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The Frowning Clouds – Legalize Everything

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Ok che mi piace da matti il garage rock, ok che mi piacciono le band australiane, ok che sono un sostenitore del “per fare qualcosa di nuovo devi prima imparare dalla tradizione”, ma sono anche convinto che “la tradizione è custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere”, come disse il buon Gustav Mahler, e qui i The Frowning Clouds mi cascano proprio dal pero.

È inutile dire a giro che ti “ispiri” al garage rock, dì pure che vuoi fare la cover band di Kinks, Sound Sandwich, Crystal Chandelier e in generale riprendere il garage psych e blues senza aggiungerci nulla di più, così perlomeno sei onesto, non stai mica rubando in gioielleria!

Non solo, dopo l’esordio omonimo del 2013, con ben 14 tracce di pura nostalgia sonora, eccoli l’anno dopo sfornare “Legalize Everything”, praticamente una continuazione dell’album precedente. Manco il tentativo di migliorarsi nel fare la cover band!

Che poi mi stanno pure simpatici a me ‘sti cinque ragazzi, perché alcuni riff sono succosissimi (elettrizzante Carrier Drone) e riascoltare del garage blues che non siano i White Stripes ci può stare, anzi ci deve stare (No Blues), però dopo un po’ o sei fissato con questo genere o ti scassi i coglioni, è ineluttabile.

La voglia di ricongiungersi con i figli dei fiori è meno interessante di uno che si spacca bottiglie in testa. Mi spiego: se almeno Ty Segall, che non è propriamente un genio della composizione, ci mette la rabbia (un po’ borghese, ma va bene comunque) invece i Frowning Clouds ci buttano addosso nenie psichedeliche come Leopard Print Tint, cantante con gioia e piano piano, per non disturbare nessuno, non molto diversi da un Jeffrey Novak qualunque.

Su dodici pezzi almeno sei sembrano riempitivi. Non male.

Move It sembra uscita fuori da “The Piper At The Gates Of Dawn” con un finale finto sperimentale che ti fa prudere le mani.

Radio Telescope è un esercizio psichedelico che non si capisce bene cosa ci incastra col resto. Perchè non facciamo dei paragoni con la scorsa recensione, ovvero con “Trash from the Boys” dei Pink Street Boys, anche loro garagisti ma senza nostalgia? Ma sì dai. Anche lì ci troviamo di fronte ad una Korg Madness di cinque minuti che non va da nessuna parte, ma ha un senso nel contesto dell’album, la sua natura ripetitiva (“a bordone”, per gli stronzi) che ci trasporta dolcemente verso la loro personale idea di psichedelia, si congiunge col resto dell’album che vuole essere un tributo alla contemporanea stagione garage californiana ma allo stesso tempo la de-contestualizza nella fredda ed europea Islanda, d’altro canto in Radio Telescope subiamo due minuti e mezzo di rumori già sentiti e risentiti che dovrebbero rifarsi alla tradizione sixties, ed invece sono solo un triste copia-incolla di una sperimentazione morta e sepolta, ormai iper-sfruttata e prosciugata.

Che poi ti ascolti in cuffia una Somewhere Else ed è ovvio che apprezzi il lavoro sul suono, e anche le capacità tecniche della band, non pazzesche ma adeguate, però cazzo mi compro un qualsiasi album di Electric Prunes, Acid Gallery e compagnia cantante e sono a posto, a cosa mi servirebbe la stessa solfa solo registrata meglio? Boh.

Personalmente adoro il ritmo cadenzato di See The Girl, è proprio il genere che piace a me, però che dovrei dire? Mi piace=compralo? Di tutta l’incredibile scelta garage degli ultimi cinque anni i Frowning Clouds rientrano a far parte dei revivalist, ovvero quelli meno interessanti.

