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Podcast – Le Grandi Delusioni

Sicuramente sarà successo anche a voi, no? Vai dal tuo spacciatore di dischi, ti fai consigliare qualcosa in base ai tuoi gusti, spendi un bel ventone o anche più, torni a casa per sparatelo dritto dritto nel condotto uditivo e… BANG! È una merda.

A me è successo parecchie volte, in questa puntata di Ubu Dance Party ve ne elenco 8 particolarmente scottanti.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Montauk – Montauk

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L’Italia è sempre stata un po’ il fanalino di coda del rock (assieme a molti altri paesi occidentali) qualche soddisfazione siamo riusciti a prendercela nei mitici ’70, ma poi siamo scomparsi di nuovo.

Di band da ascoltare a giro per fortuna ce ne sono, anche se raramente riescono a stare al passo delle corrispettive band americane e inglesi.

I Montauk sono un gruppo giovane che sta muovendo i suoi passi nel terreno del post-core e dell’indie, terreni abbastanza fertili in Italia di questi tempi. Diciamo che puntare su tematiche melanconiche e depressive in questi giorni è un po’ da una parte ”vincere facile” e dall’altra rispecchiare fedelmente lo stato d’animo dei giovani.

La band mi ha spedito l’album un paio di giorni fa, è arrivato stamani stupendomi alquanto. Non tanto per la prontezza delle Poste, ma per la presentazione del disco stesso.

Dentro un cartoncino, tenuto fragilmente da un’elastico, c’è il cd e una specie di “manifesto” d’intenti, più una montagna di disegni di fumettisti e illustratori in linea con il Montauk pensiero.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, riprendono stilemi del fumetto della grafica contemporanea, qualcosa di simile si è già visto in “Requiem” dei Verdena se non ricordo male, dietro i disegni ci sono pure delle citazioni dai testi delle canzoni.

‘Na presentazione di nulla!

Nel manifesto degli intenti la band definisce la sua musica “post-core-slo-core, indie-punk” e cantautoriale, il che secondo me sintetizza bene il disco in sé, ma è quasi più una dichiarazione di limiti che di intenti, comunque ora ne parliamo meglio.

Dice, il foglietto, che loro non sono né gli Hüsker Dü né i Fugazi, e dice giusto assai. I Montauk non hanno la velocità degli Hüsker (e quelli andavano forte per davvero), non hanno la vena politica dei Fugazi e la loro musica scarna e sanguigna, in sostanza c’entrano poco e niente con queste due leggendarie band.

La musica dei Montauk parla ai giovani, suona come uno stralcio preso da un racconto di Ammanniti, senza però la sua psichedelica progressione verso un’infausta (e inevitabile) conclusione, il discorso della band libra in aria fendendo colpi qua e là, rievocando sensazioni e angosce senza però dargli mai una direzione precisa.

Le idee alla band non mancano, come anche la capacità tecnica. Il disco è definito lo-fi, ma non è proprio un lo-fi tipo. Insomma, non suona di certo come “Slaughterhouse” di Segall o “Rubber Factory” dei Black Keys, suona più come un disco degli Zen Circus, una via di mezzo in pratica.

Comunque prima di trarre delle conclusioni andiamo all’ascolto.

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Io, il pezzo che ci introduce in questo album cortino (dai, è un EP) comincia bene. Vada per il post-core, ma diciamo un post-core piuttosto rigido. Non c’è la veemenza degli Hüsker, ma nemmeno dei And You Will Know Us By The Trail Of Dead, piuttosto si lascia spazio ad una monocromia indie come negli The Underground Youth, senza salite o discese troppo rapide.

Come Fossi Il Tuo Cane conferma quanto detto e rimanda alle sonorità dei Teatro Degli Orrori, band molto apprezzata dal pubblico italiano in questi ultimi anni. Speravo in una citazione degli Stooges in tutto e per tutto, ma già il testo “vorrei che tu mi accarezzassi come fossi il tuo cane” – che ha qualche ricordo di I Wanna Be Your Dog, suona però come una sorta di sconfitta, mentre il latrare di Iggy era intriso di un fuoco che qui manca.

