Etichetta: Slack! Records
Paese: Italia
Anno: 2022
Archivi tag: power pop
Honningbarna – Animorphs
Etichetta: Nye Blanke
Paese: Norvegia
Pubblicazione: 2022
Bidons, Mirrorism, For Food
Finalmente ho trovato un po’ di tempo per annoiarvi con le solite recensioni MA stavolta si cambia aria! E basta con ‘ste cazzo di band californiane, e che siamo una colonia americana? Ah, “sì” dite?
RECENSIONI DI BAND ITALIANE come avete più e più volte richiesto per mail e su Facebook maldetti stalker bastardi schifosi luridi «Oh, finalmente le recensioni di Tab_Ularasa, VAIRUS e La Piramide Di Sangue che ti chiediamo da secoli!» ehm, in realtà non proprio eh. Però quasi, come cantava Freak Antoni.
La Salerno garage dei Bidons
Un minuto di silenzio per il nome della band.
Proseguiamo.
Come indica in maniera vistosa il loro logo su Bandcamp i Bidons suonano un “garage per le masse”, una musica democratica e fiera della sua immediatezza, come ci hanno insegnato papà Bangs e mamma Sonics. I ritmi del loro primo album del 2012 “Granma Killer!!!” sono però deliziosamente rock and roll più che punk-garage (vedasi il pezzo 2009) con venature power pop ma senza l’egemonia della chitarra a tutti i costi, sono persino ballabili i bastardi!
Per cui è ovvio, come i più intransigenti di voi avranno subito capito, che qui siamo su una sponda più catchy del garage, compiacente e divertente, il che di per se non dev’essere un male a prescindere però è chiaro che se preferite suoni abrasivi e gli sputi in faccia i Bidons non fanno per voi (come anche la società civile, ma questo è un altro discorso).
Due cover eccellenti, Be A Caveman degli Avengers e Night Time dei Strangeloves, gli ululati alla Cramps di Wolves of Saint August, un album che si mastica bene e si dimentica altrettanto facilmente… Avrebbero anche i numeri questi quattro salernitani, ma manca il singolone spaccadenti, l’ariete d’assedio, la HIT insomma. Ci provarono subito l’anno dopo col singolo Raw, Naked & Wind, misto di White Stripes e sixties ben congegnato, apripista per il loro secondo album: “Back To The Roost”.
Si alza il volume stavolta, meno rock and roll e più furia Nuggets, leggermente più vintage ma non lo-fi e con una title-track memorabile. Meno paraculi dei Double Cheese ma altrettanto bravi nel combinare riff, assoli brevi ma cazzuti e ritmi forsennati. Non sono proprio la band per cui vado pazzo di solito, però come spinge (Shout it out) Burn Down! e come galvanizza il riff di I don’t mind!
Insomma: di sicuro il loro lavoro migliore, sopratutto alla luce dell’ultimo album “Clamarama”.
Non voglio partire prevenuto quando recensisco un album, mai, però già dopo aver ascoltato il pezzo d’apertura, Do it alone, mi è scesa parecchio la scimmia che si era arrampicata faticosamente nel 2013 per “Back To The Roost”. Più power pop che garage, assoli da masturbazione seriale, riff troppo troppo troppo orecchiabili, cazzo è come spararsi nelle orecchie un misto di Bass Drum of Death-Jet-Double Cheese tutto patinato e ripulito fino all’inverosimile.
Dal punto di vista compositivo probabilmente siamo di fronte al loro album più riuscito, se sparato a tutto volume dalle casse sembra inciampare clamorosamente con i suoi stessi cliché ma senza auto-ironia. Probabilmente a quelli di voi che preferiscono gli Smithereens agli Oblivians questo album provocherà orgasmi multipli da qualsiasi orifizio, perché i Bidons ci sanno fare eccome. Personalmente ho faticato non poco ad arrivare alla fine dell’album.
Passiamo alla roba seria, passiamo alla scena Ferrarese.
Captain Beefheart è sceso a Ferrara: ovvero come i Mirrorism mi hanno spappolato il cervello
Io la prima demo dei Mirrorism non so dove cazzo cercarla. Probabilmente dovrei contattare la band, ma tra tutti i contrattempi della vita mia non ho mai trovato lo spunto per decidermi e rompergli il cazzo, così la roba più vecchia che ho trovato è del 2012, un EP titolato “Fly Eye”.
