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Podcast – Dead Horses, Stromboli, Steven Lipstick & His Magic Band, Kikagaku Moyo, ShitKid

Con un ritardo mai visto prima e che è al limite del ceffone sul viso, eccovi la 10° puntata di Ubu Dance Party, il vostro podcast preferito! Vi assicuro che stavolta ascoltarci sarà come andare sulle montagne russe, dal blues alla psichedelia giapponese, weird-garage e drone, robe da farvi intrippare di brutto.

Vi ricordo che Ubu Dance Party è in diretta tutti i MARTEDÌ alle 21:30, potete ascoltarci QUI oppure sulla pagina Facebook di Radio Valdarno! (anche se questo martedì credo proprio si andrà in onda alle 18:30, perché DJ Lorenzo ha da giocare alla play)

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«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Mexcal – L’Ostinata Fedeltà Dei Cani

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«Di quelli come te/ non so che farmene» cantano i Mexcal, e mi viene quasi da sorridere.

Ultimamente mi stanno contattando parecchie band e artisti, delle volte piuttosto al di fuori della musica che recensisco di norma in questo mediocre blog. Chi fa musica frenchcore, chi death metal, chi jazz sperimentale, e chi, come i Mexcal, fanno il classico rock italiano da radio Subasio.

Che poi a me dispiace anche trovarmi nella posizione di stroncare (quasi) tutti gli album che mi mandano, spesso con tanto di note e dichiarazione d’intenti incluse nella mail di richiesta, e non raramente con allegata una lista infinita di premi di vario genere, ma a me delle premiazioni e dei voti su internet non me ne frega un cazzo, giudico l’album per quello che c’è dentro, non per come ne parlano a giro.

L’Ostinata Fedeltà Dei Cani” è un disco sorretto da un tema classico del rock, la perseveranza nel seguire i propri sogni, che per i Mexcal evidentemente è fare rock anni ’90.

Il problema delle 11 tracce che compongono il loro esordio è che sanno TUTTE di già sentito. È come tornare al primo album dei Negrita del 1994 (senza la loro velocità e l’armonica alla Morricone), a quei suoni dalle parti di Arezzo, la triste banalità della voce potente e virile, i dannati ritornelli, i riff delle volte pizzicati e delle volte a tutto volume, i testi sempre uguali.

Sebbene le regole non piacciono più tanto a questo trio bresciano (come si evince da Quello Che Non Sorride Mai) nel loro album le rispettano tutte, fino alla noia.

L’unica cosa che si percepisce decisamente è il divertimento viscerale che provano nel suonare, come se fosse l’unica cosa che valga la pena di fare, ma non basta questo per creare un prodotto interessante, sarebbe troppo facile!

L’ho capito che «ogni parola è un ricordo», ma per farmi sentire il peso di quel ricordo non basta urlarla quella parola. Quando Dee Dee Ramone canta in 53rd & 3rd la senti la sua esperienza, riesci a percepire quel disagio sulla tua pelle, quando Robert Wyatt declama in falsetto il testo di Sea Song ogni singola parola è un cazzotto allo stomaco. Come invece lo fanno i Mexcal è come lo fa ogni band da taverna, dimenticandosi che parola e suono sono vettori che necessitano di magnitudine e direzione.

Mentre il rock in Italia cerca una dimensione internazionale che non sia, finalmente, copiare quel che di buono ci dà l’estero, ma proporre della musica originale e interessante (Heroin In Tahiti, Mai Mai Mai, Architeuthis Rex, La Piramide Di Sangue, Squadra Omega, …), ci sono anche band come i Mexcal, molto più modeste ma molto più immediate.

Divertente il pezzo finale quasi alla Skiantos (Signorina), come anche i riferimenti a Ivan Graziani in Conchiglie E Stelle (purtroppo non coadiuvata dalla splendida auto-ironia del chitarrista italiano).

