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Sul perché i Queen fanno cagare. Un’indagine su ciò che ai critici non piace

Had to make do with a worn out rock and roll scene
The old bop is gettin’ tired need a rest
Well you know what I mean
Fifty eight that was great
But it’s over now and That’s all
Somethin’ harder’s coming up
Gonna really knock a hole in the wall
Gonna hit ya grab you hard
Make you feel ten feet tall
Queen, Modern Times Rock ’n’ Roll, 1973

L’approdo dei Queen sulla scena rock britannica non fu dei di più dirompenti. Persino Brian May, chitarrista e principale compositore della band, era un po’ amareggiato dal risultato, considerando le promesse che veleggiavano intorno alla band. L’album d’esordio contiene giusto un paio di hit (Keep Yourself Alive e Seven Seas of Rhye) ma alla critica suona come decisamente troppo derivativo, crasi confusa dei maggiori successi di classifica tra il 1971 e il 1973. Certo, oggi ci ricordiamo esclusivamente delle belle recensioni che li proiettavano come i “nuovi Led Zeppelin”, ma nell’ambiente non erano proprio tutti d’accordo sulla faccenda. Messo sul piatto sembrava che Steely Dan e Mott the Hoople si fossero messi d’accordo per una jam session dove a discapito degli elementi che li caratterizzano, restava solo il testosterone in primissimo piano. Questo si declinava attraverso un patinato glitter-rock alla Slade, disciolto nel pop smielato e stratificato di band come Raspberries e 10cc, senza rinnegare del tutto la lunga gavetta prog sulla scia degli Yes, un bel miscuglio di cose che sicuramente esprimevano una certa ambizione, ma dal quale non si riusciva a comprendere in cosa consistesse la supposta originalità della band. Nel pieno dell’estate del 1973, mentre a Belfast la tensione era alle stelle e alla TV si seguiva la cronaca del rapimento del nipote di Paul Getty, nessuno sano di mente avrebbe scommesso che quell’accozzaglia di generi stereotipati dal buffo nome di “Regina” in pochi anni avrebbe raggiunto un successo planetario, raccogliendo centinaia di milioni di fan ai loro concerti, conquistando una popolarità inaudita e che infine sarebbe stata assunta a divinità pop leggendaria. Ma se la critica rock ha spesso rivalutato artisti che aveva inizialmente giudicato negativamente (come nel celebre caso Rolling Stone-Led Zeppelin o quello Lester Bangs-Stooges) con i Queen non è proprio andata così, all’inizio infatti c’era sincera curiosità quando non proprio dell’entusiasmo, calato all’improvviso con l’affacciarsi dei primi successi planetari. 

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Billy Squier – Don’t Say No

billy-squier 2

Ho sempre pensato che se avessi bruciato il vinile di “Don’t Say No” di Billy Squier, una qualche divinità benevola mi avrebbe fornito una devastante spada di fuoco, con la quale avrei posto fine al male assoluto (quindi a MTV). Ed invece fece solo una gran puzza, sciogliendosi e contorcendosi nella fiamma, evaporando e innalzando notevolmente la soglia dell’inquinamento in Toscana.

Al pensiero che il mondo sia pieno di zombi che adorano questo pimpato “virtuoso” della chitarra mi verrebbe voglia di fare come il vecchio di The Strain e decapitarli tutti. Ed invece, come dico sempre, la colpa della musica di merda non è mai dell’ascoltatore, lui è libero di ascoltare quello che gli pare senza che nessuno gli rompa i coglioni, la colpa semmai è dei  musicisti che la producono, anzi: che la defecano questa musica da quattro soldi, a loro bisogna fargli le scarpe. È un dovere morale.

Billy Squier s’innamora della chitarra tramite gli assoli di Jimmi Page e Eric Clapton. Agli inizi della sua carriera, ancora giovanissimo, farà da spalla ai Kiss, ai Queen e ai Def Leppard. Praticamente lo aveva scritto nel DNA che avrebbe creato alcuni dei più brutti album della storia del rock.

Dei Zeppelin ha la spocchia, dei Kiss l’abilità (nel fare soldi) dei Queen la tamarraggine spropositata.

Dopo che si era fatto un nome prestando a destra e manca le sue innate abilità nello stuprare le cinque corde, la Capitol, che negli anni ottanta ci ha fornito quasi in esclusiva tutti i peggiori album della storia, gli produce l’inascoltabile esordio “The Tale of the Tape” nel 1980, ma fu nell’anno successivo che Squier produsse il suo più grande successo: “Don’t Say No”.

Sui testi  di questo album sorvoliamo perché nel rock, lo sappiamo bene, non è proprio l’aspetto che di solito eccelle, se poi parliamo di hard rock c’è solo da piangere.

La fatica che provai ascoltandolo tutto è incomparabile, ogni tanto mi ritrovai ad alzare la puntina per respirare.