Il pezzo successivo, Il Bruco, è pervaso da un nichilismo adolescenziale che fa tanto indie. Mi piace la frase “e sceglierò il silenzio” perché rappresenta bene l’angoscia tipica di questo genere, ovviamente è un ossimoro che nobilita il tentativo di dire qualcosa dei Montauk. Peccato che la struttura compositiva cominci a sembrare un po’ ripetitiva.

Song No Tomorrow butta là qualche sprazzo di new wave, c’è un po’ più di energia e c’è molto potenziale; “la rabbia è una religione” ripetono ad un certo punto, non potrei essere più d’accordo, ma aggiungo che non è ancora la vostra parrocchia, le strutture sono troppo rigide e i suoni troppo calibrati, la rabbia c’è ma non trova ancora un’espressione adeguata. Il Mondo, il pezzo dopo, non aggiunge nulla di importante.

Con Da Quando Non Siamo Più la band comincia a tirare fuori le palle, e io apprezzo molto. Il pezzo credo parli di una coppia che si è divisa, in realtà ci capisco poco grazie ad un sistema di amplificazione da rivedere (il mio), ma frasi come “resto qui a cercare un pezzetto di te nei pantaloni” sono quanto di più post-core si sia finora sentito.
Inoltre la canzone propone una struttura decisamente più elastica, passando dalla velocità alla riflessione con un certo stile, peccato che sul finale il cantante tiri fuori questo:
“la mia vita ha il senso di un sapore
è un piatto di carne a base di interiora
la violenza della cucina tradizionale
le mosche mi fanno una corona di compagnia con al loro ronzante allegria”
Eh? Boh, però il finale mi è piaciuto un casino.

In Nessuno Partirà non manca il brio, ma quattro minuti francamente mi paiono tantini per un pezzo senza troppe sorprese.

Il disco si conclude con Piove, la traccia si distacca dalle altre per la presenza di una lunga introduzione fatta di impressioni sonore piuttosto semplici, c’è molta melanconia che sfocia in una sensazione di solitudine forzata mischiata a misantropia, che fa (ancora una volta) tanto indie.

Che dire?
La band ha idee, ha capacità, ha anche un sound abbastanza personale, che manca? Manca innanzi tutto il carisma di band come Il Teatro Degli Orrori o degli Zen Circus, e per paragonarli ad altre band ancora ai margini manca per esempio un po’ di coraggio alla Gli Ebrei.

Comunque ci sono le basi per qualcosa di potenzialmente interessante.

  • Pro: bel sound, un disco suonato bene e che non ha bisogno di virtuosismi per piacere.
  • Contro: sa di poco, dopo le prime due tracce il resto appare scontato.
  • Pezzo Consigliato: Da Quando Non Siamo Più ha anche una spinta in più.
  • Voto: 5,5/10

The Black Keys – Rubber Factory

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Prima di recensire questo disco vanno fatte delle premesse:

  1. i Black Keys mi piacevano (assai), ma ora sono tra le peggiori band a giro (e vi spiegherò perché);
  2. tutto quello che hanno fatto i Black Keys lo avevano già fatto i Sonics e i Music Machine, tranne che per “Attack & Release” per cui va fatto un discorso diverso (e vi spiegherò anche questo);
  3. Coca-cola e Pepsi non sono veramente diverse per gusto o colore, ma lo sono concettualmente (sì, c’entra, e vi spiegherò perché).

Da questi tre punti, che sono le premesse necessarie per continuare questa recensione, ricaviamo i quattro passaggi fondamentali per Una Buona Recensione: 1) la storia della band; 2) la musica a cui fa riferimento; 3) la recensione del disco; 4) le conclusioni del caso.

1) La band, formata soltanto da Daniel Auerbach (cantante e chitarra) e Patrick Carney (il batterista), si ritrova nel 2001 a cazzeggiare assieme senza troppe pretese, quando nel 2002 fanno uscire “The Big Come Up”, il loro primo disco, e diventa subito un successo. Non si sa bene se sia culo o cos’altro, ma il garage-rock-blues di questi ragazzacci funziona.