Alla fine della giostra “L’Ostinata Fedeltà Dei Cani” è un esercizio di maniera che piace più a chi lo suona che a chi lo ascolta, un mondo a parte dove conta solo a che volume lo stai suonando, non cosa stai suonando.

D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control

INTERNETHATE

Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:

  • non mi interessano,
  • notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.

Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?

Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.

Eeeee via con le danze!

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angeloD’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)

[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]

Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.

Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.

Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?

Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.

Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.

link a YouTube

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10723566_472216169585570_1463938047_nrussian.girls – Old Stories (2014)

A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.

Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.

Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.

“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).

Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).

Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.

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a3621126830_10Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)

Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.

Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).

Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.

L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.

Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.

L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.

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a2192467939_2The Stevens – A History Of Hygiene (2013)

Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.

Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.

Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).

La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.

Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.

Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.

Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.

A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.

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a2301055101_2Total Control – Typical System (2014)

Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.

Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.

Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.

In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.

Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!

Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.

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Jay Reatard – Blood Visions

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Dimenticare Jay Reatard sembra sia stato più facile del previsto. Morto a soli trent’anni, un’altra storia di droga, alcol e depressione, un must dell’immaginario rock, una tragedia evitabile probabilmente.

Jay è stato uno dei rocker più prolifici dei primi 2000, le sue abilità nel creare melodie perfette mischiando new wave, punk, pop e garage sono quasi leggendarie. Non nascondeva un animo indie e la passione per un rock spensierato e senza pretese, la sua immediatezza però non era banalità, c’era tutta la sua presenza in quelle live al fulmicotone e la sua anima in quelle canzonette da pochi minuti.

Dopo l’esperienza maturata in varie band (con i The Reatards a soli 15 anni e Lost Sounds le più importanti) il suo brevissimo percorso solista lo porta a comporre tre album, tre punte di diamante di tutta la produzione pop rock contemporanea.

Blood Visions” (2006) pubblicato dalla In The Red è il suo primo approccio solista e quindi anche il più immaturo dei suoi album. Perché allora stimolarvi con un’opera imperfetta e molto ingenua? Perché dietro le poche pretese di questo ragazzo di Memphis c’è una voglia di fare rock che riempie il cuore (come le orecchie).

Va detto che dei 15 pezzi che compongono “Blood Visions” solamente 7 sono davvero memorabili, ma è roba di primissima qualità, riff a raffica dannatamente new wave, cambi di ritmo deliziosi, melodie cristalline e tanti cojones (caratteristica che manca a band tanto amate come Kasabian, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand e via dicendo).  

Come non ci si può innamorare di Greed, Money Useless Children con la sua sfacciataggine da quattro soldi? I riff veloci e assassini di Blood Visions sono da antologia, come anche il garage pop di It’s So Easy, quel gioiello new wave di My Family che da solo vale l’acquisto, sono davvero troppi i punti a favore di questo album. 

La carica malinconica si esprime in un punk violento e introspettivo, My Shadow, che poi altro non è che il punto più alto di questo poeta dei poveri, senza pretese, senza presunzione, senza speranza. 

  • Lo Consiglio: a tutti.
  • Lo Sconsiglio: se in questo periodo sei alla ricerca di qualcosa di più interessante e comunque meno banale di un Ty Segall meglio se lasci Reatard momentaneamente sullo scaffale.

La mia (modesta, inutile e annoiata) opinione sui Beatles

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[ALERT: Questo articolo è brutto e invecchiato male, leggiti QUESTO QUI che è meglio!]

LA PREMESSA NECESSARIA:

La prima cosa che vorrei eliminare da questa discussione è la figura di Piero Scaruffi. E con essa quella di qualsiasi altro critico. Non tanto perché io non creda nel valore della critica musicale, o della critica in senso lato.