E nulla, già dopo S.P.O.W. ho dovuto spararmi una sega per svuotare tutta l’emozione che mi si era accumulata nelle palle. Post-punk? Un po’, per nulla nostalgico dei tempi che furono, ma che ne riprende le cose migliori, i ritmi sghembi, le chitarre inquietanti, la voce che passa dalla narrazione alle urla più agghiaccianti, sicuramente caratterizzato da una attitudine tutta loro. Sembra che i titoli stampati nella musicassetta fossero pure sbagliati e questo gli vale cinque punti in più a bocce ferme.
Night Flight mi ricorda i cambi repentini e la frenesia di alcuni pezzi degli australiani Total Control ma l’aggiunta del sax (per nulla Morphine ma mooolto beefheartiano) è un tocco di classe ineguagliabile, bellissime anche la lenta Slow Homo, la punkettona Exit The Loop e Anti Bodies.
È come trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo, come quando ascoltai per la prima volta i VAIRUS «Ma allora è possibile fare della merda di qualità pure in Italia!»
Sarà addirittura la Trouble In Mind a produrgli il 7’’ con Night Flight e Exit The Loop nel 2013. Ovviamente sarà un successo nazionale ed internazionale, li avrete sicuramente visti a Sanremo, a Lollapalooza, agli Oscar e dal Papa vestiti da chierichetti.
E poi, due anni fa e due giorni dopo il mio compleanno, arriva il regalo più bello: “Mirrorism”, la loro consacrazione, il loro primo vero album, caricato free su Bandcamp. E in concomitanza la notizia del loro scioglimento. MAPORCODIO.
Amici: possiamo urlare al capolavoro e non vergognarci. Cazzo bisogna dire di un album così? Infiltrazioni psichedeliche deliranti, un theremin mai così psicotico prima, ogni cristo di pezzo sembra partorito in un momento di lucida creatività mai più raggiungibile, come se in quel preciso momento le sfere celestiali e le loro palle si fossero congiunte su una linea retta cosmica, anche se non lesinano coi rumori/suoni e le distorsioni sembra tutto estremamente controllato e calibrato.
Solo White Jam se magna a colazione gran parte della produzione australiana e californiana contemporanea, se poi vai avanti è sconcertante la facilità con cui le idee scorrono fluide e sempre brillanti, fino alla deflagrazione finale: quei sette minuti e ghianda di Loose End che da due anni a questa parte il mio pezzo rock italiano preferito in assoluto.
Compratelo se potete, in digitale of course, ed amatelo fisicamente.
E dopo tutti ma prima di tutti: i For Food
Prima o poi anche di loro bisognava parlare.
Probabilmente preceduto da qualche EP che mi sono perso, i For Food hanno all’attivo un solo album uscito nel 2014 e composto da sette pezzi che provocano uno spaesamento totale. Agghiacciante ed estetica in modo malato la prima vera traccia, Love, Sex & Drugs, ci colpisce subito per una cifra stilistica unica e destabilizzante, qua mettersi a fare troppi discorsi attorno al genere diventa pericoloso ma purtroppo necessario.
Categorizzare in musica, in particolare negli studi musicologici più che nella critica la quale etichetta a caso un po’ tutto, serve a collocare nel tempo e nello spazio un dato fenomeno musicale e di solito aiuta a comprenderne tutte le unicità. Però con i For Food è davvero un macello. Insomma, con i Mirrorism l’etichetta post-punk gliela affibbi e per quanto gli possa stare stretta se la tengono e non devono rompere il cazzo, ma con i quest’altri ferraresi c’è da bruciarsi le sinapsi.
Cos’è una City Light? Io un nome l’avrei: capolavoro, di nuovo, ma non ci aiuta. Ci sono rimembranze delle sperimentazioni post punk e ovviamente art rock, ma addirittura possiamo cogliere echi di trip-hop e psichedelia che non riesce a scadere mai nel revival. Psichedelia Occulta forse? Mmm, non direi, siamo troppo lontani dalle influenze jazz degli Squadra Omega o da un certo misticismo misto a tribalismo di altre band, come anche dal prog di In Zaire, questi son di Ferrara mica di Torino!
È davvero un unicum questo “Don’t Believe In Time” e non soltanto per il nostro paese.
