Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.
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Dreamsalon – Thirteen Nights
La Captcha Records è un’etichetta davvero interessante, dopo averci regalato i messicani Has a Shadow con quel capolavoro di “Sky is Hell Back” passiamo ad una band certamente meno interessante ma non per questo banale.
I Dreamsalon sono una novità nel panorama garage psych, ma di quelle buone. Vengono considerati una specie di Violent Femmes in salsa psichedelica, il che ci pone delle premesse niente male (oltre che a della aspettative pericolosamente alte).
Qualche EP nel 2012 e tanta gavetta, poi nel 2013 esce “Thirteen Nights”, la prova che Seattle non è più un luogo isolato ma fa parte di una rivoluzione sixteen che imperversa in tutti gli States.. Una volta le scene musicali erano legate ad uno stato o addirittura ad una città (perché anche l’hardcore ha vissuto più stagioni legate a diverse città), adesso con internet le distanze si sono accorciate, le idee scorrono più velocemente, e il sound californiano imperversa anche in Canada (Pack A.D.) come in Messico (i già citati Has a Shadow), e quindi anche la grunge Seattle (alla quale ormai va giustamente stretto il grunge) diventa una assolata costa californiana, dove si suona surf rock tra bikini e birra ghiacciata.
Probabilmente “Thirteen Nights” è uno dei prodotti meno banali recentemente usciti, lo ancora di più è se messo in confronto a band più fortunate come gli Audacity o quel fumo di paglia di Jacco Gardner.
Il garage psych dei Dreamsalon spazia tra chitarre che ricordano Dick Dale e le sfuriate di feedback alla Ty Segall, le cavalcate sul basso di Min Yee sono infernali e ammalianti, Matthew Ford calpesta la batteria per poi accudirla esaltandosi in dei passaggi jazz-rock, Craig Chamber a quella chitarra gli fa fare di tutto, la pizzica, la fa urlare, la fa ronzare, la distorce devastandone il suono per poi fare il verso a Syd Barrett (l’unico e incontestabile padrino del rock contemporaneo). Credo sia sempre Chamber a cantare, ma non ho trovato molte informazioni su questa band quindi la butto lì.
Ci sono pezzi davvero notevoli, il giro di basso ipnotico di On The Bus che sfocia in un rabbioso garage punk, il suono avvolgente di Lick o il delizioso riff di Get To Work uscito fuori da un “Nuggets” perduto. C’è pure spazio per la sperimentazione con Every Man, Woman, And Child, punta di diamante dell’album.
Boh, non che altro dirvi, quantomeno ascoltatelo su Bandcamp, questa amici miei è roba che scotta.
Un esordio notevole, un sound già riconoscibile ed un pezzo come Every Man, Woman, And Child che può solo portare lustro alla Captcha Records.
Zig Zags – 10-12
Non hanno nemmeno pubblicato un solo sudicio album, eppure mi fanno impazzire.
Quando una band unisce garage, punk, psichedelia e metal senza fare un pastrocchio (o della fusion pseudo-intellettuale) per me vuol dire che ha le carte in regola.
Il ritorno progressivo al garage “esoterico” (e passatemela, dai) alla Nuggets partito dalla California non è semplice revival o una moda. Lo sta certamente diventando, basta considerare la sterzata commerciale di Mikal Cronin o la nascita di nuove band copia-incolla come gli Hot Lunch (quelli dalla Pennsylvania non quelli glam metal da San Francisco) ma la furia del rock autentico, fatto di sudore e feedback, resiste strenuamente alla base.
Queste band non sono mosse come nei ‘60s dalla voglia di spiccare il volo seguendo il nuovo sogno Beatles (sarà stato almeno il 96% delle band), o magari proprio contro la distopia Beatles (vedi i Monks), perché oggi non c’è un modello o un nemico, oggi si combatte contro il nulla.
Sono un trio gli Zig Zags, voci acide, chitarre distorte che spaziano dall’hardcore punk fino agli Spacemen 3, batteria spesso martellante, ipnotica. Cosa c’entrano con questa guerra al grande nulla di mia totale invenzione?
