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Harsh Toke – Light Up and Live

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Credete che i festival come Coachella siano solo per fighette che si bagnano ad ogni uscita degli Arcade Fire? Quando pensate alla California invece delle belle spiagge e delle tette vi vengono in mente feedback lancinanti, molta birra e tante, tante belle tette? Beh in questo caso gli Harsh Toke sono la band che fa per voi.

Capitanati da due skater famosissimi in patria (c’è Justin “Figgy” Figueroa alla chitarra, al basso Richie Belton) gli Harsh Toke non si pongono di certo chissà quali seghe mentali, o rasponi materiali, quando si approcciano al rock, il loro sound è un mix decisamente riuscito di Hawkwind, Blue Cheer, prog classico e jam infernali, non lontani dai riff potenti e decisamente vintage dei Kadavar. Non è un caso se l’etichetta sia la stessa, questa Tee Pee Records, piccola e misconosciuta, ma con qualcosa da dire in mezzo a tutto questo revival ’60-’70 californiano.

Chiaramente parlare di revival per Thee Oh Sees, Ty Segall, White Fence, Kadavar, Blue Pills e via discorrendo è riduttivo (anche se in alcuni casi, come nei Blue Pills, è fin troppo esaustivo), ma non percepire Syd Barrett nei Thee Oh Sees significa esser sordi (mentre ridurli solo a quello significa esser scemi).

Cosa c’è da dire sulle quattro tracce che compongono “Light Up and Live”? Pochissimo.

Da un certo punto di vista la mancanza di un concetto alla base di questi album può far storcere il naso a qualcuno. Perché continuare con viaggi psichedelici nel 2014, sopratutto se privi di importanti novità? Beh, diciamo pure che qualche nota differente gli Harsh Toke ce la mettono in questo album. Intanto la struttura dei brani, fluida, ineluttabile, più che ricercare una perfezione (King Crimson) lascia scorrere le idee, tramortendo. Certamente è fluida anche la struttura di un “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, come di qualsiasi album degli Acid Mothers Temple, ma i giri di basso ammiccanti ai Black Sabbath, i riff che volano fino a perdersi nella stratosfera (i già citati Hawkwind), la grezzità del suono lontano dal perfezionismo tecnico tipico del prog fanno di “Light Up and Live” un ponte di contatto tra i rimandi agli Spacemen 3 negli Zig Zags e le violente derapate strumentali nei Thee Oh Sees (Lupine Dominus).

Rest in Prince e Weight of the Sun sono unite nella musica, ma la band di Figueroa non ci dà punti fermi o momenti di riflessione, preferisce frastornarci fino all’inverosimile. Ma il vero schiaffo arriva con la title track, dieci minuti che già a metà esplodono con una potenza devastante per poi prolungarsi fottendosene altamente della tensione, delle regole, del buon senso e della fruibilità, ma ha un motivo tutto questo o è della musica semplicemente senza idee?

Il senso c’è, ed è un po’ disperso in tutte le pubblicazione californiane (e quelle in linea col sound californiano) contemporanee, il bisogno di creare un muro che invece di dividere inglobi tutto. L’alienazione degli anni ’60 che si poteva provare negli Acid test (mentre i Grateful Dead stordivano folle di fumati) nasceva con premesse del tutto diverse da quella delle odierne furiose e psichedeliche sessioni di jam degli Harsh Toke, i muri che propongono le band di oggi essenzialmente sono espressione di un menefregismo generazionale devastante.

No brains inside of me, no brains inside of me ripetono con leggerezza i Thee Oh Sees in Maze Fancier, ed è quello che urlano anche Ty Segall, gli Zig Zags e questi Harsh Toke. La leggerezza non passa più dalle canzonette, dalla melodia (facile o complessa che sia), ma dalla alienazione da un mondo allo scatafascio per cause che non riusciamo a capire o che proprio non vogliamo capire, questa generazione, la mia generazione, definita senza valori né cervello né speranze trova la sua perfetta espressione musicale proprio in questo nuovo ambiente californiano. 

