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The Night Marchers – Allez! Allez!

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Se conoscete John Reis (Rocket From The Crypt, Drive Like Jehu e tanto altro) allora potreste avvicinarvi ai The Night Marchers con una certa facilità.

Nel caso in sui le suddette band non vi dicessero niente… ma in che pianeta avete vissuto finora?

Dai, scherzi a parte (odio i talebani dell’onniscienza rock, sapere tutto senza capire un cazzo) Rocket e Drive fanno parte dell’ondata alternative degli anni ’90, ma con grosse differenze nel sound, per i Rocket legatissimo al garage e al proto-punk degli anni’60, mentre i Drive sono molto legati all’hardcore.

È chiaro pure ad un sordo che i Night Marchers sono il risultato di queste due esperienze collegate dalla figura del chitarrista cantante della band: John Reis.

Questo è il loro secondo album, ma il primo “See You In Magic” (2008) non l’ho ancora ascoltato, so solo che è stato ben accolto dalla critica (e quando mai). Leggendo qualche rivista mi sono saltati all’occhio di nuovo con il secondo “Allez! Allez!” (2013) e date le recensioni anche stavolta positive mi sono mosso per acquistarlo una settimana fa.

Messo sù la prima volta non mi disse un granché.
Lo ascoltai, lo riascoltai e lo ascoltai ancora, per giorni e giorni.

Mi sa che siamo di fronte ad uno di quei casi dove tra te e il musicista ci sono troppe differenze, una sensibilità magari troppo diversa. Forse, e ci sta, è anche il momento sbagliato. Mi è capitato spesso di approcciarmi ad album che ho amato fin dal primo ascolto per poi rivalutarli anche molto in negativo qualche mese o anno dopo, come mi è capitato altrettanto spesso pure il contrario.

Il problema di “Allez! Allez!” è che è un disco ben suonato e strutturato, ma senza niente da dire (o quantomeno da dirmi)!

L’unione delle due esperienze passate di Reis non è nostalgica, c’è anche da parte sua una rielaborazione consapevole di cosa passa di questi tempi, ma manca l’energia.

Cattivi, ok, ci sono quei due-tre riffoni che te la alzano al primo ascolto (2 Guitars Sing, Big In Germany, Fisting the Fan Base, All Hits) ma manca l’energia infernale del rock.

Il problema che riscontro sempre negli album belli di musicisti che hanno fatto la storia, ma che adolescenti non sono più, è sempre lo stesso: grande controllo, saggezza rock a palate, ma neanche l’ombra di quella forza che ti fa saltare dalla sedia e ti porta in qualche modo a spaccare tutto quello che ti trovi di fronte.

Un esempio di quello che dico è chiaro in Roll On, bel riff, bella evoluzione del pezzo (senza strafare, anzi), registrato come si deve, ma è tutto così controllato da sembrare inevitabilmente posticcio. Già meglio in Fisting the Fan Base (fra l’altro è il pezzo che conclude l’album…).

I The Night Marchers fanno un bel compitino rock, un acquisto per appassionati del garage in tinta alternative e con qualche strizzatina pop come in (Wasting Away in) Javalinaville, ma manca la passione primordiale che lo rende un album da acquisto sicuro.

Lo consiglio solamente a chi ama a dismisura Rocket From The Crypt, Pitchfork e Drive Like Jehu.

Peccato, pensavo meglio.

  • Pro: se vi piacciono le band fin qui citate l’acquisto ve lo consiglio, il sound è quello, e Reis sa bene che corde toccare.
  • Contro: mancano le palle infuocate, la sana rabbia rock.
  • Pezzo consigliato: Loud Dumb and Mean. Spacca abbastanza.
  • Voto: 5/10

Montauk – Montauk

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L’Italia è sempre stata un po’ il fanalino di coda del rock (assieme a molti altri paesi occidentali) qualche soddisfazione siamo riusciti a prendercela nei mitici ’70, ma poi siamo scomparsi di nuovo.

Di band da ascoltare a giro per fortuna ce ne sono, anche se raramente riescono a stare al passo delle corrispettive band americane e inglesi.

I Montauk sono un gruppo giovane che sta muovendo i suoi passi nel terreno del post-core e dell’indie, terreni abbastanza fertili in Italia di questi tempi. Diciamo che puntare su tematiche melanconiche e depressive in questi giorni è un po’ da una parte ”vincere facile” e dall’altra rispecchiare fedelmente lo stato d’animo dei giovani.

La band mi ha spedito l’album un paio di giorni fa, è arrivato stamani stupendomi alquanto. Non tanto per la prontezza delle Poste, ma per la presentazione del disco stesso.

Dentro un cartoncino, tenuto fragilmente da un’elastico, c’è il cd e una specie di “manifesto” d’intenti, più una montagna di disegni di fumettisti e illustratori in linea con il Montauk pensiero.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, riprendono stilemi del fumetto della grafica contemporanea, qualcosa di simile si è già visto in “Requiem” dei Verdena se non ricordo male, dietro i disegni ci sono pure delle citazioni dai testi delle canzoni.

