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I riff che me lo tirano

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Specifico fin da subito che provo un profondo e sincero disgusto per tutte quelle rubriche tipo: “ i 10 riff che ti cambieranno la vita!” Manco fossero materassi delle Eminflex. Però anche io possiedo un cuore, e nei momenti di infantile tenerezza mi capita di cogliere la bellezza della vita in un semplice riff. Peccato che non abbia il tempo per scrivere una roba raffinata, per cui eccovi una lista dei riffoni che me lo fanno tirare oggi, giovedì 5 Aprile, alle 5:40 del mattino.

The Bats – North By North

Banale sì, ma c’è forse un riff più figo nell’intera storia rock neozelandese? Non sono un fan sfegatato di Bats, Clean et similia, eppure ci sono dei pezzi che sono dei gioielli per l’incredibile tensione che sottintendono.

Negli anni sono arrivato a credere che tutto il miglior pop rock venga dall’Oceania (ascoltatevi l’ultimo dei Chook Race o i The Stevens se volete rituffarvi in una adolescenza tutta brufoli e indifferenza). North By North è la canzone perfetta per ogni viaggio in auto della vostra vita, scorre a velocità di crociera, così che non vi sfugga nemmeno un dettaglio di quel fastidioso ronzio interiore che è la memoria.

Gūtara Kyō – ロマンチック / Roman Chikku / Romantic

L’album d’esordio dei Gūtara Kyō dura 16 minuti e fa un casino della Madonna. Crasi ideale tra Can e GG Allin, la band giapponese targata Slovenly Records è forse una delle realtà più abrasive del garage rock mondiale. Boh, c’è da dire altro? Fanno casino, urlano in giapponese, suonano di merda, io direi 10/10 e si può passare al prossimo.

The Kinks – Top of the pops

Presa di culo della classica canzone da classifica rock inglese, Top of the pops dei Kinks si staglia in un album decisamente pazzesco come “Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One”, e lo fa per potenza (sembrano quasi i Mountain a tratti) ed efficacia dei tópoi riciclatissimi dell’hard rock, un po’ come fece Kim Fowley nel suo capolavoro del 1968.

Per quanto non valga l’attacco malinconico e storto di Strangers o l’incredibile spleen di Lola (forse il più bel singolo rock di tutti i tempi), come nemmeno il chitarrismo adrenalinico di Rats o l’immediatezza melodica di Apeman, Top of the pops c’ha un riff che spezza le catene della mediocrità e fa risalire questo pezzo sù per le mie arterie fino al centro del mio cuore.

The Celibate Rifles – Bill Bonney Regrets

Ho dedicato una recensione all’album capolavoro dei Celibate Rifles, una band che in questo periodo sto adorando oltremisura, finendo persino a tradire uno dei miei dettami più rigidi: non comprare i cazzo di vinili. Eppure quando al mercatino ho visto quello stracazzo di 33 giri tutto patinato che indicava senza troppi fronzoli una live al CBGB dei Rifles, non ho potuto controllare i processi motori che hanno permesso alla mia mano destra di afferrare il portafoglio.

Bill Boney Regrets comincia che sembra un anthem e si trasforma in un coito interrotto di rabbia e repressione emotiva. Fate vobis.

[Che ci crediate o no non sono riuscito a trovare un link della versione studio della canzone, forse c’è su Spotify ma internet mi ha lasciato, per cui se lo trovate scrivetelo che lo copio-incollo qua senza paura. Ovviamente con dedica.]

The Rats – The Rats Revenge (Part 2)

Taluni credono che i Rats siano la prima band punk di tutti i tempi, e forse non ci vanno così lontani. Tecnicamente vicini alle Shaggs ma connotati da una folgorante vena ironica e demenziale, il loro primo 7’’ è stato retro-datato al 1963 ma in realtà è del ’65 e divenne “famoso” una volta comparso nella celebre collection di “Back From The Grave”, proprio nella sua prima leggendaria uscita. E niente insomma: spacca i culi, questa è la mia analisi estetico-etnomusicologica di The Rats Revenge (Part 2).

The Who – I’m Free

Fermo restando che tutta la discussione attorno al valore di “Tommy” degli Who ha sfangato i coglioni, vorrei qui affermare che il suddetto album è un capolavoro, non sei d’accordo? CHISSENEFREGA – oggi sono proprio in vena di analisi forbite e condite da una scrittura esacerbante ma raffinata.

