Archivi tag: Moroder

Rock Tamarro (2)

Ritorna la vostra rubrica preferita, pervertiti! Voi che in una mano stringete “Burnt Weeny Sandwich” di Frank Zappa e nell’altra (quella zozza, la mascalzona) “Bat Out Of Hell III: The Monster Is Loose” di Meat Loaf.

Abbiamo tutti nella nostra collezione di album un angolo oscuro, un cassettone che non viene mai aperto se non nella totale solitudine, indove alberga l’osceno e irrazionale piacere del MALE.

Sì perché il rock tamarro è il male, come avevamo già detto qualche post fa:

Il rock tamarro è quel rock che esaspera le sue caratteristiche fino a farlo diventare caricaturale.

Non fate finta di niente, sapete bene di cosa parlo. Oppure siete metallari, e allora non capite un cazzo.

Eccovi dunque una breve lista di nuove perle, anche se stavolta bisogna fare attenzione e non vomitare insulti senza ragionare un pochino prima. Sono presenti delle eccezioni, quindi leggete anche la descrizione e indignatevi se vi insultano la mamma, non il vostro clavicembalista preferito, OK?

Cominciamo.

Raramente ho odiato un paese, un popolo, per aver partorito un qualsiasi orrore nella storia. In fondo le colpe dei padri non possono e non devono ricadere sui figli. Però per i Sektor Gaza (Сектор Газа), non c’è scappatoia che tenga: i  russi la devono pagare, e la devono pagare cara.
Pretendo, quantomeno, una colletta per ripagarmi dei 9 euro e 99 centesimi che mi è costato questo disco posseduto dall’unico demone senza gusto musicale.

No.
No.
Non mi interessa.
Non accetto che esistano persone che non solo vanno ai concerti di Russ Ballard, ma si comprano i suoi album consapevoli e accondiscendenti. In confronto a lui anche Meat Loaf sembra modesto come Madre Teresa e pudico come Papa Francesco. Mescola tutto il peggio dell’hair metal, il rock commerciale anni ’80, ci mette Sammy Hagar, i Van Halen, qualcosa degli ultimi Queen, il tutto con quella presenza ingombrante nelle live di laser e fumogeni. Ogni suo concerto sembra un serata barbecue in casa Moroder.

Gli Atomic Rooster suonano da Dio. C’hanno i capelloni, sono anni ’70 fino alle unghie smaltate dei piedi, sono hard, sono prog, sono inglesi. Hanno più o meno tutto quello che non sopporto nel rock. Per questo sono un piacere perverso. Tamarro per loro non è una offesa, è uno stile di vita che va dagli assoli lunghi otto ore agli effetti psichedelici senza senso né motivo di esistere, dai riff che passano di cassa in cassa circondandoti neanche fossi un fuggitivo da cinque stelle a GTA. I loro album sono tutti grandiose esplosioni di tamarraggine senza freni né vergogna. Gli Utopia gli fanno la bustina del tè, se capite cosa intendo.

Io amo i Mountain. Sì, mi piace l’hard rock, pazienza, abbiamo tutti un male che alberga dentro, pensate che c’è chi ama i Radiohead. Però, cazzo, questa cover che cacchio ci sta a fare? Cover poi è una parola grossa, questo è un chiaro caso di tamarrazione di un pezzo rock, roba che anche i buoni Smithereens hanno onestamente provato più volte a fare, ma senza questi risultati devastanti. Quando ascolto questa tamarrazione sento i miei capelli allungarsi e arricciarsi, i peli sul petto brillano di luce propria e fuoriescono da una camicia di lino con fantasie degne delle copertine dei Grateful Dead, riesco solo a parlare di pace amore e canne, cazzo: io odio i Mountain.

Per avere questa leccornia dovete proprio essere dei fumati come me, perché non è nell’edizione normale del vinile, ma in quella limitata, che mi è costata più di quanto ammetterei mai. Folli, commerciali, vestiti come negli incubi di un Jim Henson in stato lisergico, i mitici Doctor and the Medics di “Laughing at the Pieces” (1986) sono il massimo ritrovato medico contro Tom Waits, Ty Segall, Ramones e quanto di buono esista su questa terra.