Quando la politica repressiva di Reagan negli USA si fece pesante l’hardcore sembrava l’unica risposta possibile (anche contro la plastica zuccherosa che radio e televisione di stato promulgavano), ma in quel caso c’era un nemico da combattere e non c’era nemmeno troppo tempo per pensarci sù. Si imbraccia una chitarra e si registra con gli amici in garage o nella palestra della scuola, era vero rock perché spesso ignorava le regole base per suonare decentemente, facevano le cose così come venivano, lasciandosi trascinare dalla rabbia che a quel punto divenne forma. Per questo molti album del periodo sono straordinari, perché trascendono la fruibilità per accettare la sostanza, non c’era una ricerca estetica a priori nel tentare di riprodurre la sensazione di repressione, ma era questa stessa a visitare le band e a farsi strada nelle pessime registrazioni di buona parte della produzione hardcore.
Il garage contemporaneo, quello senza un nemico ben preciso, trova la sua dimensione ideale nell’interiorità. Non denuncia, semmai ammalia con brusche virate drone e un abuso di ritmi martellanti, costruendo un muro di rumori lancinanti quanto rassicuranti.
Ty Segall è un po’ il ragazzo di città che ha voglia di sfogarsi, mette sul piatto buona musica ma senza chissà quale profondità, i Thee Oh Sees sono la band che hanno sondato meglio finora le possibilità di questo nuovo garage sprofondando nella psichedelia, gli Zig Zags, a mio modesto (modestissimo) avviso saranno quelli che lo eleveranno definitivamente.
Unione ideale tra le jam catastrofiche e anarchiche degli Harh Toke, meno puerili dei Criminal Hygiene, restando nella classica forma-canzone gli Zig Zags combattono questo vuoto che ci circonda senza lasciare un attimo di respiro all’ascoltatore, e lo fanno con una propria personalità.
“10-12” è una raccolta uscita in un numero limitato di musicassette e in formato digitale su Bandcamp, sono spizzichi e bocconi di una band in fase di crescita, dove non mancano le banalità come i colpi di genio.
C’è ovviamente una buona parte di garage punk senza pretese (se non quella della fruibilità), parliamo di Randy, Tuff Guys Hands, Turbo Hit (gran bel singolo, fra l’altro), Down The Drain, Eyes, I Am The Weekend, No Blade of Grass, che poi altro non sono se non la base che sorregge la struttura sulla quale gli Zig Zags svilupperanno il loro sound dal 2012 ad oggi.
Ma il ritmo, la distorsione, quell’helter skelter autistico che inconsapevolmente è la risposta alla desolazione quotidiana (vuota ormai di qualsivoglia senso e futuro) si trovano in Human Mind, Love Alright, Scavenger e Monster Wizard. E aggiungiamo a questo elenco anche la recente Voices of the Paranoid, una versione disillusa e acida dei Thee Oh Sees.
Probabilmente sono in errore nel contestualizzare una musicassetta composta perlopiù di banale garage punk in un discorso così ampio e difficile da decifrare quali sono i nostri tempi, la contemporaneità. O forse no. Fatto sta che qui non si sente la mancanza del Vero Genio come negli album di Ty Segall (sempre in equilibrio tra convenzionalità e grande rock), o quella di una opera davvero compiuta nei Thee Oh Sees (anche se con “Carrion Crawler/The Dream” ci sono andati vicino), la strada che hanno imboccato gli Zig Zags sembra una di quelle che lasciando il segno, se non nella musica quantomeno in chi la ascolta.
- Lo Consiglio: a chi sta amando questa California e i suoi protagonisti, ma anche a chi cerca del punk decente o della psichedelia d’annata senza per forza cadere nel revival.
- Lo Sconsiglio: a chi crede siano una band per intellettuali (anche se dalla mia recensione sembrano potenzialmente la band preferita da Heidegger), a chi cerca nel punk qualcosa di più Clash piuttosto che della fottuta psichedelia.
- Link Utili: per la pagina Bandcamp clicca QUI, per l’altra recensione che ho scritto sulla band invece QUI.
[I lettori attenti si saranno accorti che è sono scomparsi i voti e i vari Pro e Contro che mettevo alla fine di ogni recensione. Ho deciso che era meglio così.]