con la conclusiva I Wanna Be Yours. Un organo elegiaco, la voce da piacione alle esibizioni on stage di MTV o dell’Hard Rock Café e finisce qui.

Il pregio maggiore di questo album è la sua compattezza, se un album comunque più rilevante come “MCII”, uscito sempre quest’anno del californiano Mikal Cronin, suona più o meno come un infinito copia-incolla di due idee, “AM” invece propone nel suo ambiente sonoro lineare tante sfaccettature di un sound molto meno genuino dei primi album, ma più maturo e studiato.

Vorrei riprendere il discorso lasciato in sospeso qualche paragrafo fa e soffermarmi per valutare i generi proposti da Wikipedia per definire “AM”, (per alcuni Wikipedia dovrebbe essere l’enciclopedia definitiva, spero che Jena Plissken ci salvi tutti facendoci saltare in aria prima che ciò diventi ufficiale):

  1. indie rock: sacrosanto.
  2. rock psichedelico: mah. I Black Angels fanno rock psichedelico, La Piramide di Sangue pure, ma come si fa ad inserire questo album nel filone psichedelico? Davvero: non capisco.
  3. garage rock: Ty Segall, Thee Oh Sees, Crystal Stilts, anche il rock sporco e noise dei Action Beat è garage sotto molti punti di vista, ma “AM” manco per un sordo.
  4. post-punk revival: un momento! Cosa intendiamo per post-punk? Pere Ubu? Pop Group? Suicide? Va bene che è un genere vasto e che comprende molte cose (come tutti i generi rock, alla fine sono soltanto classificazioni a posteriori che si affibbiano un po’ a casaccio) ma cazzo, tra “Dub Housing” e “AM” c’è un abisso più profondo dello sconcerto e dell’orrore che ho provato ascoltando “Glitter”!

Concludo affermando senza ombra di dubbio che gli Arctic Monkeys sono la band pop più valida d’Europa, con un background culturale invidiabile e una testa a capo che sforna hit che valgono milioni. Ma non sono una band rock.

  • Pro: in assoluto il miglior brit-pop, gli fanno le seghe Kaiser Chiefs, Franz Ferdinand, Killers e gli altri compagni di picnic.
  • Contro: se vi piace il rock inteso come musica autentica, e vi masturbate non su You Porn ma con le pagine di Creem dei primi ’70 allora potrebbe procuravi un infarto, o peggio le infamate degli amici (come nel mio caso).
  • Pezzo consigliato: R U Mine? credo sia il meno peggio, Arabella invece è un gioiello trash da serata goliardica.
  • Voto: 3,5/10 (vi consiglio di leggere la guida ai voti e solo dopo insultarmi)

*non voglio insinuare che se ti piacciono gli Strokes allora non puoi recensire “Orgasm” dei Cromagon, dico solo che probabilmente sei un pazzo bipolare. Tutto qua.

Mikal Cronin – MCII

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Cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?

Probabilmente non tutti conoscono ancora Mikal Cronin, un bravo ragazzo californiano dal sound grezzo e violento che con dischi come il precedente (omonimo del 2011) e il bellissimo “Reverse Shark Attack” con Ty Segall si è imposto, almeno per la critica musicale, come tra i giovani più interessanti di una California rivitalizzata nella psichedelia e nel garage.

Quindi riponiamoci la domanda: cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?

Semplice: due palle come mongolfiere, casino, garage e divertimento a sfinire.

Ma nella vita non tutto è come vorremo che fosse.
Comprato all’uscita nella speranza che il buon Cronin mi rompesse definitivamente le casse, sembra che il mio più recente acquisto invece mi stia rompendo assai i coglioni.

La virata di Cronin è quella per un rock più “arioso” nei riff, che ammicca in modo svergognato ad un garage imbonito da spiaggia californiana più che da festival della birra con i Thee Oh Sees in scaletta.

Le prime tre tracce scorrono, non c’è che dire, in confronto a qualsiasi altro lavoro di Cronin c’è una certa armonia, il suono varia dal pulito allo sporco senza intoppi, mix e produzione con i fiocchi. Dei tre pezzi che ci introducono al secondo album di Cronin segnalo solamente Am I Wrong, leggermente più animata o quantomeno personale, un buon livello di composizione (ma sempre elementare, il che va bene finché cazzeggi, ma non quando fai finta di fare roba “seria”).

