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Podcast – Puntata commemorativa per Francesco Mealli

Questo podcast è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto, ma non è né un piagnisteo né una cazzata, è una cosa che io e Lorenzo sentivamo di fare e che avrà un seguito molto particolare Martedì 4 alle 21:30 su RadioValdarno. Non voglio aggiungere altro. Buon ascolto.

Sonics – This Is the Sonics

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Su Metacritic viaggia sul 8/10, su Pitchfork gli assestano un bel 7 e mezzo, Distorsioni si sbilancia con un 8 netto, Ondarock rimane sul 7 come anche Storia della Musica, solo PopMatters si permette un misero 6. Io ho tolto i voti sul blog, ma per questa occasione voglio sbilanciarmi, perché si parla di una band che conosco bene e di cui ho amato oltremisura l’esordio del 1965, un capolavoro senza tempo. Ecco, per me “This Is the Sonics  dei leggendari Sonics vale un bel 3/10. Bello pieno.

Poco più di una ridicola messa in scena per arrotondare il portafoglio, uno schiaffo in faccia alle origini garage di una band che rappresentò assieme ai Monks un vero e proprio baluardo contro le melodie facilone del Merseybeat. Sporchi, osceni, proto-punk, garage, quello che invece traspare da questa terza “fatica” dei Sonics è la necessita per Gerry Roslie di comprarsi un nuovo set di giacche di pelle.

Come sempre la stampa e i recensori sul web si piegano in due per i loro beniamini, non-ascoltando o ascoltando con una soglia critica sotto i piedi. I Sonics da anni sono tornati a giro, o almeno tre di loro, girando per i festival in tutto il mondo, e abbiamo potuto ben ammirare l’incapacità della band di azzeccare un attacco e di Roslie di urlare come un tempo, macchiette di se stessi, ma comunque divertenti.

Però un album, quello, si deve giudicare, e lo si fa contestualizzandolo come cristo si deve. Secondo Richard Giraldi nella sua disamina su PopMatter, Bad Betty è un pezzo che può benissimo rivaleggiare con The Witch e Strychnine. Due cose: Bad Betty non avrà nemmeno un 1 millesimo dell’influenza di quei pezzi che hanno fatto la storia del garage e del punk, coverizzati per cinquant’anni senza perdere mai la freschezza e la potenza originarie. Seconda cosa, se fosse uscito come pezzo originale nel primo album del ’65 farebbe comunque cagare, è persino meglio Pop Song di Segall e Cronin come garage rock.

Addirittura per Gianfranco Callieri (Buscadero) «è il disco più cattivo, feroce e dinamitardo che possiate sentire nel 2015 (dettaglio  forse, data l’imbarazzante piattezza di tanti lavori in teoria «urticanti», «selvaggi», «annichilenti» etc. etc., non così sorprendente)» ti sono sfuggiti giusto un paio d’album Callieri, o forse il tuo concetto di “cattivo” è più simile a Prince, mentre per me sono i Crime

Infatti “This Is the Sonics” è poco credibile proprio se paragonato alla scena garage odierna, che reinterpreta i Sonics spesso molto meglio dei Sonics stessi. Solamente Andy Macbain con le sue tre band, The Monsieurs, The Marty Kings e i The Ghetto Fighters se magna ‘sto album di garage pop patinato.

Infatti se si escludono i due minuti e trenta di Sugaree, non è nemmeno particolarmente d’impatto come album rock. Sezione ritmica trita e ritrita, riff altrettanto, e Gerry, aiutato da tutta la tecnologia del mondo, per sembrare comunque una imitazione gracchiante di se stesso.

Il garage rock dopo i Sonics si è evoluto eccome, attingendo a piene mani dai cinque da Tacoma come dalle mitiche raccolte (Pebbles), dagli Stooges e dalla psichedelia di Barrett, poi dal voodoobilly dei Cramps, dalla nuova ondata di complessi da un album e via negli anni ’80 (coadiuvati da nuove eccitanti raccolte, come Back From The Grave), dagli Oblivians, si è arrivati a mescolarci progressive (Plan 9), new wave (Jay Reatard) e kraut rock (Thee Oh Sees), e tutto questo passando anche in mezzo a mode che hanno rischiato di uccidere un genere che dell’autenticità fa il suo cardine. E dopo tutto questo i Sonics se ne escono con album di cover in mono. In MONO. La nuova frontiera del low-fi, cazzo.