In certe declinazioni ci sono molte similitudini nel fenomeno italiano del momento, la Psichedelia Occulta, anche se con certe differenze che mi fanno preferire quest’ultima al rock californiano. La meravigliosa trasposizione del mercato di Porta Palazzo dei La Piramide di Sangue, che dalle impressioni di un album straordinario composto da numerosi artisti come “SUK Tapes and Sounds from Porta Palazzo”, tirano fuori un pezzo per il loro ultimo lavoro come Esoterica Porta Palazzo, dimostrando quanta profondità ci sia in questo movimento di cui molti parlano, ma che nessuno sembra voler criticare in modo più professionale e approfondito. Più simili al sound californiano ci sono gli In Zaire, per esempio.

Vabbè. come la solito perdo il filo del discorso e finisco a parlare d’altro, ci vuole pazienza…

Che dire, vi consiglio questi Harsh Toke, assieme al disco vi consiglio di sorseggiare della buona birra, se siete pigri come me e gli album ve li fate portare a casa allora vi consiglio (e tre) Beerkings per le birre, un sito allucinante che ho conosciuto da poco e che sto amando più della mia ragazza. Ci sono pure i voti e le recensioni delle birre, il che vi fa sembrare molto più raffinati di un drogato qualsiasi.

  • Lo Consiglio: a tutti quelli che “Doremi Fasol Latido” non fa per niente cagare, che adorano le jam infernali con chitarre scordate e la birra artigianale. O anche solo un lattina di Heineken.
  • Lo Sconsiglio: se siete dei progger convinti non è roba per voi, insomma in questo blog i Dream Theater non erano buoni prima e ora fanno schifo, son sempre stati una merda masturbatoria. 
  • Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp degli Harsh Toke con due jam da 21 minuti ciascuna (!), cliccate invece QUI per il sito della Tee Pee Records, se volete godere delle splendide sensazioni di Esoterica Porta Palazzo allora cliccate QUI

E ora qualche video:

una devastante live dei Toke

qui con Lenny Kaye (!!!) che suonano Gloria (!!!)

e infine qualche allucinante lacchezzo con lo skate di Figueroa

 

Blues Magoos – Psychedelic Lollipop

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I Blues Magoos sono uno dei gruppi (nel bene e nel male) imprescindibili nella storia del rock.

Intanto il loro sound, quell’acid-blues in tinta psichedelica, stupisce ancora oggi per la sua straordinaria maturità (e “commerciabilità”). Se consideriamo band precedenti come gli Electric Prunes o i Chocolate Watchband (che fino al ’67 non pubblicheranno niente) già in “Psychedelic Lollipop”, album d’esordio dei Blues Magoos targato 1966, c’è così tanta consapevolezza psichedelica (concentrata in pochi minuti) da incantare.

Meno estremi dei 13th Floor Elevators, sicuramente meno politici dei Country Joe and the Fish, i Blues erano il risultato della fusione che stava avendo atto a New York, in particolare nel quartiere beat per eccellenza: il Greenwich Village.

Se da una parte c’era il sound garage graffiante e rivoluzionario dei Sonics, dei Kingsmen e altre band giovanili, il Greenwich a metà degli anni ’60 era concentrato a seguire le dispute politiche a suon di mazzate folk tra Phil Ochs, Bob Dylan e Joan Baez. Queste due tendenze opposte trovarono una specie di compromesso nel folk-rock che sorgeva nella grande San Francisco, futura sede delle serate allucinogene che in seguito conquisteranno l’America.

Ecco dunque i Blues Magoos, una band che nasce in un ambiente molto lontano da quello psichedelico californiano, ma che saprà trarre dagli input che li circondava il primo vero successo dell’era psichedelica.

Il fatto che i Magoos siano, per quanto mi riguarda, così fondamentali per comprendere la storia del rock sta proprio nel sound di “Psychedelic Lollipop”, un’avanguardia che senza essere sperimentale ebbe un successo incredibile per l’epoca, e che di fatto aprì le porte alle centinaia di band psichedeliche che sopraggiungessero da lì a pochi mesi.