Si rialza Cronin con See It My Way, che sembra uscita pari pari da “Hair” di Segall e White Fence, con un pizzico meno di psichedelia. La forma “singolo” però mi disturba. Cronin ha confezionato un perfetto biglietto da visita per radio e TV, non è un caso se quindi la critica lo accoglie come il suo miglior lavoro.

See It My Way non è un brutto pezzo (il testo ha anche un che di garage), ma un po’ come You Make The Sun Fry, singolo da “Goodbye Bread” di Segall, appare studiato a tavolino e manca di autenticità, se capite cosa intendo.

Peace Of Mind nella sua “confezione da spiaggia” non perde una certa piacevolezza, inficiata comunque da un continuo rimando a sonorità troppo commerciali per non essere notate.

Quando le mie speranze ormai sembravano perse in un abisso di chitarre acustiche e giovani californiani palestrati in camicia hawaiana arriva Change, che sulle prime mi rinsavisce, e in effetti il riff funziona bene, peccato che il resto subisca un po’ ancora questo forzato imbonimento.

Provo una certa rabbia per questo cambiamento di rotta.
Non sono di certo uno che si affeziona ad un sound, se un artista che mi fa cagare cambia rotta e mi piace è ok, e anche se un rocker incazzoso diventa una checca rifatta a me va bene se la musica comunica comunque qualcosa. La rivoluzione nel sound dei Meat Puppets da “Meat Puppets II” a “Up On The Sun”, sebbene mi abbia scombussolato sulle prime, mi ha regalato uno dei miei dischi preferiti, tutt’ora il mio preferito della band.

Quindi porcamiseriamaledetta non me ne frega nulla se Cronin adesso si sente a contatto con Madre Natura e deve farcelo percepire pure a noi a suon di litanie acustiche, perché se ci metti l’anima, se ci metti il rock, va più che bene. Ma non è proprio il caso di questo album.

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La chitarra è diventata light senza un motivo preciso, perché non c’è nulla nella musica e nella composizione che lo giustifichi, è tutto decisamente piatto, ripetitivo, impersonale e tragicamente scontato. Un bel cambiamento in confronto al primo album: “Mikal Cronin”.

Don’t Let Me Go è un altro pezzo che sembra proprio pensato per essere un bel tormentone per i giovani californiani che viaggiano a tutta birra per strade deserte con la radio a palla, una cosetta che non dispiace a nessuno, che non ferisce ma nemmeno colpisce, superficiale.

Non più cosa aspettarmi mentre il disco volge a Turn Away. Almeno si finge di cambiare ritmo, ma le sonorità restano quelle. Encomiabile lo sforzo di donare all’album un sound ben definito, e vorrei tanto che voi capiste che VA BENE e oltretutto è PIACEVOLE, ma che essenzialmente manca di passione.

Con Piano Mantra entra in gioco pure un piano che spizzica qua e là qualche accordo degno di Allievi, mentre si aggiungono degli archi e il tutto prende il colore di un Leonard Cohen poco ispirato, spezzando inspiegabilmente la trama sonora fin qui portata avanti. I testi che seguono non sono certo di un T.S.Eliot o di un Bukowski, ma questo nel rock va bene, tranne quando la musica e il tono fanno pensare che il musicista abbia qualcosa di profondo e importante da dirci (ed invece ci becchiamo una riflessione alla Baci Perugina). Su queste sonorità (in realtà no, ma vabbè) e con un’idea più genuina di climax consiglio vivamente Panic Attack #3 degli italiani a Toys Orchestra: così si scrive un cazzo di pezzo.

No, vabbè, sono troppo scazzato per questo disco, davvero troppo.

  • Pro: beh, mica fa cagare.
  • Contro: santo cielo se fa cagare…
  • Pezzo consigliato: Apathy. È del disco precedente dite? E secondo voi non lo so?
  • Voto: 4,5/10

Ty Segall – Goodbye Bread

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[Dopo un paio d’anni mi pento di parecchie cose in questa recensione, ma il bello di fare recensioni perché mi va sono anche queste uscite così entusiastiche, esagerate, prorompenti. Da qui ho cominciato ad aprirmi alla scena garage californiana, e adesso nel 2015 posso dire che è stata la protagonista di questo blog per un paio d’anni buoni. Quindi grazie Ty, non so bene di cosa, ma grazie.]