È il lato oscuro, avrete il coraggio di esplorarlo?

Ipotonix – Storie di un mondo a-parte

522422_213827612074309_2047527778_n

Dopo un mese di balli latino-americani e discoteche all’aperto con folle adoranti il Casto Divo tutti abbiamo bisogno di spurgarci con del sano rock.
O di bestemmiare, dipende dalla sensibilità.

Comunque tra una birra e l’altra ho avuto modo di ascoltare un po’ di roba a giro, tra cui questi Ipotonix.

“Storie di un mondo a-parte” oltre ad essere il titolo del loro primo EP uscito quest’anno è anche il manifesto involontario di un modo di fare rock. Sì perché il rock inteso come comunità in Italia è un po’ un tabù, così è più facile rifugiarsi in un mondo a-parte, un altrove dove i nostri suoni e le nostre passioni si esprimono sorde a tutto quello che ci circonda.

Eppure il rock è emanazione del suo tempo, dei suoi moti, delle sue speranze e anche delle sue focose e futili espressioni sociali. Cazzo, i Velvet Underground rappresentavano una intera comunità underground, gli MC5 addirittura politica, è impossibile scindere i White Stripes da Detroit come è impossibile slegare Nick Cave dalla poesia contemporanea americana.

In Italia questo è più difficile da percepire anche se con le tecnologie di cui oggi disponiamo non è più un alibi. Fin da subito abbiamo scopiazzato le impressioni musicali che ci arrivavano dagli USA attraverso l’Inghilterra (con notevole ritardo), però un minimo di contesto, diocristosantissimo, glielo vogliamo dare?

Gli Ipotonix non fanno eccezione, convergendo in sé molte caratteristiche del brit-pop/rock di ultima generazione (più Radiohead che Klaxons, più Gotye che Franz Ferdinand). Il loro primo EP è composto da impressioni che hanno il valore di essere unite da un sound ben preciso, il quale però non è contestualizzabile (porcodemonio!).

Molti sostengono che l’unicità sia un elemento positivo per l’arte, ma è chiaro che questi “molti” si drogano dalla mattina alla sera di UnoMattina e X-Factor, bevono TG1 a colazione e hanno un poster di Pippo Baudo in topless sopra il letto.

L’opera d’Arte non assume il suo valore specifico nell’unicità (nemmeno come elemento in sé, come ci insegna la Pop-art) ma nel contesto con cui dialoga. Essendo l’Arte comunicazione deve saper comunicare in un linguaggio comprensibile, o quantomeno deve contenere una chiave di lettura che ne permetta la decifrazione.

Il rock è una forma di comunicazione più bassa dell’Arte quindi i suoi elementi di lettura sono molto più limitati, essi in seguito possono anche essere spezzati e creare una diversa idea di rock, la quale però potrebbe potenzialmente rivelarsi in antitesi con il concetto di rock stesso – sì, ora la finisco di farmi le seghe.

Gli Ipotonix in questo senso non fanno rock, ma un riflesso di esso.

Se gli strumenti ci sono tutti e le strutture sono quelle manca però la forza di collante sociale o di rottura che contraddistingue questo genere che vive solo di estremi.

Il Teatro Degli Orrori propone un rock già sentito nel secondo hardcore e quindi ha perso essenzialmente il treno con il momento storico in cui quella musica aveva un motivo preciso per esistere, in pratica è una imitazione di rock.
I Fleshtones, sebbene facessero revival, lo contestualizzavano e finirono per definirsi super rock perché sapevano di aver iconizzato il rock delle origini come nessuno prima di loro aveva mai fatto.

Fare rock non è semplicemente prendere una chitarra in mano, entri all’interno di una comunità che ha una storia breve ma densa di eventi fondamentali. Puoi farne parte (Fleshtones) o anche rinnegarla (il punk) ma non puoi esprimerti a-parte, perché se no non riuscirai mai a comunicare quello che credi sia importante che gli altri ascoltino.

Ovviamente se vivessimo in un mondo dove la gente non compra quello che le major impongono sarebbe meglio, ma questo non fa che nobilitare ancora di più chi fa rock davvero, senza compromessi.