Se i 13th Floor Elevators sono stati rivalutati a posteriori ovvero quando il primo movimento psichedelico si spense (per evolversi in altro), i Blues Magoos ebbero un effetto immediato che scosse il mondo del rock come pochi altri.

Un errore piuttosto comune è quello di categorizzare la band sull’onda garage, il che a mio avviso è impreciso. Certamente i Blues derivano ANCHE dal garage, ma è quella magica combinazione che scaturisce dal contesto musicale multiforme del Greenwich Village che identifica il loro rock, il quale farà da base a band come Jefferson Airplane e Grateful Dead. Inutile cercargli una targhetta identificativa del cazzo tipo: folk-psychedelic-blues-garage-rock, sarebbe solo uno dei tanti modi per rendere ancora più ridicola la critica rock di quanto già è.

Se c’è una critica reale da muovere verso i Blues, ed è una macchia indelebile, è quella sui contenuti, praticamente inesistenti, che per fortuna verrà presto smacchiata dal resto del movimento psichedelico. È importante leggere con alto tasso critico questa band, perché se la psichedelia viene sdoganata musicalmente con “Psychedelic Lollipop” lo stesso non si può dire per l’aspetto culturale, che si farà breccia con una certa difficoltà nell’America puritana e che esploderà definitivamente grazie ad altre band.

Sempre su questi termini c’è anche da valutare l’immagine dei Blues Magoos, costruita artificialmente con una astuta operazione di marketing, che una volta esaurita la sua carica iniziale soccomberà inevitabilmente nei confronti di chi oltre l’immagine aveva anche dei contenuti.

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L’album si apre con la splendida (We Ain’t Got) Nothin’ Yet, l’allucinato organo elettrico suonato da Ralph Scala ricorda i momenti felici dei Question Mark & The Mysterians, ma siamo già qualche passo avanti nella composizione. Uno dei pezzi garage più pregiati dell’epoca, premiato con un simpatico plagio da parte dei Deep Purple.

Segue una ballad, uno di quei momenti in cui di solito dormo, Love Seems Doomed (ovviamente classica citazione subliminale di “LSD”) ha però alcuni interventi elettronici che impreziosiscono l’ambiente sonoro.

Visto che di blues questi ragazzi ne masticavano non poteva mancare una cover del grande John D. Loudermilk, la sua famosa e ritmica Tobacco Road parte con un blues infernale per poi trasformarsi in una corsa blues-rock, ed infine esplodere in una cacofonia psichedelica che assale l’ascoltatore del 1966 come una bomba atomica esplosa dritta dritta nel cervello. Pochissimi avevano ascoltato ed apprezzato i Red Crayola, forse anche meno i The 13th Floor Elevators, ma a tanti si aprirono le porte della psichedelia grazie ai quattro minuti e mezzo di Tobacco Road.

Ecco il Greenwich Village con la cover di Queen Of My Night di David Blue. Un basso suadente, una voce da juke-box e l’organo allucinato di Scala completano una hit dal sapore antico.

Il lato A si conclude con una grandissima cover: I’ll Go Crazy, del maestro James Brown, che in mano a questi ragazzini diventa un pezzo garage sporco e sudicio alla The Music Machine, piccolo colpo di genio da poco più di un minuto.

Si riprende l’ascolto con un’altra cover, Gotta Get Away anticipa per certi versi il sound dei primi Small Faces, garage ancora una volta, filtrato dal blues e dalla vena beat (intuibile dal testo) del Greenwich. Grandissimo pezzo.

Portentosa Sometimes I Think About, un lento blues strutturato come i migliori pezzi blues rock che in pochi anni verranno allungati nelle live per delle ore, un prototipo questa Sometimes impreziosita dai soliti interventi all’organo di Scala.

One By One si rifà ad una tradizione brit-pop da singoli alla radio, poca roba.