Vorrei ricordare che la figura del critico serve per comprendere meglio un dato fenomeno artistico tramite gli studi, le comparazioni e il giudizio quanto più obbiettivo dello stesso. Chiunque creda davvero di comprendere un’arte, qualsiasi essa sia, senza studiarla perché a suo dire: “l’arte è un qualcosa che ci viene donato dall’artista è dev’essere universalmente comprensibile” è meglio che giri a largo da questo blog e dal suo blogger, che se m’alzo male lo lego alla sedia e lo costringo ad ascoltarmi mentre faccio una orrenda disamina di sedici ore su La Mariée mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp. Fidatevi, riesco a mala pena a sopravviverci io.

In questo caso particolare lascio stare la critica, come lascio stare anche ogni idea di giudizio soggettivo.

A me piacciono un casino, ma davvero un casino, gli Spirit. Avete presente Fresh Garbage? Ecco, per me I’m Truckin’ è uno di quei pezzi che potrei ascoltare giorno e notte. Ma non per questo se dovessi fare una disamina storica degli Spirit sparerei solo i miei segoni mentali su quanto questa band mi ecciti sessualmente, no, dannazione, proprio no!

Il mio pezzo dei Pere Ubu preferito è Blow Daddy-O, quello del rock in generale Kick Out The Jams!, sono malato? Non lo so, secondo mia madre certamente, ma in questi anni che studio rock da un punto di vista leggermente più serio e storico oltre a scoprire altri pezzi che me la alzano ho anche scoperto che, come nella grande arte, ci sono vari livelli di godimento.

«Ehi stronzetto, ma ancora non stai parlando dei Beatles!»
Sì, lo so, sto cercando di tirare fuori un concetto invece del solito stronzo.
«Ok, ok, amico, pensavo solo ti fossi perso tra le tue solite menate.»
Grazie che mi tieni d’occhio.
«Non c’è di che.»

Dicevamo dei vari livelli di godimento.
Tutti possiamo apprezzare le doti tecniche di un pittore rinascimentale, ma non tutti possono capirne il valore effettivo.

Pala-di-BreraMi stupivo quando alle mostre molta gente snobbava gente come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Masaccio per pittori magari minori ma che in alcuni casi erano più realistici. Per quanto uno possa apprezzare La Pala di Brera di Piero della Francesca, vorrei sapere quanti conosco il modo con cui l’opera fu accolta, per cosa e da chi fu commissionata, se fu commissionata da qualcuno (a qualcuno il dubbio potrebbe anche sorgere), se oltre la mera raffigurazione c’è qualcos’altro, che tipo di simbologia e iconografia vengono usate, in che modo e perché la tecnica di questo quadro è la fusione delle esperienze dell’artista e via dicendo.

Al passante che apprezza l’arte nella sua forma più effimera non gli importa un fico secco di tutte le questioni che incorniciano un’opera d’arte figurativa. E questo è giusto, se gli piace da impazzire già così dove sta il problema?

A me dà fastidio vedere certi “critici” insultare appassionati amatoriali solo perché gli sfugge il significato del corallo rosso su Gesù Bambino o dell’uovo di struzzo appeso che pende sulla testa della Madonna (/Battista Sforza). Ognuno ha il diritto di poter apprezzare l’arte anche senza uno studio approfondito.

Ma mi dà molto, molto più fastidio, quegli appassionati che vogliono fare i “critici” perché conoscono un paio di date, oppure vita, morte e miracoli di un artista, come se la biografia fosse l’unica cosa che abbia un valore.

Badate bene: per ogni artista di ogni campo, la biografia ha un valore minimo quando non nullo per definire le caratteristiche della sua opera. È ovvio che I’m Waiting for the Man descrive l’esperienza diretta di Lou Reed, ma il suo valore storico e musicologico sono altra cosa, e hanno ripercussioni e significati diversi dall’esperienza dell’artista.

Inoltre ricordate sempre di non ascoltare mai il giudizio degli artisti stessi, sulla propria e sull’opera altrui. Sono rarissimi i casi di artisti intellettualmente validi al di fuori della loro sfera di competenza. Detto in parole povere, Scorsese potrà dire che Bellocchio è il regista più importante della storia, ma ciò non significa che lo sia, sebbene Scorsese sia uno dei registi più influenti della storia.