Detto questo la versione a cui mi riferisco non è quella dell’album originale ma bensì quella del film. Prima di chiudere tutto e venirmi a cercare muniti delle sei facciate di “Isle of Wight Festival 1970” da spaccarmi sul groppone, lasciatemi dire questo: I’m Free è l’unica eccezione in quello che per me è un principio saldo e incorruttibile, ovvero che l’album originale è sempre meglio. Eppure stavolta Townsend l’ha fatta dai, ce l’ha messa in quel posto, perché non ammetterlo una volta per tutte invece che girarci attorno? Con quell’attacco poi, così bucolico, che introduce ad un riffone che ti sbionda.

Per dirla come uno dei grandi intellettuali della politica contemporanea: CIAONE.

Alex Chilton – I Can Dig It

Pezzo piuttosto anonimo francamente, preso dalle celebri sessions del 1970 di Chilton. Non è che sia chissà che, ma piuttosto che mettere i soliti Pere Ubu o Gang Of Four preferivo buttare lì un guilty pleasure di quelli magari meno conosciuti, giusto per cambiare.

Comunque, sebbene come detto il pezzo in sé non sia di certo la punta di diamante della produzione chiltoniana ha un bel tiro e sopratutto un riff spezza-caviglie come si deve. Da mettere come sveglia la mattina, equalizzatore ben impostato per far risaltare le sferzate di Jimmy Page (così dicono) e volume da denuncia per inquinamento acustico.

The Jon Spencer Blues Explosion – Blues X Man

Da non scambiarsi col quasi omonimo duo italiano (per favore, non fate questo errore, lo dico per voi) questo trio deflagrante ne ha nel suo carrello della spesa di riff memorabili, da Rachel alla orgasmica Back Slider (bel garage blues alla The Hentchmen), eppure vi giuro che in “Orange” del 1994 ce la mettono tutta per battere ogni record. In finale ci sono andati Brenda e Blues X Man, e con l’infallibile tecnica del lancio della moneta ne è uscito un solo e incontrovertibile vincitore.

The Fleshtones – Shadow-Line

Ricordo ancora il momento esatto in cui la puntina ha toccato il discone di plastica nero, che di punto in bianco ha preso vita come un cazzo di ufo. L’album non era neppure uno dei Fleshtones, ma una collection.

Quel riff ragazzi, quel riff. Di Conrad la canzone non c’ha niente, né la tensione paranoica né l’esaltante vena avventuriera (meno raffazzonata e posticcia di quella del maestro Daniel Defoe), eppure l’esaltazione della band da New York nel suonare questo semplicissimo pezzo rock ’n roll ti trascina con sé in una danza liberatoria.

Non so se preferisco la versione di “The Groups of Wrath: Songs of the Naked City”, quella dell’OST di “Urgh! A Music War”, o la versione dell’82 contenuta nello splendido “Roman Gods”. Basta che ci sia quel cazzo di riff, non importa come lo suoni, per me è ipnotico peggio della batteria di Moe Tucker in Sister Ray, è come farsi una canna bere whiskey e guardarsi un porno in 4k mentre te lo succhiano.

Visti dal vivo per la prima volta l’anno scorso all’Hana-Bi non eseguirono Shadow-Line come nessuno dei loro pezzi più famosi, ma ‘fanculo al cazzo, se c’è qualcuno che se lo può permettere quelli sono i Fleshtones!

Lo so, lo so. Ma la radio? E le recensioni? Purtroppo sembra proprio che il lavoro mi stia rompendo parecchio i coglioni, ma ehi, magari presto potrebbero esserci delle novità. Magari un podcast solo parlato di approfondimento. Magari dei video su YouTube (giusto per inimicarmi per sempre il 100% di chi scrive di musica in Italia). Insomma, saranno cazzi.

BONUS RIFF!

Chook Race – Around the House

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Etichetta: Tenth Court
Paese: Australia
Pubblicazione: 2 Settembre 2016

Ogni tanto mi va un po’ di pop. Ma con gusto.
Tutto quel pop con attitudine punk che dai The Gerbils arriva ai R.E.M.. Per attitudine punk non intendo rutto libero e birra scadente, né GG Allin, ma quel nichilismo adolescenziale dei Ramones che distorce il mondo in una enorme gara verso la felicità che tu, sì sì proprio TU, hai perso in partenza. Quello.