Si torna al blues con Worried Life Blues, bell’attacco con l’organo e la chitarra che fraseggiano sul morbido blues di Big Maceo Merriweather. Ogni tanto il ritmo viene spezzato da delle sferzate garage che durano troppo poco per essere apprezzate a pieno.

Si conclude il giro con She’s Coming Home, un ultima cover non più blues, un veloce pezzo garage rock che però suona un po’ studiato, ma comunque di pregio.

“Psychedelic Lollipop”, se escludiamo il titolo, ha dato poco tecnicamente alla psichedelia, ma è stato l’album che l’ha sdoganata dal suo piccolo giro facendola diventare il principale fenomeno culturale della seconda metà degli anni ’60.

Per il resto i Blues Magoos non riusciranno più a piazzare un colpo come questo, abbastanza credibile il secondo album “Electric Comic Book” (1967) ignobili i successivi.

  • Pro: un album che ha fatto la storia.
  • Contro: se escludiamo due o tre pezzi potete benissimo viverci senza.
  • Pezzo consigliato: la straordinaria cover di Tobacco Road.
  • Voto: 7/10

Pink Floyd, la discografia (parte prima)

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Questo speciale sulla discografia dei Pink Floyd [diviso in tre parti, questa, quella e quell’altra] lo faccio per allontanarmi ufficialmente da due categorie di pensiero sulla band:

  •  la prima è quella per cui The Piper at the Gates of Dawn” è l’unico disco decente della loro discografia, per me non è così, anche se lo ritengo il migliore (tranquilli, spiego anche il perché);
  •  la seconda categoria è quella per la quale qualsiasi cosa abbiano prodotto i Pink Floyd, dagli album alle raccolte, dai singoli ritrovati ai bootleg, fino ai dischi solisti  dei componenti della band è oro colato, dannato oro colato. O comunque meglio di tanta altra roba a-prescindere;

I Pink Floyd sono stati la terza band rock che ho conosciuto, subito dopo Genesis e Led Zeppelin, non c’è dubbio che esista un legame affettivo tra me e il gruppo, non lo nego né tanto meno cercherò di negarlo proponendovi una visione oggettiva della loro discografia, le mie opinioni sugli album sono un miscuglio che va dall’ascolto giovanile e passivo fino alla riflessione storico-contestuale, senza dilungarsi troppo e senza alcun punto di riferimento se non la mia esperienza.

Non parlo quasi mai delle band fuori dal contesto degli album prodotti, non mi interessa, ho letto biografie di molti gruppi e anche dei Pink Floyd, ma non le ritengo quasi mai rilevanti a meno che non ci sia una diretta correlazione tra il prodotto finale e la percezione dell’ascoltatore (badate bene: non dell’autore ma dell’ascoltatore).

Possiamo cominciare?
Bene.

Piuttosto celebri i primi passi dei Floyd, spesso ci si dimentica come la band non soffrì mai così tanto la fame come qualcuno dice, infatti già con i primi singoli da Arnold Lane/Candy and Currant Bun fino anche ai meno celebri Apple and Oranges e Julia Dream riscuoteranno subito un buon successo. Il pubblico che accoglierà i Pink Floyd di stampo fortemente “barrettiano” è un pubblico ormai ben allenato alla psichedelia (quasi sempre legata al garage almeno in America), in fondo anche Fresh Garbage degli Spirit era un hit, i ragazzi ascoltavano i The Leaves, i Canned Heat, il grandissimo Tim Buckley, i The Move, i Jefferson Airplane e duemila altre band che non mi metto qui a elencare.

Quindi il sound dei Floyd non era ostico per niente alle orecchie europee e statunitensi, in particolare per essere una band psichedelica i Pink Floyd non tratteranno mai male l’ascoltatore e quasi mai lo porteranno ai limiti della sopportazione, anche nelle sperimentazioni più “estreme” i Pink Floyd resteranno sempre ben aggrappati a dei canoni estetici e comunicativi universali.

La forza carismatica di Barrett dettava legge nella band, la sua creatività esplosiva lo poneva inevitabilmente al di sopra degli altri membri. Probabilmente Syd Barrett è stato uno dei musicisti più influenti di tutta la storia del rock, e la portata di questa influenza non è ancora stata ancora stimata con precisione.