‘Na presentazione di nulla!

Nel manifesto degli intenti la band definisce la sua musica “post-core-slo-core, indie-punk” e cantautoriale, il che secondo me sintetizza bene il disco in sé, ma è quasi più una dichiarazione di limiti che di intenti, comunque ora ne parliamo meglio.

Dice, il foglietto, che loro non sono né gli Hüsker Dü né i Fugazi, e dice giusto assai. I Montauk non hanno la velocità degli Hüsker (e quelli andavano forte per davvero), non hanno la vena politica dei Fugazi e la loro musica scarna e sanguigna, in sostanza c’entrano poco e niente con queste due leggendarie band.

La musica dei Montauk parla ai giovani, suona come uno stralcio preso da un racconto di Ammanniti, senza però la sua psichedelica progressione verso un’infausta (e inevitabile) conclusione, il discorso della band libra in aria fendendo colpi qua e là, rievocando sensazioni e angosce senza però dargli mai una direzione precisa.

Le idee alla band non mancano, come anche la capacità tecnica. Il disco è definito lo-fi, ma non è proprio un lo-fi tipo. Insomma, non suona di certo come “Slaughterhouse” di Segall o “Rubber Factory” dei Black Keys, suona più come un disco degli Zen Circus, una via di mezzo in pratica.

Comunque prima di trarre delle conclusioni andiamo all’ascolto.

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Io, il pezzo che ci introduce in questo album cortino (dai, è un EP) comincia bene. Vada per il post-core, ma diciamo un post-core piuttosto rigido. Non c’è la veemenza degli Hüsker, ma nemmeno dei And You Will Know Us By The Trail Of Dead, piuttosto si lascia spazio ad una monocromia indie come negli The Underground Youth, senza salite o discese troppo rapide.

Come Fossi Il Tuo Cane conferma quanto detto e rimanda alle sonorità dei Teatro Degli Orrori, band molto apprezzata dal pubblico italiano in questi ultimi anni. Speravo in una citazione degli Stooges in tutto e per tutto, ma già il testo “vorrei che tu mi accarezzassi come fossi il tuo cane” – che ha qualche ricordo di I Wanna Be Your Dog, suona però come una sorta di sconfitta, mentre il latrare di Iggy era intriso di un fuoco che qui manca.

Il pezzo successivo, Il Bruco, è pervaso da un nichilismo adolescenziale che fa tanto indie. Mi piace la frase “e sceglierò il silenzio” perché rappresenta bene l’angoscia tipica di questo genere, ovviamente è un ossimoro che nobilita il tentativo di dire qualcosa dei Montauk. Peccato che la struttura compositiva cominci a sembrare un po’ ripetitiva.

Song No Tomorrow butta là qualche sprazzo di new wave, c’è un po’ più di energia e c’è molto potenziale; “la rabbia è una religione” ripetono ad un certo punto, non potrei essere più d’accordo, ma aggiungo che non è ancora la vostra parrocchia, le strutture sono troppo rigide e i suoni troppo calibrati, la rabbia c’è ma non trova ancora un’espressione adeguata. Il Mondo, il pezzo dopo, non aggiunge nulla di importante.

Con Da Quando Non Siamo Più la band comincia a tirare fuori le palle, e io apprezzo molto. Il pezzo credo parli di una coppia che si è divisa, in realtà ci capisco poco grazie ad un sistema di amplificazione da rivedere (il mio), ma frasi come “resto qui a cercare un pezzetto di te nei pantaloni” sono quanto di più post-core si sia finora sentito.
Inoltre la canzone propone una struttura decisamente più elastica, passando dalla velocità alla riflessione con un certo stile, peccato che sul finale il cantante tiri fuori questo:
“la mia vita ha il senso di un sapore
è un piatto di carne a base di interiora
la violenza della cucina tradizionale
le mosche mi fanno una corona di compagnia con al loro ronzante allegria”
Eh? Boh, però il finale mi è piaciuto un casino.

In Nessuno Partirà non manca il brio, ma quattro minuti francamente mi paiono tantini per un pezzo senza troppe sorprese.

Il disco si conclude con Piove, la traccia si distacca dalle altre per la presenza di una lunga introduzione fatta di impressioni sonore piuttosto semplici, c’è molta melanconia che sfocia in una sensazione di solitudine forzata mischiata a misantropia, che fa (ancora una volta) tanto indie.

Che dire?
La band ha idee, ha capacità, ha anche un sound abbastanza personale, che manca? Manca innanzi tutto il carisma di band come Il Teatro Degli Orrori o degli Zen Circus, e per paragonarli ad altre band ancora ai margini manca per esempio un po’ di coraggio alla Gli Ebrei.

Comunque ci sono le basi per qualcosa di potenzialmente interessante.

  • Pro: bel sound, un disco suonato bene e che non ha bisogno di virtuosismi per piacere.
  • Contro: sa di poco, dopo le prime due tracce il resto appare scontato.
  • Pezzo Consigliato: Da Quando Non Siamo Più ha anche una spinta in più.
  • Voto: 5,5/10