Ecco, il nuovo album dei Sonics è perfettamente integrato col revival garage della Burger Records, un ultra-low-fi ormai cifra stilistica necessaria per essere considerati “veramente garage”, un sound che se fosse uscito nel ’75 o nel 2015 non cambia niente, tanto è identico a qualunque album dei Troggs, dei Burning Bush, dei Question Mark & The Mysterians, dei Rats, dei gloriosi Seeds, dei mai abbastanza citati Them, dei Music Machine e così via.

Secondo Giampiero Marcenaro su Distorsioni i Sonics danno le paste agli odierni White Stripes e Black Keys. Piuttosto semplice se ci pensate bene, gli Stripes si sono sciolti da tempo, mentre i Keys sono passati dall’essere una cover band dei Sonics a fare sigle per pubblicità di automobili. Forse andrebbero paragonati a Thee Oh Sees, L.A. Witch, Mr.Elevator & The Brain Hotel, Pink Street Boys, Mummies, King Khan, Compulsive Gamblers, Coachwhips, Mooney Suzuki, Crystal Stilts, giusto per citare i più famosi.

Lo volete sapere? Sì, ok, l’album non fa assolutamente cagare. Ma è il massimo del riciclo. Se volete ascoltarvi del grande garage anni ’60 compratevi qualche raccolta, se volete ascoltarvi grandi album di garage contemporaneo prendetevi “Trash From The Boys” dei Pink Street Boys, o “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Sì beh, suonano diversamente dal 1965, ma questo è perché il garage rock è un genere che si finge basso ma in realtà nasconde il seme dell’arte, quella che ti mostra una nuova prospettiva delle cose che hai sotto gli occhi tutti i giorni. Proprio quello che i Sonics fecero alla grande nel 1965, quando non li conosceva nessuno, e senza fare nessun tour mondiale cambiarono il volto del rock.

[E ce ne sarebbero ancora migliaia, su Psycho per esempio, ma anche su Have Love Will Travel, la loro cover divenne ben presto più celebre dell’originale!]

Don’t Believe In Christmas

Ok, i Sonics non ci credono tanto, ma per voi invece sarà meglio non fare gli stronzi.
Deh Beppe, non romperci il plettro, è una sporca festa pseudo-religiosa corrotta dal nazional-fasci-capitalismo!
Oooh, ma non rompete il cazzo, è una dannata scusa per stare insieme e fare dei fottuti regali (materiali, non futili oggetti ma pensieri VERI) a chi vi vuole bene ma sopratutto: non spaccate i maroni agli altri con i vostri deliri misantropi! È natale, cazzo!

 

The Litter – Distortions

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Quello che vi propongo oggi è un acquisto sicuro, anche se non di eccelsa qualità concettuale.

Sì perché credo che ogni tanto ci sia bisogno di far girare sul piatto un disco che alla fin fine non abbia chissà quali pretese, ma che faccia quel pizzico di rumore che comunque ci allieta la giornata.

E di rumore “Distortions” ne fa, dato che Warren Kendrick lo volle chiamare così perché l’intero album è caratterizzato dall’uso smodato del fuzz-tone.

Il garage dei The Litter è elettrico oltre ogni immaginazione, le casse sembrano emettere fulmini mentre le tracce si susseguono, il che credo sia un ottimo incentivo per l’acquisto di un album di fottuto rock, no?

Cos’altro hanno questi The Litter? Beh, nulla.

“Distortions” esce nel 1967 sull’onda del successo del 45 giri “Action Woman / ”Whatcha Gonna Do About It”, pubblicato da un’etichetta a me sconosciuta (la Warick). Se consideriamo quanto il garage aveva dato fino al ’67 il disco dei The Litter non sorprende né colpisce per una qualche idea in particolare, sono i soliti cinque ragazzini bramosi di fama che indossano vestiti di dubbio gusto e suonano come un Woody Guthrie impasticcato.

L’anno prima uscì dei The Seeds il loro primo album omonimo, una pietra miliare per il rock, un garage a tinte acide che spesso anticipa il punk (No Escape), era uscito un album pieno di ironia e contenuti serissimi come “Black Monk Time” dei The Monks (Complication), The 13th Floor Elevators, Electric Prunes e Blues Magoos tenevano alto il vessillo psichedelico mentre i Sonics spianavano la strada per il punk duro e puro (Strychnine). I The Litter nel 1967 erano in ritardo per la festa.

Un’altra cosa interessante è che “Distortions” è un album di cover, i Litter se ne fottono altamente di scrivere qualcosa di pugno, massacrano a suon di fuzz-tone gli Who, gli Small Faces, gli Yardbirds, cazzo si prendono pure Spencer Davis Group, non si fanno mancare nulla queste fighette di Minneapolis.

Però lo spirito di quei folli anni c’è tutto in questo album, anzi “Distortions” nella sua povertà concettuale è un disco che suona sporco e vivo come pochi nella storia del rock.

