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Sanlsidro – A lo pesau, a lo bajo y a lo llano

Etichetta: Slovenly
Paese: Spagna
Pubblicazione: 2020

«Giuseppe ho un dubbio, ma tra quello degli Algiers e quello dei Black Country, New Road, qual’è il disco che spacca più i culi?»
«La tua è una domanda molto tecnica AssDestroyer09, ma per tua fortuna ho la risposta qua pronta per te: Sanlsidro
Capace di evocare le lande psichedeliche e febbrili di Cervantes, “A lo pesau, a lo bajo y a lo llano” segna l’esordio solista di Isidro Rubio sotto lo pseudonimo di Sanlsidro. Non cercatelo su Google, ci penso io ad inquadrarvelo. 

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Kim Fowley – The Day the Earth Stood Still

Kim

Etichetta: MNW
Paese: Svezia
Pubblicazione: 1970

All kinds of stones
And all kinds of rocks
Gonna burn down the bridge
Gonna burn down the block
Set fire to this whole damn nation
Gonna create all kinds of sensation

Nel 1970 Kim Fowley si trovava nella fredda Svezia munito delle sue pellicce appariscenti e di un significativo carico di droga. Tra le tante certezze che la sua vita gli aveva donato c’era fulgida nella sua mente d’aver già sperimentato tutto quello che il rock poteva dargli. La cosa non dovrebbe poi stupirci così tanto, a soli 18 anni Fowley aveva messo sù la sua prima rock band assoldando un certo Phil Spector e mostrando subito affascinanti doti premonitrici. Appena compiuti 20, nel 1959, eccolo con i The Renegades di Nick Venet mentre spolpa il rock anni ’50 portandolo a conseguenze che anticipavano le prime derive britanniche su suolo americano. Fowley ha sempre avuto questa fissazione di riportare il rock ai suoi gloriosi fasti, eppure al tempo stesso lo smuoveva una voglia incontrollabile di guardare al di là, di scorgere prima degli altri cosa sarebbe successo, e sarà questo suo fiuto per il puzzolente rock ’n’ roll del futuro a farne un produttore con i contro-così-detti. Non è un caso se in una vecchia intervista di Federico Guglielmi, in uno dei suoi naturali slanci di umiltà, si fosse autoproclamato «Il Nostradamus del rock.»

La lista dei progetti di Fowley negli anni ’60 non trova paragoni con il carnet  nessun musicista rock di qualsiasi epoca. La sua biografia è un turbinio di band, happening, singoli e dischi in cui è impossibile orientarsi, solo in quei frenetici anni giovanili ha prodotto gente come Jim Capaldi e i Soft Machine, ha scritto e provocato canzoni per The Skippers, Wolf Pack, Navarros, Uptones, Rogues, Fallen Angels, E. Zane Wood & The Dominion, Grains Of Sand, Bruce and Jerry, Knights of the Round Table, e tantissimi altri, riuscendo a spaziare tra ballad soul strappalacrime (Big Tears) a demenziali rivisitazioni strumentali anni ’50 (The Baddest Wolf), procedendo col garage rock più scalmanato (Goin’ Away Baby) e passando per una imprevedibile deriva psichedelia proto-barrettiana (Golden Apples of the Sun). Il suo singolo a 45 giri più famoso, The Trip, ispirò Soul Kitchen dei Doors e fu lui sempre in quegli anni a far incontrare John Lennon e Frank Zappa, suonando con quest’ultimo sia nelle sessioni che delle prime live di “Freak Out!” E questa non è che una mi-cro-sco-pi-ca porzione dell’influenza culturale che ebbe questo fricchettone sulla storia del rock.

Sotto molti punti di vista il ruolo di Kim Fowley è stato quello di Brian Jones nei Rolling Stones, solo che Fowley voleva esserlo per tutte le band del mondo.
Il Capolavoro discografico arriverà nel 1968 con quel gran tocco di hard rock che fu “Outrageous”, un album di cui dovremo parlare e di cui ho scritto almeno sette recensioni, e tutte e sette mi hanno convinto ogni volta di più che dovevo studiare, scoprire e interrogarmi ulteriormente. Per questo ho scelto un altro album: codardia, il gusto della vita vissuta a metà.

Durante un lungo soggiorno nella bella e brulla Svezia, condito con droghe e sesso occasionale (che ci volete vare, è il duro lavoro della rockstar), Fowley sta producendo alcune band locali quando decide che vuole registrare un album dal contenuto bello scoppiettante, un campionario di rock ante-litteram e di rock contemporaneo che spiegasse con la sua arguta ironia quanto fosse necessario imparare a memoria la cinica lezione di Dennis Hopper. Il 1970 è l’anno in cui il musicista di Hollywood tira i remi in barca per quanto riguarda la sperimentazione di nuovi linguaggi elettrici, che d’ora in poi delegherà ai suoi figliocci (roba di prima scelta come Modern Lovers e Runaways, mica pigne come Billy Squier) ma a modestissimo avviso di questo blogger che non sa distinguere una cena da una colazione, ciò non toglie un filo di grandiosità a “The Day the Earth Stood Still”, un colpo di coda che lascia esterrefatti per lucidità e coesione artistica.