Nel 2003 con “Thickfrekness” sembrano aggiustare ancora un po’ il tiro, misurandosi con un rock piuttosto hard nella filosofia del low-fi. Il secondo disco è davvero un passo avanti. Sebbene mi piaccia consigliarli entrambi a chi mi chiede “ehi, ma chi sono ‘sti Black Keys?” devo dire che Thicky ha una marcia in più. Più rumoroso, più casinista, più garage.

Continua il successo per la band, anche se molti critici nostrani sembra che credano fermamente che prima di “Attack & Release” non li cagasse nessuno (perché non se li cagavano loro). Invece già col secondo album, prodotto dall’ottima etichetta Fat Possum Records (che annovera nomi come quelli di Iggy Pop, Andrew Bird, i Caveman, i Dinosaur Jr. e altri) i plausi dalla critica americana non sono pochi, e i loro pezzi si sentono ovunque, dalle radio ai cinema.

Arriva nel 2004 “Rubber Factory”, un lavoro egregio a mio avviso (e il mio disco preferito dei Keys), ma ne parleremo meglio dopo.

Con “Magic Potion”, disco uscito nel 2006, comincia il declino. Il sound si addolcisce, il rock sembra un tantino stantio, non voglio dire che non sia rock, dico solo che è un rock svogliato, inutile fine a se stesso, senza energia! 

Intanto iniziano ad essere prodotti dalla Nonesuch Records (etichetta della Warner), e già nel 2008 accoglieranno anche la Danger Mouse. Il sound cambia, e parecchio.

Attack & Release” esce proprio nel 2008, l’arrivo della Danger Mouse si fa sentire, e il disco è quasi certamente il miglior lavoro della band, o quasi.

Il lato A risulta una bomba di psichedelia e rock d’annata, c’è l’elegiaca All Your Ever Wanted (un finale tra i più belli), godurioso il riff di I Got Mine che ricorda le cose migliori di Rubber, ma con un sound pulito e sofisticato (per quanto possa essere sofisticato un disco dei Black Keys), bella anche Psychotic Girl, insomma, un disco abbastanza cazzuto. Ma già nel lato B le cose si calmano. Sebbene pezzi come Se He Won’t Break siano cento volte meglio di qualsiasi cosa passi per MTV e affini c’è una certa artificialità nell’esecuzione. Insomma: non è la solita solfa, abbiamo lasciato il garage dei Sonics per andare a cercare lidi più complessi e raffinati.

Il sesto disco arriva nel 2010, è “Brothers”, questo è l’album che porterà i Keys ad essere conosciuti in tutto il mondo, ed è un delusioni totale.

Arrivato al negozio non mi siedo neanche per ascoltare, lo compro, speranzoso di sentirmi ancora qualche bel riff cazzuto e momenti di delirio, ed invece mi ritrovo preso in giro come poche volte nella mia vita! Cazzo gente, “Brothers” è una fregatura bella e buona! Un disco piatto, noioso, ripetitivo oltre misura! Non salto sulla sedia su nessun riff (che poi sono rumori indistinti), non c’è mai un cambio di velocità che si faccia notare, mai un’idea, assomiglia esageratamente a “Keep It Hid” (2009) il disco solista di Auerbach che altrettante perplessità mi lasciò a suo tempo. Che pena.

La solfa non cambia, anzi, peggiora, con “El Camino” (2011), un disco che suona come un affronto al rock duro e puro delle origini, il simbolo di una band venduta a MTV e ai colossi della musica.

Non solo il titolo riporta alla mente idee malsane come “Bananas” (perché chiamare un album come una macchina? Insomma, il titolo di un album è la sua presentazione, cosa dovevo aspettarmi da “El Camino”, una serie di sample di Chevrolet che sterzano a tutto fuoco?) ma oltretutto diventa il loro maggiore successo!