Ty Segall è californiano gente, cresciuto come solo in California crescono i veri uomini, pane, acqua e garage rock.

Quando ascolti Segall non sai bene da dove partire. Delle volte sembra appena uscito da una jam session con Iggy, delle altre invece con i Sonics, non è raro che mi rimembri a tratti anche i Seeds, i Troggs e i Crime.

La musica di Segall non vuole colpirvi il cervello, punta dritto dritto alle budella. I suoni distorti, il feedback, errori palesi e le sbavature, tutto fa parte della potenza espressiva di questo cazzone.

Per me è difficile fare un recensione di “Goodbye Bread“. In realtà la cosa è andata così: mi giravano le palle perché volevo recensire il Richard Hell dei tempi d’oro, però poi ho pensato che faccio troppe recensioni di vecchiardi, in seguito mi è venuto in mente che potrei fare una recensione sui Foxygen (che, per inciso, odio) e mentre mi lambiccavo con questi dilemmi iTunes, che se ne stava lì a buttare in sequenza casuale miliardi di ore di musica, mi spara a tutto volume California Commercial, proprio da “Goodbye Bread” di Ty Segall. È stata come un’illuminazione, una sorta di luce in fondo al tunnel. Non è il mio disco preferito del giovane californiano, però da qualche parte dovevo pur cominciare.

L’ambiente di Segall è quello underground pesante, uno dei tanti sconosciuti che infestano le radio streaming e i locali più infami con i loro brufoli e la loro scocciante gioventù. Paffuto e biondo, Segall a prima vista potrebbe anche apparire come un bravo ragazzino arrivato tardi al concerto dei Nirvana, ed invece è proprio un pazzo, anzi: è incazzato.

Molti amanti dell’indie sono rimasti sconvolti dall’implume Segall, riconoscendo sulle prime qualche accordo depresso-introspettivo si sono avvicinati, per poi ritrovarsi sommersi da pura rabbia rock. Ehi, niente contro l’indie, mi piacciono pure gli Underground Youth, però il garage è unico, anche per i personaggi tipo Segall.

Va bene, si ispira a gente come Iggy, come ai Black Sabbath e ai Black Flag, come pure alla psichedelia di Syd Barrett e dei White Witch e via dicendo, ma chi con un po’ di cervello non lo fa? Probabilmente lo fa anche Jeffrey Novak, non tanto bene però, ma Segall sembra attingere proprio dalla forza originaria che smuoveva tutti quei maledetti geni.

Sì, ok, forse, e dico forse, “Goodbye Bread” è il suo disco più moscio a tratti, però è quello che mi è capitato sotto mano adesso. È uscito nel 2011 sotto la grandissima Drag City, un’etichetta con le palle. Il sound appare più canzonato e “limitato” almeno in confronto ai lavori precedenti, un po’ come se durante le registrazioni qualcuno tenesse per le palle in prode Ty, ma in realtà non ci trovo niente di sconvolgente, anzi, anzi

Ty arriva a questo album dopo una serie infinita e incatalogabile di collaborazioni, di tutti i tipi e con con tutti i tipi più strani della scena californiana. La sua prima esperienza di rilievo è certamente con i The Traditional Fools (2008), un paio di 45 giri ed un album con i coglioni, ma un po’ dispersivo. Poi sembrava dovesse fare quasi il serio con Mikal Cronin, ed invece “Reverse Shark Attack” risulta essere uno degli album più fancazzisti e divertenti del 2009.