Anche singoli come It Would Be So Nice di Richard Wright soffrono fortemente l’ascendente musicale di Barrett, si salva proprio il b-side di questo singolo, ovvero Julia Dream di Roger Waters, non così tanto forse, ma di certo se c’era una personalità che voleva spiccare nella composizione di singoli appetibili (non facendo carta carbone di Barrett) quello era Waters.

I Floyd si fanno strada nei locali più “in” del momento, la psichedelia in quegli anni sta già perdendo la sua carica rivoluzionaria iniziale per diventare un divertissement per la medio-borghesia, la gente leggeva Burroughs, Kerouac e Bukowski, ma pochi ne assimilavano il contenuto, stava nascendo una moda.

PINK FLOYD - THE PIPER AT THE GATES OF DAWN A

Nel 1967 esce “The Piper at the Gates of Dawn”, con molta probabilità il più grande album psichedelico di tutti i tempi, e anche quello che ne decretò la fine come genere (nella sua accezione classica, of course), inoltre è uno degli album più seminali di sempre e che ancora oggi ha delle influenze gigantesche (Thee Oh Sees, White Fence, Jacco Gardner, Jeffrey Novak, solo per citarne alcuni dei giorni nostri).

Piper è una raccolta incredibile di idee e intenzioni, da una parte Barrett che vorrebbe diventare come Jimi Hendrix, dall’altra lo stesso Barrett che al massimo è l’incubo folle di Jimi (mettete in confronto Interstellar Overdrive a Uranus Rock, Syd è chiaramente contemplativo e introspettivo, Jimi estroverso e manierista). Distorto, confuso, allegro e irriverente, sono pochi gli aggettivi che sfuggono alla penna del critico quando si ritrova di fronte ad un disco così complesso quanto elementare, così importante quanto incompreso.

Qui c’è la sintesi di tutto il movimento psichedelico, diluito in brevi pillole appetibili (anche commercialmente) dalla fulgida e insana mente di Syd Barrett. Il resto della band fa da comparsa se eliminiamo Take Up Thy Stethoscope and Walk, il singolo di Waters che musicalmente però non si discosta dal sound imposto da Barrett (e intavola già dal 1967 quel personaggio che Waters si porterà dietro di critico dell’umanità, impegnato a discostare l’uomo dalla scimmia, un ruolo che, a parer mio, non riuscirà mai a interpretare in modo credibile).

Astronomy Domine, l’attacco di Lucifer Sam (geniale la recente cover dei MGMT), il riff di Interstellar Overdrive, lo scampanellio delle biciclette di Bike (splendidamente coverizzata nel secondo album di Ty Segall), tutto in Piper è passato alla leggenda. L’unico brano ereditato dai singoli è The Scarecrow (uscito quello stesso anno assieme alla celebre See Emily Play) per il resto Barrett dimostra la sua infinita capacità creativa, un genio incredibile.

Peccato che Barrett decise di bruciarsi il cervello, dimostrando ancora una volta che anche un genio può essere un perfetto idiota. In fondo anche un visionario come Kubrick disse che Spielberg è un grande regista, e lo disse da sobrio, dunque a posteriori possiamo dire che al buon Barrett non è andata poi così male.

Il successo di singoli come Interstellar Overdrive inizieranno i Floyd ad una carriera non proprio qualitativamente altissima nel cinema (diciamo pure merdosa, dai). La traccia sarà difatti utilizzata per “Tonite Lets All Make Love In London” di Peter Whitehead, un regista mediocre noto soltanto per aver registrato molte band rock agli esordi, lo si ricorda perlopiù per il precedente “London ’6667” che raccoglie due registrazioni dei Pink Floyd e qualche intervista. Secondo Wikipedia Whitehead è considerabile come un precursore del video-clip, ma è solo una delle tante voci imbarazzanti di Wikipedia, nulla più.