Giocano i For Food, ma sempre rimanendo fottutissimamente seri. Ci disorientano, ci buttano in un altro spazio e in un nuovo tempo, la melodia non solo c’è ma è l’elemento fondante di tutti i pezzi, anche se poi quasi la si dimentica nell’avvolgente tempesta sonora, mai satura però come nei complessi garage-sperimentali tipo i teramani Inutili.
L’attacco di Opium New Year potrebbe benissimo essere quello di una band indie rock americana per poi concludere con un riff genuinamente punk e la bellissima voce di (credo, perché non ho trovato moltissime informazioni) Agnese “Aggie Rye”, che spazia da Beth Gibbons a Exene Cervenka passando per Grace Slick come se nulla fosse, incantandomi ogni volta.
Punta di diamante la conclusiva La Petit Mort, un po’ Doors un po’ Jefferson Airplane nei primi istanti, per poi perdersi finalmente saturando, un vero e proprio orgasmo finora ritardato e che esplode su chitarre dapprima orientaleggianti poi shoegaze.
Un album di cui non dobbiamo sottovalutare l’influenza non solo sulla scena Ferrarese (che comunque li venera, giustamente) ma su tutto l’underground italiano.
Beh, che dire gente, questo è tutto, tornate pure a fare quello che stavate facendo. Alla prossima.
Paracul’ garage rock
Non che la cosa mi stupisca, in fondo era destino già nel 2007, quando a Fullerton (California) due giovanissimi Lee Rickard e Sean Bohrman, membri dei già paraculi Thee Makeout Party, fondarono nella stessa città dove nacque la “Fender musical instrument company” l’etichetta/negozio di dischi Burger Records.
La Burger non è un’etichetta garage nel senso stretto della parola, piuttosto è un’emanazione dell’impoverimento della scena power pop, un genere che esalta tutti gli elementi più banali del rock (riff, melodia cantabile sotto la doccia a squarciagola, tecnica esecutiva brillante, assoli brevi ma intensi) pompandoli all’inverosimile. Chiaramente a dei poco più che maggiorenni californiani questo non può riuscire a pieno, per cui quello che ne viene fuori è una versione semmai scarnificata del power pop, trovando così un sound simile alle garage band sixties che volevano inseguire il successo dei complessi inglesi.
Il garage storicamente nasce già diviso in due fazioni, da una parte come abbiamo detto c’erano le band incantate dalla melodia facilona del Mersey Beat, dall’altra tipacci alla Monks, band dal sound più duro e incazzoso e dalle liriche finalmente pensanti, che a posteriori saranno ritenute dai critici più superficiali come preludio ante-litteram al punk (e persino al kraut rock nel caso dei Monks!), ma che nella semplicità dei fatti erano una reazione del tutto naturale alla piega modaiola che stava prendendo il rock.
Se la matrice musicologica in fondo è la stessa (il surf rock strumentale degli anni ’50, la fura del rockabilly e le nuove derive psichedeliche) quella culturale è talmente diversa da dividerne i destini musicali, da una parte band che riuscirono ad avere un successo fulminante all’epoca ma che oggi suonano terribilmente datate e scontate, altre invece sebbene snobbate allora entrarono a far parte della leggenda, stimolando negli anni a venire generazioni di rocker del tutto fuori dal mainstream (penso ai già citati Monks, ma anche agli Electric Prunes, Music Machine, Seeds, Fugs, Godz, 13th Floor Elevators, Fifty Foot Hose e centinaia d’altri).
Ma il garage rock della Burger Records a quale parrocchia fa riferimento?
Vedete miei cari lettori, la Burger ha creato una nuova corrente garage, che sta a metà tra le due di cui sopra, il paracul’ garage rock. Un’idea francamente geniale, che ha portato un nuovo elemento nel garage rock che prima era banalmente impensabile: i soldi.
Una volta grattata via la pestilenziale crosta di volgarità e ipertestualità tipica del garage (che non è mai demenziale come si presenta) cosa rimane? Rimangono i riff, la melodia cantabile sotto la doccia, una tecnica raffazzonata quando non inesistente e le liriche sull’erba e sulle ragazze/ragazzi. Il genere perde così tutta la sua carica eversiva, ma ci guadagna non poco sotto il profilo della fruibilità.
Sia chiaro: non tutto quello che cresce sotto l’ombra del grande hamburger californiano è paracul’ garage, ma buona parte della sua produzione lo è ed ha inquinato l’idea comune di garage rock.