Ah, già, gli Ipotonix, la recensione, eccetera eccetera, come sono sbadato, se continuo così entro la fine dell’articolo sarò cieco.

1208575_10201955534916726_446441857_n

Guidati dalla voce e dal sintetizzatore di Davide Orsi gli Ipotonix si muovo attorno ai Radiohead e ad impressioni che derivano perlopiù dal soft rock britannico degli anni ’70. Il sound a tratti ci appare in effetti un po’ ammuffito ma non così tanto da farci desiderare delle scimmie di mare per natale, il synth spazia sfiorando momenti jazz quasi alla Sun Araw o quasi industrial alla Fuck Buttons (senza ovviamente la loro vena dark e noise), peccato che con i “quasi” non si combina poi molto.

L’EP si apre con il ritmo serrato ci City Line – Primo incontro, uno strumentale che rivisita le atmosfere del primo Mike Oldfield. Una traccia che, va detto, è piuttosto notevole per una prima demo.

Segue Reazione Chimica, un pezzo che D.Orsi ha perfezionato nel corso degli anni, qui entra in gioco la voce ma sopratutto il sax di Marco Marotta, il sound complessivo risulta come una specie di inedito brit-pop-jazz.

Supertramp non ha nulla della famosa band inglese, una accozzaglia di idee appiccicate una dopo l’altra dalle quali si esce piuttosto storditi. Il momento più basso dell’EP.

Naturale Coscienza di Sè sembra una cover dei Radiohead col sax.

Si riprende con City Line – Secondo incontro, e della prima parte resta solo il sound perché le atmosfere si fanno più scure, richiamando ai momenti più felici di Moroder; un taglio a tratti epico, poi manierista ma senza masturbazione. City Line in realtà nasce come un pezzo unico, ma questa divisione ne accentua i cambi di tono e i diversi mood, in assoluto i due pezzi pregiati dell’EP.

Si conclude con una cover: Missing Pieces di Jack White. Stentano quasi tutti in realtà, ma le sferzate garage della chitarra di Giuseppe Taormina valgono il prezzo dell’EP (e ricordano i wall of sound dei Thee American Revolution).

Cosa ci rimane alla fine dell’ascolto?
Buona musica (City Line), buone idee (Reazione Chimica), un po’ di confusione dovuta all’inesperienza (Supertramp) ma manca l’anima, la forza sciamanica che ti fa alzare dalla sedia completamente posseduto dal demone del rock, che ti fa spaccare sedie e desiderare che ci sia ancora altra birra in frigo.

È anche vero che con queste basi si mescolasse anche un po’ di sano rock allora… beh, allora sarebbero cazzi.

  • Pro: per essere una band nata da così poco hanno già un bel affiatamento.
  • Contro: ma che genere è? Non saprei proprio a chi consigliarlo!
  • Pezzo consigliato: le due City Line sono un lusso per questo EP, che senza sarebbe stato anche da 3,5/10.
  • Voto: 5,5/10

Ultime considerazioni:
mi sembra dovuto, almeno per onestà intellettuale, farvi partecipi della mia microscopica partecipazione alla realizzazione di questo EP, avendone curato una sorta di “post-produzione” (per la quale, difatti, compaio nei ringraziamenti). Ovviamente ciò non ha in alcun modo interferito con la recensione, tanto che a Davide ne ho mandata una diversa, mentre qui ne pubblico un’altra. Che fottuto bastardo, eh?

Scotch – Evolution

Scotch

La italo disco è un fenomeno complesso, con una storia intricata ed una serie infinita di interpreti, conosciuti perlopiù dagli appassionati del genere.

Un po’ come tutti i sotto-generi la italo disco è una sintesi di ciò che “tirava” ai suoi tempi, ovvero nei luccicanti anni ’80 (credo si intuisca una certa tendenza alla disco music, ve la butto lì), la struttura musicale era ridotta all’osso, e tutta la magia di questo genere si basa sull’uso smodato di sintetizzatori e sequencer. Un delirio vero e proprio di effetti e suoni spesso del tutto casuali.