«Ma se tu c’avessi rotto il cazzo?»
Oh, non è mica una cosa semplice! Sto cercando di fare un discorso serio!
«Oh, ma stai calmino! Hai mica mangiato pane e allegria a colazione?»
Sigh…

La gente tende ad apprezzare l’arte figurativa e a dispregiare l’arte contemporanea perché se in una può leggere una abilità tecnica (che è solo una caratteristica, non sempre fondamentale, per giudicare un’opera d’arte, in mezzo a mille altre altrettanto importanti) nell’altra non ha la chiave di lettura adeguata, ovvero: non ha studiato. Pochi cazzi.

Se credete che certa arte sia sempre stata grande vi ricordo che anche a Leonardo Da Vinci e a Michelangelo gli rifiutavano opere già concluse o progetti in via di sviluppo, e che Leonardo ha dipinto L’Ultima Cena in una mensa per frati affamati e le più grandi intuizioni di Michelangelo (il non-finito) ancora oggi sono quasi del tutto sconosciute ai “critici” amatoriali.

Parliamo di rock?
Bene, per il rock vale tutto il discorso fatto sopra, come vale per la musica in generale e tutte le arti di ‘sta ceppa.

The-Beatles-the-beatles-33526367-500-492Sui Beatles abbiamo la fortuna di possedere una quantità di dati critico-biografici a dir poco esaustivi. Come per tutti i fenomeni artistici non ancora storicizzati anche per il rock è ancora difficile riuscire a trovare un metro di giudizio oggettivo per giudicare le opere e gli artisti.

Di quanta gente, come per molti artisti del passato, è stata rivalutata l’opera a posteriori? 
Velvet Underground, Fifty Foot Hose, Fugs, Replacements, Captain Beefheart, Death, Sonics (non comincio a fare liste adesso perché se no non finiamo più) e quanti ancora sarebbero da riscoprire (sì, anche più di adesso).

Altri invece, grazie alle vendite smodate, hanno dalla loro una maggiore storicizzazione, anche se spesso viziata dall’influenza delle majors sui mass media, e dunque sulla narrazione popolare che viene fatta e della insulse agiografie che costellano il mercato editoriale.

Il fatto che i Bay City Rollers abbiano venduto milioni di album li rendono importanti per la storia del rock? Non vi immaginate quante biografie esistano di questa band, e quanti fan si strappassero i capelli per andarli a vedere spendendo cifre astronomiche. Pensate davvero che questi fan siano scomparsi? Non è affatto così! Non è che ignorando un fenomeno commerciale che esso scompare!

Beyoncé vende milioni di album, gli Strokes pure, senza parlare dei Muse, dei Black Eyed Peas e moltissimi altri gruppi che molti ignorano, o che credevano sarebbero durati un paio di dischi ed invece continuano a vendere milioni di album sfondando record su record.

Ancora mi ricordo quei profeti che dicevano che “Britney Spears non ha contenuti, vedrai che scomparirà, un paio d’anni e nessuno se la cagherà” peccato che il settimo profilo Twitter più seguito AL MONDO sia quello della Spears con 33.761.000 followers. Quindi qualcuno che la valuta ancora c’è.

Come vedete è inutile valutare in modo positivo un artista per l’universalità del suo linguaggio o per il suo successo commerciale. Britney faceva musica di merda e continua a farla. Non è bello da dire, perché così facendo insulto in maniera indiretta chi la ascolta e la ama. Però il 99% di chi ascolta (anche a livello superficiale) rock odia i fenomeni pop in modo del tutto irrazionale.

COMINCIAMO:

I Beatles, come stavo dicendo, hanno venduto moltissimo. È un dato di fatto. È rilevante ai fini di una critica musicale? Sì, ma non così tanto.