Ne è un esempio lampante il 7’ uscito quest’anno dei Double Cheese. Prodotti dalla francese Frantic City Records (la stessa dei Froth fra l’altro) questa band frutto del rapporto incestuoso tra i The Skeptics e Charles Howl, è riuscita dove nessun altro prima si era neppure avvicinato col binocolo: hanno creato la prima hit garage.
Capite bene che la parola “hit” accanto ad una canzone garage formano un’abominio dalle sembianze lovecraftiane, un mostro indefinibile che trascende diversi piani dell’esistenza, un abisso imperscrutabile dal quale la mente può solamente cadere per poi non poter più risalire.
Come poter descrivere con altre parole il successo di I Hate The 60’s dei Double Cheese, che persino nella nostra penisola è riuscita a riscuotere plausi dal web? Cos’altro non è se non la fine di un percorso iniziato 9 anni fa dalla Burger Records? Ascoltatela e continuate a leggere:
Non lo sentite quel riff PERFETTO? Catchy, direbbero gli ‘mericani! La voce, virile e chiara, l’entrata della batteria ad effetto? Il sound e persino più pulito di un album dei Radiohead? E quel gioco formato dal ritornello «Because I hate/ I hate the 60’s» col sound ultra-sixties del pezzo? Ci sta persino l’assolo, cioè dico: l’assolo in un pezzo garage! Sarebbe come sentire una stonatura in un pezzo dei King Crimson! E come suonano bene, come sono bravi ‘sti Doppio Formaggio!
Cari seguaci del garage rock, ma non lo vedete che vi stanno facendo? Vi stanno facendo terra bruciata attorno, vi stanno mondanizzando, siete diventati più sexy degli hipster porcodio, una volta eravate fonte di ispirazione per i punk più viscerali e disgustosi, ora siete roba da heavy rotation su Virgin Radio, vi hanno spento le grandi palle di fuoco a suon di musicassette e 33 giri che fanno tanto vintage, il vostro pubblico non vi sputa più addosso ma vuole seguirvi su Instagram mentre postate foto dei vostri risvoltini ai pantaloni!
Cosa volete farne delle vostre vite: passarla a costruire hit dal sound catchy e ballabile come i Double Cheese, o spaccare le orecchie e il cervello di qualcuno come gli Hallelujah? Perché la Burger Records prima o poi scomparirà, proprio come questa moda del paracul’ garage rock, e quello che rimarrà di questi anni (proprio come dei sixties, dei seventies, degli eighties e via dicendo) saranno gli album di gente che ha proposto qualcosa di diverso dalla norma, che non si è piegata alla moda, e che ha suonato con orgoglio quel genere che affonda le sue radici nel cuore rock stesso.
[NOTA PER I GENI: Questo post non vuole demonizzare la Burger Records, solo il 90% della loro produzione, poiché le eccezioni ci sono e alcune le ho anche recensite, come i The Abigails, Mr. Elevator & The Brain Hotel, Tracy Bryant e i suoi Corners, Pesos e altri.]
The Smithereens – 11
Eccovi le prime righe dalla pagina italiana di Wikipedia sui The Smithereens:
The Smithereens sono un gruppo musicale power pop statunitense formatosi all’inizio degli anni ‘80 a Carteret nello stato del New Jersey guidato da Pat DiNizio e composto da Jim Babjak (chitarra), Mike Mesaros (basso), e Dennis Diken (batteria), tuttora attivo. La formazione è rimasta immutata fino al 2006 quando Mesaros è stato sostituito da Severo Jornacion.
Precisa, asettica e puntuale, come al solito, ma secondo me si poteva fare diversamente, un po’ più… come dire… ecco… un po’ più così:
C’avete presente i Foo Fighters, Blink-182, Green Day, parecchia roba dei Weezer e tantissime band simili che impestano i canali di MTV e le finte radio rock tipo Virgin Radio? Ecco, tutta ‘sta mandria di finti rockettari (perché sono tutte band pop, le quali non devono essere dispregiate per questo, ma vanno insultate pesante quando si professano rock!) hanno attinto tutto il loro sound così “anni ’90” da una cazzo di band dei primi ’80! BANG! Eccovi i fottuti Smithereens!
Non vi piace di più?
No?
Beh, a me sì.
Non mi piace parlare troppo di pop, me ne intendo poco, ne ascolto pochissimo, ma quando qualche gruppetto di fighetti impomatati, con i loro completini brit pop che variano dall’elegante e minimale dei Franz Ferdinand al finto scapestrato grunge dei Foo Fighters, viene definito rock mi sale il sangue al cervello.