Molte band italiane venivano dal prog, ovviamente le più tamarre (Circus 2000, Gleemen, tanto per citarne due), tutti gli altri erano perlopiù dj di dubbia capacità compositiva e perfetti signor nessuno accompagnati da produzioni generalmente scadenti.

Gran parte del successo (brevissimo) di questa italo disco fu in Germania, terra dove notoriamente se negli anni ’80 andavi a giro con un sintetizzatore e portavi occhiali dalla montatura rosa shocking eri Gesù sceso in terra, basta vedere la loro sconsiderata passione per artisti come Moroder, Jean-Michel Jarre o i Kraftwerk. I nostri italiani, piuttosto virtuosi nell’uso vigliaccamente glamour del sintetizzatore, ebbero vita facile nelle discoteche tedesche, molto meno in quelle nostrane. Solo successivamente c’è stata una rivalutazione di questo genere, e proprio in questi anni molti giovani si stanno avvicinando con dolce e ingenua curiosità alla scoperta di questo dimenticato fenomeno commerciale.

Per sintetizzare quanto detto basta ascoltare successi (sì, lo sono stati) come Orient Express dei Wish Key, o la altrettanto celebre Forever And One Day dei 93rd Superbowl.

Tra i maggiori rappresentanti della italo disco mi permetto di citarne gli unici due di cui ho ascoltato per intero almeno due dischi (è davvero difficile trovarne a giro, prima di tutto perché prodotti in numero piuttosto limitato, e poi perché credo molti dotati di raziocinio abbiano bruciato le copie in loro possesso) Dean Harrow e i mitici Scotch.

Dean ho scoperto essere una faccia abbastanza conosciuta nel territorio della trash TV italiana (grazie Wikipedia, quando c’è da trovare la merda sei sempre ben fornita). Ha partecipato recentemente a reality show, ha condotto su Match Music un programma dove mandava a manetta discutibili successi degli anni ’80, e si fa vedere in trasmissioni dal forte contenuto intellettuale come Uno Mattina. Come musicista puntò tutto sul suo fisico e una forte caratterizzazione del personaggio ultra-mega-tamarro che portava a giro. Punta di diamante della sua produzione è certamente il video di Mad Desire, uno scempio musicale accompagnato da delle immagini totalmente sconnesse. Scene con lui tamarrissimo che passeggia intervallate da sequenze in cui tira pugni alla camera, o scene di una presunta love story senza alcuna dinamica riconoscibile, c’è pure un momento in cui va al cinema a vedere se stesso cantare (e la sala è vuota!!!).

Gli Scotch sono considerati dagli esperti del genere come una delle vette compositive più alte della italo disco. Fondati dal factotum Manlio Cangelli (fondatore anche dei sopra citati Wish Key) oggi la band la riassumiamo nella figura di Vince Lancini, il cantante.

Vince Lancini è un uomo felice, che ancora oggi riempie discoteche di provincia (molto piccole) con la sua ingombrante presenza (gli è venuta ‘na panza…) cantando su una base da karaoke i successi degli Scotch, una fine che vi assicuro comune alla gran parte delle star di questo sotto genere.

Avevo già ascoltato “Evolution” (1985), erano i primi anni del liceo che passavo principalmente tra i negozi di vinili e le fumetterie; ricordo che stavo cercando un disco dei The Castaways quando il negoziante mise sul piatto il primo disco degli Scotch. In tutto quel rigurgito inespressivo di sintetizzatori mi innamorai irrazionalmente di una canzone, Disco Band, che entrò nel mio cervello per mesi, se non per anni. Mi odiavo ogni volta che le note di quei cinque minuti di puro terrore mi saltellavano in testa, era come se una maledizione mi perseguitasse.

Per esorcizzare questo male sapevo benissimo cosa fare, ma avevo paura. Non puoi, ed è per me un imperativo categorico, parlare male di un disco se prima non lo hai ascoltato. Ma per ascoltarlo bene, per concentrarti davvero su quello che stai ascoltando, lo devi comprare.