Ci sono a giro Molochs, Dreamsalon, Ausmuteants, ci siamo goduti i Thee Oh Sees che hanno riesumato Barrett e lo hanno riportato qui da noi, come fece per gli anni ’80 un certo Robyn Hitchcock, insomma, di roba che ha davvero riscoperto i sixties ma cercando di donargli la propria impronta e nuovi significati ne abbiamo ascoltata a bizzeffe. E questi non ci vanno nemmeno vicino.

Diciamo solo che se proprio hai bisogno di ballare al ritmo garage notte e giorno, e ti sei già stufato dei The Seeds, dei Monks e dei Rats perché ogni giorno vuoi un album nuovo da consumare, allora “Legalize Everything” saprà allietarti le prossime 24h.

Tra l’altro guardando il video che segue ho pensato che sarebbe il caso di recensire i The Memories, che fanno praticamente la stessa cosa solo con una auto-ironia feroce. Loro invece ci credono, cazzo.

The Litter – Distortions

The+Litter

Quello che vi propongo oggi è un acquisto sicuro, anche se non di eccelsa qualità concettuale.

Sì perché credo che ogni tanto ci sia bisogno di far girare sul piatto un disco che alla fin fine non abbia chissà quali pretese, ma che faccia quel pizzico di rumore che comunque ci allieta la giornata.

E di rumore “Distortions” ne fa, dato che Warren Kendrick lo volle chiamare così perché l’intero album è caratterizzato dall’uso smodato del fuzz-tone.

Il garage dei The Litter è elettrico oltre ogni immaginazione, le casse sembrano emettere fulmini mentre le tracce si susseguono, il che credo sia un ottimo incentivo per l’acquisto di un album di fottuto rock, no?

Cos’altro hanno questi The Litter? Beh, nulla.

“Distortions” esce nel 1967 sull’onda del successo del 45 giri “Action Woman / ”Whatcha Gonna Do About It”, pubblicato da un’etichetta a me sconosciuta (la Warick). Se consideriamo quanto il garage aveva dato fino al ’67 il disco dei The Litter non sorprende né colpisce per una qualche idea in particolare, sono i soliti cinque ragazzini bramosi di fama che indossano vestiti di dubbio gusto e suonano come un Woody Guthrie impasticcato.

L’anno prima uscì dei The Seeds il loro primo album omonimo, una pietra miliare per il rock, un garage a tinte acide che spesso anticipa il punk (No Escape), era uscito un album pieno di ironia e contenuti serissimi come “Black Monk Time” dei The Monks (Complication), The 13th Floor Elevators, Electric Prunes e Blues Magoos tenevano alto il vessillo psichedelico mentre i Sonics spianavano la strada per il punk duro e puro (Strychnine). I The Litter nel 1967 erano in ritardo per la festa.

Un’altra cosa interessante è che “Distortions” è un album di cover, i Litter se ne fottono altamente di scrivere qualcosa di pugno, massacrano a suon di fuzz-tone gli Who, gli Small Faces, gli Yardbirds, cazzo si prendono pure Spencer Davis Group, non si fanno mancare nulla queste fighette di Minneapolis.

Però lo spirito di quei folli anni c’è tutto in questo album, anzi “Distortions” nella sua povertà concettuale è un disco che suona sporco e vivo come pochi nella storia del rock.

Mai un calo di tensione, mai un momento di noia, mai una pausa. La qualità espressa da Jim Kane, Dan Rinaldi, Tom Murray, Bill Strandlof e Denny Waite è strabiliante, e tutto in rigoroso MONO (tranne che per The Egyptian).

Questo è un album che dovrebbe far riflettere tutte quei dannati musicisti perfettini che se non registrano “da Dio” manco pubblicano un loro ruttino. Eppure a volte non servono nemmeno le idee, occorre solo quella fiamma indomabile che il rock incarna nelle sue esplosioni elettriche.

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L’album si apre con la bellissima Action Woman, un monolite del garage rock presente in qualunque collezione si rispetti su questo nobile genere. Se non ti convince un pezzo così sei messo male.