Inizia a collaborare con i Sic Alps nei ’10, si fa una bella cultura anche psichedelica, e si prepara mentalmente alla collaborazione con White Fence. Chi vi dice che “Hair” (2012) il disco di Segall con Fence sia roba da checche ci capisce sinceramente poco o pochissimo. Segall, come ben dimostra la sua discografia, non è solo Stooges, non è solo garage (e già sarebbe comunque tanto), ma principalmente è divertimento. Tira fuori due o tre dischi all’anno, che cazzo credete gliene freghi di come viene incasellato, o se delude i fan del “feedback a tutti i costi”? “Hair” vede collaborare due grandi e giovanissimi rocker, ma se Segall è il lato oscuro del rock, quello viscerale, quello puro, invece White Fence fa parte di quel rock psichedelico angosciante, ironico e disturbante. La loro passione per i sixties e i seventies si fa sentire tutta in “Hair“, con colpi di genio assoluti come in Time e Easy Rider, oppure in totali momenti di noia, eppure anche la merda di Fence e Segall è preferibile a una qualunque band della Jagjaguwar (a parte i primissimi Black Mountain).

Praticamente sto spendendo più parole per i dischi peggiori che per i migliori. Ma in realtà va bene, è quello che volevo sotto sotto.

Il crescente successo che investe Segall lo porta nel 2011 a fare una bella raccolta di singoli dal 2007 al 2011 ovviamente, un modo per farsi conoscere anche da noi europei, che in California a cercare i suoi dischi proprio questo weekend non possiamo andarci. E nemmeno nel prossimo.

Quello che ne viene fuori da quella stranissima valanga di singoli sono perle di saggezza che rischiavano di essere perse per strada. Roba garage-punk come Bullet Proof Nothing, rigurgiti barrettiani come in Fuzz Cat, rumorosissime hit come Ms. White. Sembra che Segall, un fottuto ragazzino (ma non lo erano forse anche i Sonics, i Count Five e gli Stooges?) per giunta californiano, abbia riscoperto il garage, e ce lo stia insegnando di nuovo.

Goodbye Bread

Dopo “Lemons” (2009) e “Melted” (2010), due dischi a tratti notevoli ma anche presuntuosi, esce il nostro “Goodbye Bread“. Obbligatoriamente, come ogni buon disco garage, va ascoltato ad un volume ESAGERATO, meglio senza cuffie.

L’album si apre con la title track e se vi sembra un pezzo “serio” provate ad ascoltarlo così.

Si passa alla sopracitata California Commercial, garage puro e semplice.

Seguono a fuoco Comfrontable Home, You Make The Sun Fry e I Can’t Feel It. C’è rumore, ma ci sono già tante idee che verranno sviluppate con Fence in “Hair“. Ascoltandole non si capisce proprio come Segall abbia tirato fuori due dischi al sangue come “Slaughterhouse” e “Twins” (entrambi dell’anno scorso), ed è infatti impossibile se non si conosce la discografia del ragazzo.

My Head Explodes mi fa bene al cervello, sento confluire più ossigeno quando la ascolto. Si comincia con un misto di indie e grunge, per poi scoppiarti in faccia a piena potenza: rumori assordanti e distorti, e c’è pure la chitarra spaziale alla Hawkwind!

Si spazia un po’ con The Floor, eclettica e modesta, moscia invece Where Your Head Goes, c’è un po’ di Barrett anche in I Am With You, per il finale c’è Fine, che non sa di un cazzo, probabilmente a Segall stava alquanto fatica scrivere ancora qualcosa di decente (tra ottomila collaborazioni e al ritmo di due dischi all’anno mi stupisco che non ci sia molta più merda).

In conclusione si può può benissimo dire che “Goodbye Bread non è un disco particolarmente rilevante nella discografia di Segall, ma da qualche parte bisogna pur cominciare no? Inoltre sono dell’avviso che anche quando caga Segall fa della musica molto più sincera e vera della maggior parte delle band che dicono di fare rock.

Segall non fa arte, non fa roba intelligente, non sta riscrivendo i capisaldi della musica, fa rock, fa garage. E lo fa bene, dannazione.

  • Pro: alcune idee sono stupefacenti nella loro semplicità, come in California Commercial, o come nel gustosissimo climax di My Head Explodes.
  • Contro: questo dipende voi: Segall cazzeggia per tutto il tempo, sbavature e ingenuità costellano tutto il disco dalla prima all’ultima traccia, se la cosa vi piace non è un difetto, se invece vi dà fastidio state lontani mille miglia da questo disco e in generale da Ty Segall.
  • Pezzo Consigliato: ho un fottuto debole per Goodbye Bread. Che ci posso fare?
  • Voto: 7/10