Etichetta: Sophomore
Paese: USA
Anno: 2023
Archivi tag: neil young
Kevin Morby – This Is a Photograph
Etichetta: Dead Oceans
Paese: USA
Anno: 2022
Silverbacks – Archive Material
Etichetta: Full Time Hobby
Pubblicazione: 2022
Paese: Irlanda
Neil Young – “Live At Massey Hall 1971”
Etichetta: Reprise Records
Paese: USA
Pubblicazione: 2007
Non so perché, ma Neil Young è una testa di cazzo naturale. È l’amico che ne sa sempre più di te, che ti deride l’impianto stereo non-valvolare e che sa sempre qual’è la giusta posizione in camera tua dove ascoltare “Larks’ Tongues in Aspic” – probabilmente sarebbe capace di farlo anche con Robert Fripp in persona. Va comunque detto, a onor del vero, che l’ossessione di Young per la qualità del suono e dell’esecuzione lo ha portato a regalarci alcune delle live più epiche della storia del rock, roba da far accapponare la pelle anche al cinquantesimo ascolto. Oggi però non vi scriverò di una di queste, bensì di qualcosa che ha aspettato ben 36 per uscire nei negozi, rinfiammando il fandom youngiano come nessun album dopo “Harvest Moon” sarebbe riuscito a fare. “Live At Massey Hall 1971” fotografa Neil Young poco prima della sua esplosione commerciale, di fronte ad un pubblico caldissimo che lo ama e lo inneggia ininterrottamente. È da solo, senza band, seduto su una sedia che si prende tutto il tempo del mondo per accordare la chitarra, o che strimpella il piano per trovare le note giuste prima di cominciare il pezzo. È un chiacchierone, delle volte rimprovera (figurati), della altre si lascia andare a ricordi recenti, scherza. L’aria è quella delle grandi occasioni, il musicista da Nashville però non è permeabile alle richieste del pubblico, più che i classici propone canzoni nuove perché «non riesce a pensare ad altro», sono canzoni spoglie e ruvide in un modo che non sembra nemmeno davvero lui.
Young si concede il lusso di arrivare non preparato, con qualche canzone ancora da ricamare. Proprio lui, quello tutto fissato con la precisione e la qualità, che abbassava o tagliava del tutto le voci del pubblico in post-produzione per lasciare la purezza dell’interpretazione intatta, testardo fino all’inverosimile, ma in questa specifica occasione magnificamente impreciso, nervoso, emozionato. Certo, ormai ci siamo abituati a questo tipo di uscite, il celebre “Unplugged” dei Nirvana ad MTV trovava le sue vette nelle reinterpretazioni emotive di Cobain di Meat Puppets e di Leadbelly, o il bellissimo “Skonnessi” degli Skiantos, dove la poesia demenziale di Freak Antoni suonava molto meno ironica e significativamente più malinconica. Ma “Live At Massey Hall” è diverso perché non è Neil Young che interpreta acusticamente Neil Young, è Neil Young che mette in scena l’origine delle sue canzoni, l’intuizione melodica soggiacente ad ogni cosa.
La banalità delle prime note di Journey Through the Past si eleva appena la voce ci cade sopra, come se la stesse improvvisando per la prima volta, con quella freschezza che scompare quando ci ripensi l’istante dopo averla suonata. Così anche in See the Sky About to Rain è come percepire l’aria fredda che annuncia la fine dell’estate, mentre in Cowgirl In the Sand albeggia il calore della primavera, è l’esperienza più empirica che un’artista possa provocare per esprimere la caducità dell’ispirazione. Non è un album che ha segnato un’epoca, come potrebbe poi, è uscito talmente in ritardo da sembrare più un reperto archeologico, quando ancora il folk aveva ricordi vividi dei suoi maestri, in compenso è la cristallizzazione di un passaggio storico traumatico per il rock, al massimo della sua popolarità e in piena frammentazione tra sottogeneri, ed è – chiaramente – un momento chiave per Neil Young, popolarissimo cantante canadese, ormai ad un passo dal diventare un’icona, con quello che ne consegue. Tutte queste tensioni sembrano incontrarsi per un attimo a Massey Hall, tra un sorso di birra e una chiacchierata tra amici, prima che le note di On The Way Home spazzino via tutto il quotidiano e fissino quel momento per sempre.
Dopo aver ascoltato questo album ammetto che mi ci vuole un po’ per riprendere in mano “Harvest”, “Zuma”, ma anche “Rust Never Sleeps” che sebbene sia un’altra live, soffre di quell’epica forzata e retorica del rock ormai alla fine degli anni ’70. In questo disco c’è tutta la grandezza di un artista immenso, che con una voce e una chitarra può far ballare centinaia di persone mentre fuori ulula scuro il vento, oppure può farle piangere al chiuso delle loro case, a cinquant’anni di distanza, e senza nemmeno capire bene il perché.
Podcast – Epifanie rock
Giudizi affrettati, oppure presunzione, sono tanti i motivi che ci portano a giudicare un album credendo di averci messo tutta l’attenzione necessaria, ed invece basterà riascoltarlo qualche anno dopo, magari di sottofondo ad un pub, per cambiare idea.
Una lista di otto artisti/band su cui per anni ho spalato merda addosso prima di rendermi conto di quanto fossi in torto.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
È uscito il nuovo 7″ dei Molochs e voi stavate dormendo
Sui blog anglosassoni si legge che in questo 7” Lucas Fitzsimons assomigli particolarmente a Neil Young, per alcuni persino a Peter Perrett (The Only Ones), quando invece fin dalle prime note di Sleep In Doom si sente che quell’aria sixteen è solo una scusa, un modo come un altro di esprimersi che i Molochs interpretano a modo loro.
Un po’ del vecchio Neil “Live Rush” Young c’è sicuramente, ma una band che mi solletica particolarmente mentre ascolto a rotazione Living In My Mind e sopratutto Karen sono i Kinks, dove il garage rock non era una scusa per urlare e basta, ma uno strumento narrativo di grande impatto, penso alla forza espressiva di un inno generazionale come I’m Note Like Everybody Else, quella capacità di raccontare non semplicemente il contemporaneo ma l’essenza stessa dell’uomo, è presente in tutte e due le tracce più bonus di questo nuovo lavoro di Fitzsimons e compagnia.
Se consideriamo l’arrangiamento (meno banale di quanto possa sembrare ad un primo ascolto) e la nota abilità di Fitzsimons alle liriche, questo 7” riesce ad essere qualcosa di diverso da “Forgetter Blues”, l’esordio discografico del 2013, ma al tempo stesso non è un passo avanti o indietro, perché la musica dei Molochs non ha tempo né spazio definiti, riesce ad essere universale in ogni contesto.
Un appello ai blog e alle riviste, vecchie e nuove (SottoTerra, parlo a te!), se invece di concentrarsi nel rimembrar le band garage che furono e le pallide imitazioni contemporanee (tipo Bass Drum of Death, Frowning Clouds, Audacity, ecc.) vi concentrasse sullo sviscerare tutto il possibile da grandi artisti della parola come Warren Thomas e Lucas Fitzsimons fareste un gran servizio alla comunità. E poi basta con i Gories, sono ganzi, lo sappiamo, cristosanto.