Comprare un disco che so benissimo essere un prodotto di qualità scadente e che odierò con tutto me stesso dal primo all’ultimo minuto non è esattamente un gran bel passatempo. Per carità, negli anni mi sono dovuto ricrede più di una volta! Ero tremendamente prevenuto su “Kick Out The Jams” ma dopo averlo ascoltato (bene) divenne uno dei miei dischi preferiti. Ho apprezzato molto “Gogol Bordello Vs Tamir Muskat mentre ho trovato odioso “Uncle Meat (ed io adoro Zappa). Anche quando parto prevenuto, o positivamente o negativamente, l’ascolto per me è quanto il più possibile (s)oggettivo, se è una merda è una merda, chiunque l’abbia fatta.

scotch-evolution(1)

Beh, ora l’ho comprato.
La copertina, come potete vedere, è oltremodo brutta, c’è questo tipo primitivo-jamaicano che passeggia con uno stereo in spalla seguito anche nel retro da dei dinosauri visibilmente perplessi, disegnato come se fosse una specie di murales messicano.

Non è un caso dunque che il disco cominci con Primitive Man. Suoni che rimandano esageratamente al trash made in ’80, come se Calvin Harris si fondesse con Wang Chung. Nel suo trash non si può comunque apprezzare il tentativo melodico, poteva certamente risultare molto più tamarro. Poi comincia a cantare il nostro Vince. Purtroppo. I suoi versi – chun’ tangatagatun ah! – misti a testi obiettivamente poco ispirati si sovrappongono alla inamovibile struttura del pezzo, completandosi nella più totale inutilità. La traccia sfuma senza aver mai sviluppato niente, come se l’avessero troncato a metà «dai belli, ‘sta roba dura troppo, passiamo al prossimo pezzo!»

Take Me Up fu un successo, anche se faticate a crederlo, è così. Riassunto efficace di una serie di sonorità che riempivano le discoteche dei mitici ’80 quando ormai il 33 giri di Donna Summer del dj di turno si era oltremodo consumato. Il ritornello allegro e simpatico rimanda a tutta quella simpatia forzata che le major imposero nella musica degli anni ottanta, mentre Gang of Four, Pere Ubu, i primissimi Talking Heads analizzavano nuovi aspetti della nostra società tramite le loro innovative prospettive, ma anche in chiave diciamo “disco” (prendiamola larga) c’erano Frankie Goes To Hollywood, Eurythmics, o il già citato Moroder che comunque sviluppavano tematiche più complesse e una musica più ricercata (non sempre, ma vabbè). Anche questo pezzo sfuma senza alcun sviluppo degno di nota.

Si arriva sconfortati a Man In The Man (ambiguetto il titolo), linea melodica nulla, si nota la presenza di un sintetizzatore (ma và!) e il testo che lascia il tempo che trova. Si cerca, essenzialmente, di trovare un sound, una soluzione musicale che non esige certamente nulla da se stessa, niente di più ricercato di molta spazzatura che passano in discoteca oggi quando finiscono li dischi di Boyz Noize e Tiga. Sfumato, di nuovo, sul nulla.

Born To Kill, potrei giurarci, sembra scritta con Music 2000 (vecchio gioco della Playstation) tenta di dare una nota scura all’album, ma a noi ci basterebbero un paio di note decenti. Il testo non l’ho capito, forse per ignoranza, forse perché scritto con la tecnica del cadavere squisito, non lo so, comunque ecco un frammento delle liriche:

My devil, I, I’m so crazy
Yes desperation, no soul
Shake your tongue
Push around your stone
Born to kill the queen of the earth

Aggiungeteci anche una serie di suoni a caso e un assolo di chitarra sul finale (!), che poi, ineluttabilmente, sfuma, troncando anche questo pezzo.

Si arriva al lato B che si apre con Komburn [non ho trovato un link su You Tube, forse c’è su Spotify], un minuto inutile. Davvero.