Partiamo subito dicendo che i soldi sono indiscutibilmente una delle caratteristiche fondanti per la band. Ringo Starr entrò sotto la pressione di Epstein, non sotto quella degli altri membri della band, e George Martin controllò l’azione creativa della band fino al 1965, ovvero fino a “Rubber Soul”, perfino storici amanti della band come John McMillian ne descrivono le vicende interne come molto conflittuali, ma non per motivi artistici quanto di avarizia.

Fin qui ho detto solo delle ovvietà, e continuerò probabilmente a dirne altre.

Per molti i Beatles sono stati:

  • abili mistificatori, bravi solo a seguire le mode e a fornicare groupies stra-bonissime;
  • il più grande complesso di sempre, gli anticipatori di tutto, anche della dubstep;

Definire in due modi così diversi una sola band è sintomo di come la critica rock sia ancora agli albori per quanto concerne una scientifica storicizzazione. Da entrambi gli schieramenti ci sono molti critici affermati e tantissimi, troppi, appassionati.

La mole dei fans e degli haters dei quattro di Liverpool è tale da rendere semplicemente impossibile un ragionamento di tipo storico sul web, perché tanto è il cuore che comanda e ci trascina verso il baratro delle pernacchie via email.

È facile infatti trovarsi di fronte a milioni di fan di Piero della Francesca, che vedono nella sua unione ideale tra l’iconografia rinascimentale e la tecnica fiamminga il massimo raggiungimento di un genio (anche teorico), mentre altrettanti milioni lo ritengono sopravvalutato, un conservatore in confronto ad artisti più sperimentali come Paolo Uccello (e anche un po’ borioso).

Sinceramente tutte queste critiche fatte “per passione” trovano il tempo che trovano, e mi procurano solamente un gran mal di testa (altro che quelli di Morgan o degli Windopen).

I Beatles sono stati solamente moda?
No.

I Beatles sono stati i più rivoluzionari?
No.

I Beatles sono stati un avanguardia?
No, cazzo.

I Beatles sono la peggior band del pianeta?
No, no e no cazzo!

I Beatles sono stati una grande band pop! Letto bene? POP! Tutta la musica popolare di massa contemporanea  (che forse inizia con la musica folkloristica che con le radio è divenuta di massa) deve la sua struttura musicale, produttiva, distributiva, aziendale e pubblicitaria a quel fenomeno pop che sono stati i Beatles.

La band assimilava gli impulsi dall’America e li trasformava in qualcosa di loro. Prima tramite la grande esperienza di Martin, poi grazie alle doti acquisite da Lennon&McCartney e dalle loro eclettiche passioni musicali che spaziavano da Buddy Holly al blues del Delta.

I Beatles, fino al 1969, non solo assimileranno tanta roba a giro, ma saranno anche quelli che con le loro hit definiranno il sound di una breve epoca. Dal ’67 in poi i Beatles saranno ampiamente superati come fenomeno musicale (ma non come fenomeno di massa), mentre loro traducevano in pop il rock psichedelico le band proto-punk (Troggs, Sonics, Velvet Underground, Stooges, MC5) stavano cominciando ad avere le prime influenze sulla scena internazionale, l’hard rock era ormai prossimo ad affacciarsi, e la psichedelia negli UK invece che trasformarsi nel pop di Sgt. Pepper’s si stava evolvendo nel prog (l’esplosione arriverà nell’anno successivo con Henry Cow, Family, Move e senza considerare gli americani It’s a Beautiful Day, da alcuni considerati come i padrini nobili del progressive rock).

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Inoltre dire che all’inizio il fenomeno dei Beatles fosse seguito perlopiù da ragazzini e molte ragazzine quindicenni non è una bestemmia! Ricordo una bellissima testimonianza di Franco Fabbri (musicologo, chitarrista dei mitici Stormy Six) che racconta di come i “duri e puri” all’inizio preferivano gli Shadows ai commerciali Beatles. Anche nel libro che McMillian dedica allo smitizzare certe scemenze sulla biografia dei quattro, si ricorda come nelle prime tournée il pubblico fosse composto al 90% da ragazzine sovreccitate. Questo perché i Beatles nascono come un fenomeno più pop che rock. Non capisco però perché per alcuni questo dovrebbe essere offensivo!