Nessun album dei Pink Floyd intaccherà in modo così profondo la musica rock, per quanto le vendite siano propense a farci credere che con “The Dark Side Of The Moon” e “The Wall” i Floyd abbiano espresso il loro meglio, il che non è improbabile almeno se consideriamo l’uscita di Barrett e l’inevitabile avvicendamento di Waters come la creazione di un’altra band diversa dalla prima, Piper è una pietra miliare che la musicologia deve prendere in considerazione in modo più serio e analitico, un monumento dalle proporzioni colossali.

L’attività dei Floyd tra il ’67 e il ’69 è frenetica, il che quasi sempre presuppone un notevole calo della qualità, eppure questi tizi riusciranno a produrre comunque qualcosa di interessante.

Senza il genio folle di Barrett i Floyd rischiano seriamente di diventare una copia edulcorata di Arthur Brown o dei The Move, ma si salvano grazie ad una serie di scelte dettate dal caso e dal cinismo di Waters.

Gilmour arriva per rattoppare i vuoti lasciati da Syd e porta un sound nella chitarra che pian piano verrà fuori e resterà nell’immaginario collettivo fino ad oggi. Una tecnica pulita, un suono sempre riconoscibile. Peccato che non valga un laccio di Barrett in quanto composizione, non è un caso se con l’insuccesso di Point Me at the Sky Waters deciderà conclusa l’esperienza dei singoli (sapendo bene di non poter più contare sulle idee geniali ma appetibili commercialmente di Barrett) e si concentrerà sugli album e sul donare un sound ben preciso alla band. Il suo.

Nel ’68 ci riprovano con il cinema, scrivendo qualche pezzo mediocre per il tragico “The Committee”, una merda allucinante del prode Peter Sykes, conosciuto dagli studenti del DAMS e dai nerd per aver dato vita al mitico serial “The Avengers”, un divertente serial inglese che seguiva la moda cinematografica del momento delle spy-story e si basava sui feuilleton a tinte poliziesche e pieni di figa.

Dopo questa indecente prova si rifaranno con “A Saucerful of Secrets”.

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Il disco è una pietra miliare della band, un po’ meno del rock. Perché dico questo? Waters prende le redini della band e la trasporta verso dei lidi pericolosi, dalla psichedelia di stampo garage si passa al prog inglese, ma sopratutto mette giù le basi per un sound talmente particolare da essere unico.

Se da una parte il sound inimitabile dei Floyd è una caratteristica che esalta i fan, dall’altra rende inattaccabili i suoi detrattori, i quali quelle sonorità proprio non riescono a mandarle giù. Forse il problema dei Pink Floyd di Roger Waters è quel lavoro da equilibrista che non porterà mai la band alla sperimentazione estrema come invece poteva sembrare con “A Saucerful of Secrets” e con “Ummagumma” dell’anno successivo, e neanche ad un tentativo di fare genere (tranne che per il caso “The Wall”).

Quindi sebbene Saucerful non sia una pietra miliare del rock (per quanto riguarda la composizione e la portata innovativa – che è di fatto nulla) è un disco abbastanza della Madonna. Bisogna chiaramente apprezzare il sound della band, ma questo vale per tutti i gruppi con un sound così “personale”, unito al fatto di avere a cuore il prog.

Saucerful è dannatamente prog, un prog che si muove in termini quasi mai seri o puramente tecnici, ci sono molti rimandi ancora alla psichedelia americana, e Barrett incombe sulla band come un fantasma che li tiene tutti per le palle (Jugband Blues). Per quanto mi piaccia questo album alla lunga stanca, spesso le idee buone vengono ripetute fino alla nausea, ma alcuni spunti sono indimenticabili.

L’atmosfera generale dell’album si percepisce da due tracce potenti e epiche sotto molti aspetti: Let There Be More Light e Set the control for the Heart of the Sun. Riff ripetuti all’infinito aleggiano nell’aria e scandiscono il tempo come in un rituale sacro, nel mezzo un mucchio di idee non sempre attinenti, ma ben costruite e sopratutto ben realizzate dal punto di vista dell’ingegneria del suono.