Fowley come al solito se la gioca passando attraverso influenze e contaminazioni a dir poco eclettiche, dal chitarrismo di Dave Edmunds (quello di “Rockpile”, non il baccello alieno che lo sostituirà nel “periodo new wave”, ugh!) a Vince Taylor, a cui ruba la sua celebre Brand New Cadillac lanciandola nell’olimpo del minimalismo rock ante-White Stripes (cover fra l’altro ben più radicale di quella stranota dei Clash). Fowley lascia sapientemente solo Cadillac del titolo originale, anche perché di Brand New non c’ha proprio un cazzo l’approccio del nostro, asciutto come un rocker degli anni ’50 cresciuto nei garage degli anni ’60.

Lanciato così l’album, con miraggi di automobili sfreccianti verso il progresso industriale, si apre ben presto verso le immense strade americane, dopo pochi chilometri ci ritroviamo alla ricerca di ragazze con cui condividere i nostri dolori esistenziali, mentre gli occhi si perdono nell’aridità morale che ci circonda (Pray for Rain), inseguiamo motociclisti che fuggono dalle proprie radici (Visions of Motorcycles), ascoltiamo il suono della libertà che piange e ammiriamo l’avvento di una Nazione (Birth of a Nation), il tutto col solito istrionismo hollywoodiano che Fowley secerne da ogni poco e buco del suo corpo. Le note politiche seminate nel disco ci vengono lasciate raccogliere da soli, ed sono molto chiare e amare, le masse di giovani che riempiono le strade contro la guerra non sono quei lunatici sottomessi alla propaganda marxista di cui parlano TV e radio, ma la volontà di un popolo di riscoprire la propria libertà guardando a nuove sfide, perlopiù ecologiste, spirituali, autarchiche. Per descrivere questo scontro generazionale senza copiare il pastiche zappiano, Fowley condensa nelle sue canzoni le principali influenze americane senza abusare di arrangiamenti o di complesse soluzioni in studio, dal country alle nuove leve del rock (Steppenwolf su tutti) tenta di rappresentare le molteplici declinazioni dello spirito americano attraverso la sua unica sensibilità. Eccolo quindi cantare anthem hippie dal tono hard rock come in The Man Without a Country per poi scadere coscientemente nella comicità demenziale southern di I Was a Communist for the FBI, in queste dicotomie senza soluzione di continuità la volontà non è tanto quella di impostare un concept quanto di collezionare canzoni di pura e assoluta “americanità”.

Tecnicamente questa impostazione può sembrare un limite, perché le immagini trasferimento (2)proposte sono molto diverse fra loro senza essere però abbastanza vicine da provocare l’effetto puzzle di opere sperimentali tipiche di quegli anni. Ma Fowley aveva già abbondantemente dimostrato di saper fare album così con “Outrageous”, per questo la sua attenzione stavolta è focalizzata sul comporre un canzoniere in cui le liriche svolgono un ruolo più importante del solito, proprio perché la musica è così facilmente riconoscibile all’orecchio trasporta più facilmente le sue parole così urgenti. “The Day the Earth Stood Still” non è un atto di accusa politico tramite la sperimentazione coincidendo necessariamente con una avanzata ricerca poetica (come stavano facendo Who, Zappa, Aphrodite’s Child), né il tentativo di universalizzare il proprio personale mal di vivere (Robert Wyatt, Tim Buckley, Nico), piuttosto l’idea è quella di dimostrare che l’America è stata costruita mattone su mattone col sudore di rocker come Buddy Holly e Little Richards, dai motociclisti in pelle che viaggiano come tribù nomadi, dalle ragazze che chiedono un passaggio sulla strada. Se in “Outrageous” le contaminazioni erano tutte mono-direzionate per parodiare un certo tipo di rock, in questo specifico caso la policromia di generi proposta serve sì a mostrare la complessità della società americana, ma da un solo, criticissimo, punto di vista.

Il finale dell’album è una deflagrazione rock declamata da un predicatore lascivo: «Baby, is America dead? Are we dying, or are you the one instead?» Dove sta finendo questa nazione, si chiede, dove le vecchie generazioni che dovrebbero guidarla hanno perso per strada i loro valori fondativi, mentre i giovani, che ne hanno scoperto una nuova declinazione nel fango di Woodstock, vengono ignorati o soppressi con la forza? In un fluire che disvela tutte le potenzialità dei musicisti a sua disposizione, Fowley predica il suo sermone perdendosi in litanie, borbottii, versi bambineschi, urla sguaiate alla Sam Kinison, la voce adesso ruvida adesso morbida, la satira così demenziale da essere una involontaria parodia del rocker “di strada” alla Mick Jagger. Le linguacce non cambieranno il mondo, ma sono il linguaggio universale di cui adesso disponiamo per superare la retorica politica e l’accademismo snobista di una generazione che vede con disgusto i nuovi modi della gioventù.