Mai un calo di tensione, mai un momento di noia, mai una pausa. La qualità espressa da Jim Kane, Dan Rinaldi, Tom Murray, Bill Strandlof e Denny Waite è strabiliante, e tutto in rigoroso MONO (tranne che per The Egyptian).

Questo è un album che dovrebbe far riflettere tutte quei dannati musicisti perfettini che se non registrano “da Dio” manco pubblicano un loro ruttino. Eppure a volte non servono nemmeno le idee, occorre solo quella fiamma indomabile che il rock incarna nelle sue esplosioni elettriche.

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L’album si apre con la bellissima Action Woman, un monolite del garage rock presente in qualunque collezione si rispetti su questo nobile genere. Se non ti convince un pezzo così sei messo male.

Via subito a razzo con la cover degli inglesi Small Faces, Whatcha Gonna Do About It? che orfana della voce di Marriott si riprende con delle indemoniate sferzate chitarristiche di Rinaldi. Un classe unica.

Siamo alla terza traccia e già possiamo sentirci pienamente soddisfatti dell’acquisto, perché Codine in questa veste distorta è quanto di più rock si possa immaginare. Lenta, potente, elettrica.

Somebody Help Me è un brit-rock basilare suonato da dei geni.

Substitute è la prima cover degli Who, e passa pieni voti. Anche inspiegabilmente del lotto è il pezzo che ha sofferto di più l’inevitabile scorrere del tempo (in coda c’è spazio pure per The Mummy di Tommy “Zippy” Caplan).

Si conclude il primo lato con la psichedelia stereofonica di The Egyptian.

Parte di corsa I’m So Glad con le solite impressioni elettriche col fuzz-tone che riempiono la stanza di luce.

Seconda e ultima cover degli Who, anche A Legal Matter tiene il passo.

In Rack My Mind si presenta pure un’armonica, ma niente blues o folk music del cazzo, fuzz-tone in funzione e garage incazzato per tre minuti e mezzo.

Soul Searchin’ e Blues One elettrizzano le palle con gaudio. Troppo bravi per essere vero.

Si conclude anche questo giro di giostra, ma per chiudere una chicca: I’m A Man, in una versione veloce, distorta e sporca come non l’avete mai sentita.

Il bello di questi album è che non devi scriverci sopra più di tanto, né ci vuole troppo a convincerti, ti piace il rock? Adori il rumore più sgradevole? Sotto la doccia canti The Witch dei Sonics? Beh, stronzetto, o stronzetta che sia, devi avere questa merda.

  • Pro: è rock gente, che altro volete sapere? Cazzo, certo che con i Pro e i Contro ultimamente sto proprio messo male…
  • Contro: se non ti piace il garage lo terrei lontano due sistemi solari da te.
  • Pezzo Consigliato: le prime tre tracce sono da antologia.
  • Voto: 7/10

The Monks – Black Monk Time

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Primo: la band che prenderemo in considerazione in questa recensione spacca i culi con potenti dosi di rock, quindi dovete ascoltare questo dannato disco.

Secondo: sono in vacanza, quindi sono in uno stato di scazzo assolutamente giustificato, la recensione verrà di merda, potete dunque saltarla a piè pari e scendere dal vostro spacciatore di dischi di fiducia e comprare questo fottutissimo album.

Cominciamo.

Qual’è il ritmo dell’estate?
Non so il vostro ma il mio qua a Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo, viaggia costantemente su fastidiose emissioni di musica latino-americana, Lunapop, Donna Summer e Muse sparati a palla dal carretto dei gelati. Preferirei un concerto dei Sonata Artica a tutto questo.

Detto ciò grazie agli straordinari ritrovati tecnologici contemporanei (le musicassette) riesco a sopravvivere quel tanto che basta per scrivere cagate sul computer e per leggere roba come “Lila” di Pirsig e “Please Kill Me” della premiata ditta McNeil-McCain. Inoltre il costante rompersi dello stereo fortifica la mia dolce ulcera.

Naturalmente sono al mare, ma la brezza marina non aiuta molto, non almeno quando, verso le due e mezzo del mattino, trasporta in camera mia assieme alla sua frizzante arietta anche le serate di karaoke a qualche isolato da qui.

Ci sono anche i vicini, ma a quelli cerco di contrattaccare. Ogni qual volta il mio gentile vicino tenta di inquinare il mio spazio vitale con oscenità sonore che vanno dai sempre verdi Backstreet Boys a Vasco Rossi io rispondo a mio modo, e quale modo migliore se non un album come “Black Monk Time”?