Ed ecco quindi comparire fin da subito un altro caposaldo che caratterizzerà la band in tutti i suoi album successivi, e in particolar modo da “Atom Heart Mother” in poi, ovvero la cura maniacale del suono dal punto di vista prettamente ingegneristico. Una carta che i Floyd sapranno giocare bene sempre dal 1970 in poi.

Detto questo Saucerful è stato molto rivalutato recentemente come album, forse anche troppo, in particolare considerando il brio del primo album, qui del tutto sparito.

Nel ’69 Barrett si ripresenta con l’uscita del singolo Octopus/Golden Hair, un prologo di quel che sarà “The Madcap Laughs”, il suo primo album solista del 1970.

Di “The Madcap Laughs” ci sarebbe molto da dire, ma se mi prolungassi per ogni album sarebbe un post ancora più tremendo di quanto già è. Delle sessioni di registrazione di questo incredibile disco si è parlato fin troppo, tanti ancora però non ascoltano con attenzione questo lavoro, come anche il successivo “Barrett” uscito qualche mese dopo (e con qualche acciacco in più).

Dalle leggende che lessi su quelle sessioni notai perlopiù due cose: la fragile e inconsistente personalità di Gilmour, quasi intimorito da Barrett, e la totale follia di Wyatt nel vedere in Barrett qualcosa che in realtà non c’era già più.

Il disco è ovviamente geniale, ben diverso dalle sonorità di Piper, maturato non direi, piuttosto Barrett si è dato ad altro continuando a sfornare singoli straordinari per ecletticità e commerciabilità (Terrapin, Love You, Here I Go, Octopus, Long Gone, She Took A Long Cold Look). Quello che si evince accostando il Barrett del dopo-Piper e il resto dei Floyd è che sebbene nella totale pazzia che stava divorando Syd in quegli anni era lui quello ad avere le idee chiare, al contrario del resto della band, la quale era alla disperata ricerca di singoli “alla Barrett”. Sarà la progressiva presa di posizione di Waters a salvare i Pink Floyd da un lento ma chiarissimo declino (almeno per i critici e per gli ascoltatori dell’epoca). Per lui sarà facile superare la passività di Gilmour, la timidezza di Wright e l’indifferenza di Mason per poter imporre la sua idea su cosa dovessero essere i Pink Floyd.

Le sonorità di Madcap derivano da tutto quello che Barrett ascoltava, dai Nice ai Soft Machine, ma sintetizzato dalla sua personalissima visione. Wyatt vedeva in Barrett un genio avveniristico, cosa che Barrett è stato finché la droga non gli ha bruciato il cervello. Ora era solo un genio sregolato, ma che da solo, senza cioè l’aiuto di altri musicisti e di amici, non avrebbe potuto fare molto.

Barrett” è l’ennesima (e ultima) prova di quanto detto: un genio unico, un fenomeno irripetibile, ma la sua portata è stata irrimediabilmente bruciata da una emotività prepotente che lo rese troppo fragile per questo mondo.

Lontano dalla pochezza della critica sociale di Waters (nulla in confronto ad altri musicisti coevi del bassista dei Pink Floyd), Barrett viveva in un mondo tutto suo, magnifico e terribile, fantasioso quanto tragicamente reale.

Quando a Lucca, al Summer Festival del 2006, Waters (per l’occasione accompagnato anche da Mason, me lo ricordo bene dato che c’ero anche io) dedicò la prima parte del concerto a Barrett deceduto il giorno prima, avevo sedici anni, e per quando idiota già lo fossi sapevo comunque bene che Barrett non avrebbe mai potuto fare altro ormai, dato il suo stato mentale e fisico, eppure mi sentì molto triste. Mi resi conto che un’epoca intera era stata spazzata via, e che quel concerto altro non era che un rituale pagano per ricordare quello che fu, come più o meno tutti i concerti dei sopravvissuti a quegli anni di sesso, droga e non sempre rock and roll.

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