Con questo album Kim Fowley, per la prima volta nella sua sottovalutata carriera, non sposta di un millimetro i confini del rock, perché sa di aver raggiunto un equilibrio che non ha bisogno di  nessuna legittimazione, nemmeno la nostra.

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Mr. Elevator & The Brain Hotel – Nico & Her Psychedelic Subconscious

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Freak, psichedelici, anni ’60 e troppo esplosivi per ignorarli, Mr. Elevator & The Brain Hotel sono una delle realtà più frizzanti dalla California.

Capitananti da un geniale Thomas Dolas, già da qualcuno elevato al ruolo di nuovo Ray Manzarek e nemmeno troppo a caso, sono un trio dalle potenzialità ancora da definire. Le strepitose acrobazie sui tasti di Dolas ricordano Ray Manzarek come il più cattivo Brian Auger, il basso di Andrew Minter sembra uscito fuori da una band beat post-Rubber Soul, il ritmo garage alla batteria di Wyatt Blair è il collante necessario per rendere il sound di questa band davvero riconoscibile.

Fin qui mi sono limitato a riportarvi notizie dall’internet, ma cosa c’è di preciso nel finora unico album pubblicato dai Mr. Elevator & The Brain Hotel?

Intanto partiamo dal 7” uscito l’estate scorsa, “Are You Hypnotize?”, citazione poco velata al mitico album di Jimi Hendrix, eppure l’unica cosa che hanno in comune è il rifarsi a quel periodo storico piuttosto che al suo rock, perché la roba che sgorga fuori dalle casse è puro garage rock, non quello rivisitato contemporaneo (Thee Oh Sees) ma una vera e propria ripresa degli stilemi classici del genere. 

Certo, la coda della title track di questo breve lavoro lascia intendere una ricerca, una sorta di sperimentazione sul modello dei sixties, mentre Dreamer e acido garage rock con un pizzico di indie. Tutto sommato una presentazione mediocre.

Ad ottobre la Burger Records rilascia il loro album d’esordio, questo “Nico & Her Psychedelic Subconscious”che è almeno due passi avanti i primi due singoli estivi, fra l’altro non presenti dell’album. Subito lanciatissimo il trio psych garage si ritrova in poco tempo ad essere l’headliner di numerosi festival e parte in giro per l’America per far impazzire folle di nuovi e vecchi garagisti e qualche bluesman (proprio ieri hanno suonato in compagnia dei Howlin Rain).

Già rinvangare una figura mitologica come Nico (per molti al pari di un Unicorno su un tappeto volante) è un ottimo modo per ricevere attenzione, ma qui non siamo mica dalle parti della Nico razionale alla “Desert Shore”, ma come ci suggeriscono questi tre californiani siamo nell’inconscio, nell’irrazionalità, nella follia colorata degli anni ’60 che una figura pop come Nico rappresenta.

La corsa spericolata di My Purple i, quell’attacco acido alla Manzarek di Mermaid Song, quel giro rubato al primo Santana di Right Where You Ought To Be (che si trasforma presto in una cantilena psichedelica filo-barrettiana), fino ad una classica Don’t Hold Back.

Parte di corsa anche Infinity, per poi perdersi in un sogno sempre più vicino a Syd Barrett che a Nico.

Diciamo che gli acuti di questo album sono nella breve e acidissima jam Grape Jelly, dove probabilmente sono racchiusi tutti gli elementi che rendono questo album decisamente intrigante. Ascoltatela su Bandcamp, così potete decidere se proseguire o saltare a piè pari questa band. Mentre i primi due pezzi d’apertura sono da antologia, Nico mescola sapientemente Doors, Question Mark & The Mysterians, The Music Machine e altro, riuscendo comunque a possedere un sound personale e riconoscibile! Lo stesso vale per la coda dove si sviluppa la caoticità dell’inconscio (& Her Psychedelic Subconscious).

Un album da avere assolutamente per chi adora questo genere di revival maturi e decisamente non retorici, Thomas Dolas sarà di certo uno dei protagonisti assoluti di questa nuova scena californiana. 

  • Lo Consiglio: ai garagisti di vecchio e nuovo corso, inoltre a tutti quelli che il rock di una volta dona sempre emozioni nuove.
  • Lo Sconsiglio: se credi che Ray Manzarek sia un musicista sopravvalutato allora è meglio che lasci perdere.
  • Link Utili: cliccate QUI per la pagina bandcamp della band e ascoltare l’album, mentre QUI per la pagina Facebook, se volete farvi un giro tra le ottime proposte della Burger Records invece cliccate QUI.

E ora, come al solito, qualche video:

Acida live con punte indie nel mitico Jam In The Van:

Ecco, sempre nel Jam In The Van, la psichedelica esecuzione di Nico and Her Psychedelic Subconscious:

Beh, dato che li ho citati…