Vi suggerisce qualcosa la differenza tra l’Elvis dei tempi andati e Jerry Lee Lewis?
Il primo, dopo i bei concertoni con le vecchie hit rock&roll intervallate dalle nuove e infinite ballate piuttosto fracassacoglioni, si denigrava in quei film buonisti con tanto di sponsor militare mai troppo subliminale (aaah, le gioie del denaro!), il secondo, dopo aver bruciato il pianoforte e nel migliore casi dato inizio ad una epocale rissa con gli spettatori, tornava nella sua impietosa vita di puttane e alcol, esattamente come si raccontava nelle sue fuoriose canzonette rockabilly.
– Eeeeeh ma beppe, non è mica questo che fa rock! Insomma, allora per te per essere un vero rocker ti devi sfondare il fegato e tradire la moglie ogni tre per due? –
– Ma non hai capito mica un cazzo, caro amico mio. Nick Cave, che ora fa il “santo”, non è meno rocker di uno che si fa le spade prima di un concerto. Allo stesso modo Iggy Pop, che dalle belle capriole sui vetri infranti e le risse sul filo della morte con bande di motociclisti, ora si vende per un tozzo di pane riciclandosi come il miglior De Chirico quando si retrodatava i quadri, non è più un dannato rocker, è solo un pezzente. Un talentuoso, carismatico, magnetico pezzente. –
La cosa bella degli Smithereens è che loro, rocker, non ci si sono mai atteggiati! Che gliene fregava? Il loro era power-pop spietato, tamarro oltremodo, gustoso nei sostanziosi riff che erano e sono tutt’ora l’unica sostanza in un genere tutto forma.
I loro miti difatti erano i Beatles, e l’unico modo che avevano per interagire col rock era nelle sue accezioni più pop. Provare per credere gente: ascoltatevi la loro rivisitazione del 2009 di “Tommy” degli Who (“The Smithereens Play Tommy”) e ditemi voi cosa accade.
Non c’è un tentativo di modernizzazione come può essere il caso di “The Dark Side of the Moon” dei Flaming Lips, o la riscoperta tecnica sempre del famoso album dei Pink Floyd promossa dai Dream Theater qualche anno fa (una discreta schifezza, fra l’altro), il “Tommy” degli Smithereens è soltanto l’album originale pimpato a mille, una versione pop quasi scientifica della grande rock opera di Townshend.
Ma se i Foo Fighters mi fanno profondamente cagare, perché propongono questo approccio così tragicamente “MTV-style” (se poi pensiamo a come se la passarono i Nirvana con MTV fa abbastanza riflettere) mentre band allucinanti come i Thee Oh Sees fanno rock con le palle ma non te lo sventolano in faccia tirando sù concerti penosi con Jimmi Page e John Paul Jones, gli Smithereens li rispetto.
Sì, ok, è pop, all’ascoltatore medio di rock fa cagare a prescindere (perché è scemo), però una band che ti tira fuori un sound così avanti nei primi anni degli ottanta che divenne moda e tendenza solo nei ’90 va rispettato. Bravi Smithereens, ricordate alle checche di MTV che si può fare pop con delle chitarre elettriche senza vergognarsene.
Aaaaah già, la recensione… eh. Ok, faccio in un attimo: questo è il terzo album della band, esce nel 1988 dopo qualche anno di gavetta e due Ep dove compaiono parecchie cover dei Beatles (il loro unico amore) e rivisitazioni del brit pop anni ’60. Il primo album, “Especially For You”, uscirà soltanto nel ’86 e verrà seguito nel ’89 da “Green Thoughts”, dove finalmente le chitarrate potenti che li contraddistinguono verranno fuori. Ma l’apoteosi è proprio con “11”, sempre del ’89, molto più power e parecchio più pop.
- Quindi sì, il Pro è che sostanzialmente è bello potente per essere un disco pop.
- Contro: dieci canzoni così tamarre tutte assieme le ricordo solo in altri pezzi da novanta tipo “Oops! Wrong Planet” degli atroci Utopia o il mitico “Bat out of Hell” di Meat Loaf (leggasi anche Jim Steinman), curiosamente entrambi del ’77.
- Pezzo consigliato: a parte il mitico pezzo di apertura, A Girl Like You, è notevolmente tascia anche Cut Flowers.
- Voto: 7/10. BANG!