Già da In The Dark, pezzo d’apertura e primo singolo uscito per sponsorizzare questo abominio, ci sono tutti i punti di forza di Squier: la voce da rocker anni ’70, bello virile finché non tira qualche falsetto di improvvida femminilità, e ovviamente la sua chitarra protagonista di tremende incursioni del tutto decorative per dare sostanza al pezzo, buttate lì per stupire il chitarrista brufoloso in ascolto. La tastiera suonata da Alan St. John sembra uscita da qualche videogioco degli anni ’90, il finale con quei coretti «ah-ah-ah» fanno presagire ad una svolta disco di Squier. Billy Squier & The Sunshine Band. Non suona male. Cioè, suonerebbe comunque malissimo, ma vabbè.

Il vero pezzo forte arriva subito dopo. The Stroke. Vi sfido a trovare qualcosa di più tamarro di The Stroke, qualcosa di più deprimente nella storia dell’hard rock o di MTV. Cosa dovrebbe esprimere la musica di Squier? Rabbia? Protesta? Divertimento? Ansia? Indigestione? A me sembra qualcosa di pensato per i corridori, o per quelli che si allenano in palestra sei giorni alla settimana e il settimo lo lasciano per gli steroidi. Un rock muscolare, un cock-rock tutto bicipiti e quadricipiti.

Probabilmente non c’è modo migliore contestualizzare The Stroke come in questo geniale film del 2007, Blade of Glory:

Segue una imbarazzante My Kinda Lover, un ponte ideale tra Queen e Danko Jones, anche se perlomeno Jones ci mette dell’ironia (e così si salva la faccia), invece Billy ci crede davvero cazzo, eccome se ci crede.

Quando sfuma My Kinda Lover comincia, con il ritmo serrato di Bobby Chouinard alle pelli, You Know What I Like, anche qui il testosterone è così alto che ti crescono i baffi mente ascolti la voce di Squier, i lancinanti lacchezzi alla tastiera di St. John invece sono solo da galera. Il pezzo, inoltre, sfuma proprio nel momento culminante, lasciando il dubbio che fosse una scelta di sintesi stilistica o una semplice dimenticanza.

Ed eccoci a Too Daze Gone, con un attacco che avrà fatto piangere sangue ai Little Feat, infatti gli sprazzi di southern rock sono al servizio dell’onanismo selvaggio di questo album, una volta finito di ascoltarlo tutto probabilmente non potrai fare a meno di bere birra, scorreggiare ed insultare le donne perché osano essere donne.

Altro singolo di successo, l’atroce Lonely Is The Night, il riff tamarro alla Brian May, l’ambiguo romanticismo di Billy Squier ricorda nei suoi momenti migliori le dolci ballad di Charles Manson.

Si sente eccome Jimmi Page negli slide di Wadda You Want From Me, mentre St. John campiona qualche suono da Space Invaders o qualcosa del genere. Roba per palati fini.

Di solito a metà di Wadda You Want From Me staccavo la spina e mi sparavo gli Who, ma per fare la recensione ho ascoltato anche il resto. Che perle mi stavo perdendo.

Che dire di Nobody Knows? Neanche il più ispirato Barry Manilow poteva tirare fuori un’oscenità del genere, forse la peggior ballad che abbia mai sentito insieme a Haunted dei Deep Purple . Se per caso un giorno decidessi di scrivere una canzone del genere credo che di colpo perderei la ragazza, gli amici, l’anima, ma non i baffi.

I Need You, invece, sembra scritta da un quattordicenne in fissa con i Hanson. Si conclude alla grande con la title track (che inizia con uno sfumato in entrata… sul serio… cristo…) la quale penso rientri ad una buona posizione tra i cento pezzi più inascoltabili della storia del rock.

La cosa bella è che non solo Squier visse un periodo di successo incredibile (se lo hanno avuto anche gli Wham! lo possono avere tutti) ma la cosa curiosa è che questo finì non perché la gente si accorse che la sua musica faceva cagare, ma a causa di un video musicale!

Non la sapete? Nel 1984 era appena nata MTV e mandavano a rotazione merda (così piccola eppure già con le idee chiare!). Niente di nuovo sotto il sole, ok, ma tra tutta questa merda c’era pure un singolo di Billy, preso dal suo nuovo folgorante successo in vinile: “Signs of Life”, già segnato fin dalla nascita da una copertina abominevole. Il pezzo in questione è Rock Me Tonite, il quale sebbene fosse impreziosito dalla produzione di Jim Steinman e dalle coreografie (vomitevoli) di Kenny Ortega, fu un successo clamoroso solo per le classifiche di Billboard, mentre il pubblico che adorava Billy da Rock Me Tonite in poi volterà le spalle al loro idolo perché (attenzione attenzione!) il video gli faceva cagare

Ed ecco come la musica vuota ed insignificante di Squier appena non riesce a vendersi con un giusto mix di pubblicità e immagine macho decade nelle fogne dalla quale è sortita.