A me piacciono davvero gli album degli Earth, Wind & Fire, se qualcuno mi dice: ma sono fenomeni da baraccone disco-pop! ci sto alla grande, l’importante è che mi piacciano! C’è gente che ti insulta la mamma se gli fai notare che sì: i Beatles sono una band che ha avuto delle grosse influenze sul rock (come su tutta la musica leggera) anche perché vendevano a palate, ma sono una band profondamente pop prima che rock. Qualcuno mi spiega dov’è il problema? Le categorie esistono per un motivo, non solo di semplificazione nell’ambito della divulgazione, ma anche per specificare le declinazioni estetiche.

Un’altra grande dote della band è ovviamente quella di essere riuscita a creare un formato canzone altamente fruibile. Le geniali melodie di Eight Days A Week sono semplici quanto trascinanti per gran parte delle persone. Poi ci sono strani episodi come quello di Taxman l’unica vera canzone politica della band, ma un po’ ridicola nei contenuti. Ricordo a tutti che le lamentele dei quattro non erano mica sulla pressione fiscale che attanagliava gli inglesi, ma su quella che attanagliava loro! Pressione ingiusta, e lo era sì, ma cazzo, se una cosa del genere me l’avesse scritta un Bob Dylan altro che le rappresaglie per la svolta elettrica!

Lo stesso Fabbri che prima ho citato definisce I Feel Fine come “complessa e sorprendente” ma al contrario di qualche sciroccato sa bene che non è un esempio di proto-prog, perché è un dannato musicologo che di rock ne sa e ne ha ben studiato (oltre che ben suonato e dunque masticato).

Ho seguito tantissimi congressi (o volevo dire sedute degli Alcolisti Anonimi? Non ricordo…) e discussioni di esperti impantanarsi su Tomorrow Never Knows. Definirla come la prima canzone psichedelica, solo perché vengono usati degli effetti con una qualità che nessuno si poteva permettere, e perché Ringo la suona “strano-strano” è a dir poco snervante. Sì, la struttura del pezzo propone soluzioni interessanti, ma non è mica l’unico pezzo interessante dei Beatles! Però per definirlo proto-psichedelico ci vuole una fantasia davvero fervida. La psichedelia non è semplicemente uno stile, non è un caso se è esistita una scena texana che è considerata fondante di quella americana e una inglese con componenti sia musicologiche che ci concetto molto diverse tra di loro.

Poi è abbastanza avvilente che canzoni straordinarie come Isolation di John Lennon non vengano riviste dal punto di vista del binomio biografia-artista (qui, una volta tanto, non solo rilevante ma chiave di lettura imprescindibile di uno dei pezzi più autentici della storia di questo musicista), mentre su molte biografie ci sono intere pagine sull’origine di Ob-La-Di, Ob-La-Da.

Dunque.
Grandissima band pop forse la più grande (ma non mi piace fare classifiche), fino al 1969 hanno prodotto un pop-rock da antologia collezionando canzoni allucinanti, battendo record su record e riuscendo a comunicare a tantissime generazioni. Contenuti pochini, perlopiù buonisti – e sui quali si dividerà proprio la coppia d’oro Lennon-McCartney, però siamo lontani da esempi di musica seminale come Bob Dylan, Fugs e Frank Zappa (per dirne tre a caso). Grazie ad uno studio di registrazione, quello sì all’avanguardia, doneranno alla discografia mondiale album di pura perfezione ingegneristica, con effetti e suoni stralunati per l’epoca davvero eclettici. Come ogni band hanno avuto momenti davvero bassi e momenti più alti, ma col merito di essersi sciolti prima che arrivassero album indecenti.

Non hanno inventato tutto, ma nella storia del rock  c’è un prima e c’è un dopo i Beatles.