Ed è così che ci apprestiamo a  gustare un altro successo degli Scotch, Delirio Mind. Non so, e mai credo vorrò sapere, se questo pezzo è stato scritto con l’intenzione di essere davvero una canzone di disco music seria, oppure come una tristissima parodia. Morirò con questo dubbio. Dopo una prova vocale di Vince (mi sono alzato in piedi con le mani in tasca per non prendere a pugni il disco) il pezzo si sviluppa sulla solita linea melodica e ritmica tutta uguale, con delle digressioni farneticanti, credo che il fine ultimo di questa traccia sia provocare un esaurimento nervoso nell’ascoltatore. Ci sono dei momenti in cui il sintetizzatore tira fuori dei suoni degni della colonna sonora di un film di Barbie. Il finale, stavolta compiuto, non ha senso, ovviamente.

Si passa a Loving Is Easy/Evolution. Le prime note sembrano quelle di un pezzo dei Justice suonato da una band di quattordicenni. Forse amare sarà anche facile, ma scrivere canzoni decenti per Margutti (c’è nei credits, non so chi sia, in questo pezzo c’è anche un tale J.Less, qualcuno ne sa qualcosa?) e Lancini sembra davvero una impresa impossibile.
Una tamarrata rara questa canzone, una perla di indecenza musicale preziosissima se volete sconvolgere i vostri amici, uno dei massimi apici che il trash abbia mai raggiunto. In finale “orgasmico” poi una roba che nemmeno i Troggs più arrapati (perdonatemi di aver messo una delle mie band preferite vicino a questi mentecatti).

E così, con immensa fatica, siamo giunti al mio incubo. Eccola, eccola davanti a me, ecco Disco Band.

Un successo inspiegabile seguì questa canzone, coronata di uno dei video più brutti (se non proprio il più brutto) della storia. Guardatelo, poi riprendiamo:

Nell’album questa cosa dura anche di più. I testi facciamo finta che non esistano, roba che fa sembrare Gioca Jouer una poesia di Ungaretti. Ma la musica? Davvero si può ballare una cosa del genere? E come si balla, come nel video? Ve la immaginate una discoteca piena di invasati che vestiti da rasta-dottori e ingessati doloranti che ballano al ritmo di questa roba? Forse la musica fa schifo, ma lo spacciatore di Margutti e Lancini era un Dio della droga, potete scommeterci il culo. Ok, non resisto, ecco il momento più aulico del testo:

Running down with me
My sailor
Smiling high with you
My cirriots
Smiling high with me
My radio
Baby
You’re my really disco band

Ma che cavolo vuol dire? E quando Vince ricomincia con i suoi versi da menomato tipo rangadadagadagadu!  cosa sta esprimendo, a parte un progressivo deperimento del suo stato cognitivo?

Ultimo pezzo: sono salvo. Losing In Time spicca per una certa ricercatezza della melodia, una prova compositiva certamente insperata dopo una sequenza micidiale di nulla assoluto. Mi prudono le mani mentre l’eclettico e tamarro sintetizzatore fa il suo dovere, ma non posso comunque far finta di nulla, questa canzone non è del tutto orribile, ha un senso, va bene che suona come la base per un Canta Tu, e forse il fatto che segni la fine di questo album che me la fa apprezzare di più, non lo so neanche io ormai. Chiaramente il pezzo ricicla i suoi due-tre strofe senza ritegno per quattro minuti, e finisce in uno sfumato che spezza (sì, di nuovo) un discorso musicale comunque ben avviato.

La prima parola che mi viene a mente è: incompleto.
Va bene, forse non la prima, e neanche la seconda, ma diciamo la prima che non sia una imprecazione. Il disco è incompleto, nessuna traccia viene sviluppata degnamente (a parte Deliro Mind e Disco Band) la povertà compositiva è lampante, l’unica nota che emerge è l’uso del sintetizzatore, caratteristica principale della italo disco, sai che roba.

Non spendeteli questi soldi ragazzi, sul serio, non ne vale la pena. Compratevi un libro, un disco di Ty Segall, un pacchetto di preservativi, qualcosa di utile insomma, ma non questa roba. Nel caso siate degli appassionati di trash a 360 gradi invece uscite subito di casa, oppure andate su eBay, e comprate questo disco. Dopodiché potete morire felici.

  • Pro: io odio questo disco.
  • Contro: tutto, praticamente tutto.
  • Pezzo Consigliato: Delirio Mind è il lato oscuro della musica.
  • Voto: 1/10