Il video l’ho visto, è abbastanza brutto e quindi ve lo consiglio:

Va anche detto che il pubblico americano è fortunato, crede che quello di Squier sia uno dei peggiori videoclip della storia, ma evidentemente non ha mai visto questi tre:

[Se volete saperne di più non avete che da cliccare QUI a vostro rischio e pericolo.]

Spero che a nessuno di voi capiti mai l’orrore di possedere uno degli album di Billy Squier, ma se vi piacciono sul serio sappiate che il cadavere di Dee Dee Ramone si sta scopando vostra madre.

Rock Tamarro (2)

Ritorna la vostra rubrica preferita, pervertiti! Voi che in una mano stringete “Burnt Weeny Sandwich” di Frank Zappa e nell’altra (quella zozza, la mascalzona) “Bat Out Of Hell III: The Monster Is Loose” di Meat Loaf.

Abbiamo tutti nella nostra collezione di album un angolo oscuro, un cassettone che non viene mai aperto se non nella totale solitudine, indove alberga l’osceno e irrazionale piacere del MALE.

Sì perché il rock tamarro è il male, come avevamo già detto qualche post fa:

Il rock tamarro è quel rock che esaspera le sue caratteristiche fino a farlo diventare caricaturale.

Non fate finta di niente, sapete bene di cosa parlo. Oppure siete metallari, e allora non capite un cazzo.

Eccovi dunque una breve lista di nuove perle, anche se stavolta bisogna fare attenzione e non vomitare insulti senza ragionare un pochino prima. Sono presenti delle eccezioni, quindi leggete anche la descrizione e indignatevi se vi insultano la mamma, non il vostro clavicembalista preferito, OK?

Cominciamo.

Raramente ho odiato un paese, un popolo, per aver partorito un qualsiasi orrore nella storia. In fondo le colpe dei padri non possono e non devono ricadere sui figli. Però per i Sektor Gaza (Сектор Газа), non c’è scappatoia che tenga: i  russi la devono pagare, e la devono pagare cara.
Pretendo, quantomeno, una colletta per ripagarmi dei 9 euro e 99 centesimi che mi è costato questo disco posseduto dall’unico demone senza gusto musicale.

No.
No.
Non mi interessa.
Non accetto che esistano persone che non solo vanno ai concerti di Russ Ballard, ma si comprano i suoi album consapevoli e accondiscendenti. In confronto a lui anche Meat Loaf sembra modesto come Madre Teresa e pudico come Papa Francesco. Mescola tutto il peggio dell’hair metal, il rock commerciale anni ’80, ci mette Sammy Hagar, i Van Halen, qualcosa degli ultimi Queen, il tutto con quella presenza ingombrante nelle live di laser e fumogeni. Ogni suo concerto sembra un serata barbecue in casa Moroder.

Gli Atomic Rooster suonano da Dio. C’hanno i capelloni, sono anni ’70 fino alle unghie smaltate dei piedi, sono hard, sono prog, sono inglesi. Hanno più o meno tutto quello che non sopporto nel rock. Per questo sono un piacere perverso. Tamarro per loro non è una offesa, è uno stile di vita che va dagli assoli lunghi otto ore agli effetti psichedelici senza senso né motivo di esistere, dai riff che passano di cassa in cassa circondandoti neanche fossi un fuggitivo da cinque stelle a GTA. I loro album sono tutti grandiose esplosioni di tamarraggine senza freni né vergogna. Gli Utopia gli fanno la bustina del tè, se capite cosa intendo.

Io amo i Mountain. Sì, mi piace l’hard rock, pazienza, abbiamo tutti un male che alberga dentro, pensate che c’è chi ama i Radiohead. Però, cazzo, questa cover che cacchio ci sta a fare? Cover poi è una parola grossa, questo è un chiaro caso di tamarrazione di un pezzo rock, roba che anche i buoni Smithereens hanno onestamente provato più volte a fare, ma senza questi risultati devastanti. Quando ascolto questa tamarrazione sento i miei capelli allungarsi e arricciarsi, i peli sul petto brillano di luce propria e fuoriescono da una camicia di lino con fantasie degne delle copertine dei Grateful Dead, riesco solo a parlare di pace amore e canne, cazzo: io odio i Mountain.

Per avere questa leccornia dovete proprio essere dei fumati come me, perché non è nell’edizione normale del vinile, ma in quella limitata, che mi è costata più di quanto ammetterei mai. Folli, commerciali, vestiti come negli incubi di un Jim Henson in stato lisergico, i mitici Doctor and the Medics di “Laughing at the Pieces” (1986) sono il massimo ritrovato medico contro Tom Waits, Ty Segall, Ramones e quanto di buono esista su questa terra.

È il lato oscuro, avrete il coraggio di esplorarlo?