Se sapete già chi sono i Monks mi avrete mandato a cagare sù per giù alla seconda riga di questa sconclusionata recensione, ma se non li conoscete sappiate che vi siete persi (finora) una delle band più assurde e geniali dell’intera storia del rock & roll.

Intanto contestualizziamo (quindi mi stappo una birra), siamo nella prima metà degli anni ’60, i Monks credo comincino a suonare assieme intorno al ’64, e se i giovani virgulti dell’epoca ascoltavano i Beach Boys con i loro coretti che anticipavano i Village People e i cori ecclesiastici nella zona di Rignano sull’Arno, altri un po’ più furbi (come i Monks) ascoltavano le folli distorsioni del vero surf rock di Dick Dale (mentore di Hendrix), avevano in casa “The Standells In Person At Pjs” e si masturbavano al ritmo dei Vagrants e dei mitici Sonics (punk ante-litteram). Bei tempi in effetti.

Comunque questi cinque militari (!) americani di stanza a Francoforte avevano un’avversione per una band in particolare: i Beatles. Il che, molto stranamente, non gli è avvalsa la prima posizione in tutte le classifiche di Scaruffi.

I loro ritmi scanzonati [parlo dei Beatles], le loro canzoncine d’amore alternate a qualche sporadica considerazione sulla realtà al di fuori della loro gabbia dorata (che arriverà dopo “Rubber Soul”) facevano incazzare i Monks come Richard Benson davanti ad un pollaio. Così decisero, per motivi che non intendo sondare, di vestirsi da monaci (con tanto di chierica) e di provocare le masse con riff che facevano tremare le palle a tutti i vari Kings, Yardbirds e cazzi e mazzi.

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Il sound che i Monks concepiranno è oggi oggetto di discussione tra i critici di DeBaser o di Onda Rock, i quali adorano come nessuno i discorsi intorno al nulla o sull’effimero.

Sicuramente troverete persone che vi diranno che i Monks anticipano il punk, il che è giusto parzialmente ma se consideriamo band come Sonics o i Troggs, i quali sono molto più proto-punk dei quattro frati americani, allora forse è meglio semplificare le cose e inserirli nel miglior garage rock di sempre (hanno qualche affinità per esempio con i Music Machine, se non fosse per il banjo elettrico!).

Qualche pazzo addirittura li inserisce tra i fondatori dei kraut rock, e io proprio non capisco. Se in I’m Waiting For The Man dei Velvet è più che mai doveroso parlare davvero di punk sia come sound che come testi e concetto, nei Monks il sound, per quanto ritmato e deciso, è comunque legato al garage ed è ben distante dai ritmi serrati del kraut che erano funzionali a negare concettualmente un certo tipo di rock (consapevolezza che manca ai monaci del garage). Quindi ci sta di ascoltarli e sentire quasi una predizione dei Neu! o dei Faust, ma se nel caso dei Velvet, come nei Sonics e nei Troggs, la volontà di essere punk esiste ben prima che il concetto possa essere espresso, nei Monks c’è solo una voglia di avversione ai Beatles e company che si vuole esprimere con il vero rock, il garage per l’appunto.

I Monks non solo ti aggrediscono con un rock davvero pesante e irriverente per il 1966 (data di pubblicazione del loro unico album, “Black Monk Time”) ma oltretutto non si risparmiano neanche nelle liriche. E qui siamo lontani dal sesso frenato dei Sonics o dei Troggs, siamo lontani dai riferimenti alla droga di inni come Here Come the Nice degli Small Faces (che è dell’anno successivo, ma ricordiamoci che sono in vacanza e sto cazzeggiando allegramente, ok?), in “Black Monk Time” si parla di politica, e in particolare di guerra.

Solo un’altra band, ancor più leggendaria dei Monks, aveva usato toni così diretti (e anche indiretti, siamo comunque nel ’66) nel parlare di guerra negli USA: i Fugs.

Se tutto ciò non vi basta ascoltatevi i riff veloci e sporchi di Higgle-Dy-Piggle-Dy (con un organo allucinato alla Brian Auger), innamoratevi di uno dei capolavori del rock: Complication, lasciatevi stupire dal banjo elettrico di Shut Up.

Volete zittire il vicino al mare che mette a tutto volume i suoi balli di gruppo latino americani (che poi ballerà la sera stessa con i parenti over 50) con un po’ di sano rock? Beh, dato che con “Metal Machine Music” vi becchereste una bella denuncia per inquinamento acustico, allora potete tranquillamente virare verso i Monks.

  • Pro: semplice e incazzato rock. Vi pare davvero poco???
  • Contro: boh.
  • Pezzo consigliato: Complication.
  • Voto: 7,5/10