All’interno c’è di tutto per il campionario delle ovvietà e della noia, mi limito a segnalare i due pezzi migliori, se così si posso definire. Gold On The Ceiling viaggia abbastanza bene, il riff ti entra in testa come l’organo elettrico, ma non è che sia chissà che pezzo. Little Black Submarines sembra un tentativo di migliorarsi nella composizione, peccato che poi non lo sia, sembra un rock brutto, ignorante (che razza di aggettivi sono? Boh, è quello che mi è venuto in mente).

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2) I Black Keys, musicalmente parlando, partono con i Sonics, partono col garage. Sebbene nelle loro zone ci si ricordi perlopiù dei Devo, i Keys sotto sotto sono un po’ dei californiani in trasferta a Detroit. Dopo gli inizi rudi che band come i Von Bondies o gli Stripes hanno appena assaggiato, al contrario proprio del più famoso duo rock  si sono venduti alla grande, addolcendosi schifosamente, ipoteticamente pronti per suonare negli Hard Rock Café accanto a Rihanna.

Ora basta cazzeggiare, recensiamo.

3) “Rubber Factory” mi eccita.
Ma non come la caffeina.
Ecco, avete capito.

Quando ho udito le prime note di When The Lights Go Out intuì che questo era un disco per me. Lento, blues, garage, questo pezzo ferma il tempo attorno a me, con pochi accordi raggiunge l’anima (o le palle, fate voi) e mi stuzzica nel profondo.

Poi avviene. Rubber parte a razzo, senza esclusione di colpi mi assesta sul groppone riff assassini come quello di 10 A.M. Automatic, robette come Just Couldn’t Tie Me Down e All Hands Against His Own non passano inosservate ai tuoi vicini.

Da qui in poi potrei tranquillamente citarvi ogni pezzo leggendo il retro del cd, questa roba scotta amici miei! Girl Is On My Mind è un pezzo energico, cattivo, ma la perla del disco per me è la cover di Grown So Ugly, la quale col cazzo che è presa dall’originale di Robert Pete Williams, ma asseconda quella geniale e irripetibile versione del grandissimo Captain Beefheart, direttamente da “Safe as Milk” (1967). Già solo questo vale il prezzo del disco.

Ma non è finita qui.

4) Le conclusioni non sono niente di trascendentale: la Coca-cola è arrivata prima della Pepsi.

Forse questo non vi dice niente, ma se la Coca sono i Sonics e la Pepsi i Black Keys, allora il discorso cambia. Perché se la Coca non avesse avuto gli esperti di marketing che la pubblicizzavano a suo tempo, oggi non se la filerebbe nessuno. Ma uno zoccolo duro di intenditori continuerà a preferire la Coca alla Pepsi. Perchè mai, direte voi, solo per una stupida questione su chi ci è arrivato prima? No, è perché c’è una differenza concettuale di fondo: la Coca ha già detto tutto mentre la Pepsi ripete a pappagallo! 

Non solo: quello che la Coca ha detto lo ha detto quando nessuno era pronto ad ascoltarla, quando il mercato voleva la limonata (melodie country-rock orecchiabili), prima che l’invasione delle multinazionali (la British Invasion) distruggesse quello che fin lì era stato conquistato! La Pepsi non ha solo una differenza di tipo cronologica, è concettualmente un abominio! Vuole sopperire alla Coca travestendosi come tale, ma deviando l’ardore rivoluzionario degli albori per vendere di più! Questa è la tragedia dietro i Black Keys!

Detto questo “Rubber Factory” è un bel disco, anzi: è l’ultimo disco con le palle dei Keys, perché sebbene abbiano preso il sound dai Sonics l’hanno fatto con passione e personalità (le tinte blues sono loro, tanto per intenderci), mentre con “Brothers” e “El Camino” hanno fatto cassa sul loro nome per storpiare la Grande Lezione del garage delle origini, lasciando il rumore ma togliendo l’anima.

  • Pro: il loro capolavoro, un buon disco garage-rock in tinta blues.
  • Contro: fa rabbia pensare che si siano sputtanati in questo modo, perché il disco non ha proprio alcun difetto.
  • Pezzo Consigliato: bellissima la loro versione di Grown So Ugly, un bel tributo al mitico Beefheart.
  • Voto: 7/10