Per un punk così non c’è bisogno sempre di fare un gran casino, lo si può anche sussurrare ad un microfono mentre fuori nevica, svelando che sotto tutta quella furia c’è un mucchio di fragilità da nascondere.

In questo blog abbiamo parlato più o meno approfonditamente di Free cake for every creature, The Stevens, Quarterbacks, All Dogs, Baby Mollusk e forse di altri che ora non ricordo, tutte band accumunate da un modo di raccontare l’adolescenza con calma e riff alla The Bats, magari senza la forza prorompente della storica band neozelandese, ma armati di un po’ di pericolosissima timidezza.

Stavolta siamo sulle sponde australiane, e immagino che chiunque possegga la leggendaria raccolta “Do the Pop!” sappia bene che quando si parla di garage pop si parla all’80% di Australia. Nel 2013 era uscito “A History Of Hygiene” dei The Stevens, quasi un concept sull’adolescenza che gira attorno a tutti i problemi senza colpirne in pieno nemmeno uno, ma lasciando un senso di reale sconforto e confusione, tutte e due sensazioni decisamente adolescenziali, probabilmente una delle migliori espressioni del genere degli ultimi anni, anche se non mi aveva entusiasmato. Stavolta invece con “Around The House”, dei Chook Race, veniamo strattonati per una manica del pigiama, ci danno in mano una piccola lanterna elettrica e ci infiliamo con loro sotto le coperte, entriamo in quel circolo vizioso di «work, eat, sleep, repeat» tipico di un certo indie australiano, una dimensione dove l’età adulta sembra non arrivare mai.

Dopo un 7” pollici ancora ancorato ad un garage rumoroso nel 2012, i Chook Race rilasciano il loro primo album su Bandcamp nel 2015, finalmente definiti nella forma e nella sostanza. L’unico chiarissimo difetto di “About Time” è che tutto quello che viene abilmente descritto nelle liriche raramente è seguito da un garage pop orecchiabile, si sentono le potenzialità e l’album scorre bene, ma poche volte riesce a comunicare con urgenza quella fragilità di cui parlavamo poco fa.

Di queste potenzialità però se ne accorge la Tenth Court, piccola etichetta indipendente australiana, e così “Around the House” può uscire questo Settembre con una produzione più accorta, e persino una distribuzione internazionale grazie alla Trouble In Mind Records.
Deliziosa perla pop questo secondo lavoro dei Chook Race è diventato uno dei miei leitmotiv da mettere in auto durante le giornate più grigie, dove anche la separazione tra asfalto e cielo non è così definita.

La dolcezza sconfortante di Pink & Grey, dove le due voci di Robert Scott e Kaye Woodward si mescolano senza calore, gli scudi così effimeri di Eggshells, il riconoscere i nostri limiti in At Your Door o nella intima Sorry, si può ben dire che stavolta non è solo un lavoro di liriche, perché viene tutto accompagnato da delle progressioni di accordi davvero degne dei The Bats. Provate a sentire la veemenza quasi punk di una Pictures of You, calmierata da un suono spalmato nel brevissimo ritornello, sensazioni condensate su un vetro di una piccola cameretta in una casa in periferia.

Non c’è dubbio che tra le 10 tracce di “Around the House” abbiamo un vincitore dal punto di vista dell’equilibrio tra riff-liriche-adolescenza, perché Hard to Clean spacca i culi con la gentilezza del cantato sommesso (lei tremendamente simile a Katie Bennett dei Free cake for every creature), l’andamento quasi da punk anthem, ma sempre sotto le coperte. Segnalo anche Lost the Ghost, che sfoggia un riff garage pop anni ’80 che levati. 

Non so se è una mia perversione ma mi piace QUESTO garage pop, non quello di band come i Wyatt Blair e i vari compagni di merenda al Burgerama Music Festival, troppo disimpegnato e ironico senza essere auto-ironico. Forse non è nemmeno un caso che riprendo in mano questi dischi quando inizia a far davvero freddo, alla fine è quasi una reazione psicologica, necessità di affrontare i miei/nostri circle jerk mentali senza urlarli ai quattro venti, ma guardandoli condensare il respiro su un vetro che dà sull’inverno.