Via subito a razzo con la cover degli inglesi Small Faces, Whatcha Gonna Do About It? che orfana della voce di Marriott si riprende con delle indemoniate sferzate chitarristiche di Rinaldi. Un classe unica.

Siamo alla terza traccia e già possiamo sentirci pienamente soddisfatti dell’acquisto, perché Codine in questa veste distorta è quanto di più rock si possa immaginare. Lenta, potente, elettrica.

Somebody Help Me è un brit-rock basilare suonato da dei geni.

Substitute è la prima cover degli Who, e passa pieni voti. Anche inspiegabilmente del lotto è il pezzo che ha sofferto di più l’inevitabile scorrere del tempo (in coda c’è spazio pure per The Mummy di Tommy “Zippy” Caplan).

Si conclude il primo lato con la psichedelia stereofonica di The Egyptian.

Parte di corsa I’m So Glad con le solite impressioni elettriche col fuzz-tone che riempiono la stanza di luce.

Seconda e ultima cover degli Who, anche A Legal Matter tiene il passo.

In Rack My Mind si presenta pure un’armonica, ma niente blues o folk music del cazzo, fuzz-tone in funzione e garage incazzato per tre minuti e mezzo.

Soul Searchin’ e Blues One elettrizzano le palle con gaudio. Troppo bravi per essere vero.

Si conclude anche questo giro di giostra, ma per chiudere una chicca: I’m A Man, in una versione veloce, distorta e sporca come non l’avete mai sentita.

Il bello di questi album è che non devi scriverci sopra più di tanto, né ci vuole troppo a convincerti, ti piace il rock? Adori il rumore più sgradevole? Sotto la doccia canti The Witch dei Sonics? Beh, stronzetto, o stronzetta che sia, devi avere questa merda.

  • Pro: è rock gente, che altro volete sapere? Cazzo, certo che con i Pro e i Contro ultimamente sto proprio messo male…
  • Contro: se non ti piace il garage lo terrei lontano due sistemi solari da te.
  • Pezzo Consigliato: le prime tre tracce sono da antologia.
  • Voto: 7/10

The Monks – Black Monk Time

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Primo: la band che prenderemo in considerazione in questa recensione spacca i culi con potenti dosi di rock, quindi dovete ascoltare questo dannato disco.

Secondo: sono in vacanza, quindi sono in uno stato di scazzo assolutamente giustificato, la recensione verrà di merda, potete dunque saltarla a piè pari e scendere dal vostro spacciatore di dischi di fiducia e comprare questo fottutissimo album.

Cominciamo.

Qual’è il ritmo dell’estate?
Non so il vostro ma il mio qua a Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo, viaggia costantemente su fastidiose emissioni di musica latino-americana, Lunapop, Donna Summer e Muse sparati a palla dal carretto dei gelati. Preferirei un concerto dei Sonata Artica a tutto questo.

Detto ciò grazie agli straordinari ritrovati tecnologici contemporanei (le musicassette) riesco a sopravvivere quel tanto che basta per scrivere cagate sul computer e per leggere roba come “Lila” di Pirsig e “Please Kill Me” della premiata ditta McNeil-McCain. Inoltre il costante rompersi dello stereo fortifica la mia dolce ulcera.

Naturalmente sono al mare, ma la brezza marina non aiuta molto, non almeno quando, verso le due e mezzo del mattino, trasporta in camera mia assieme alla sua frizzante arietta anche le serate di karaoke a qualche isolato da qui.

Ci sono anche i vicini, ma a quelli cerco di contrattaccare. Ogni qual volta il mio gentile vicino tenta di inquinare il mio spazio vitale con oscenità sonore che vanno dai sempre verdi Backstreet Boys a Vasco Rossi io rispondo a mio modo, e quale modo migliore se non un album come “Black Monk Time”?

Se sapete già chi sono i Monks mi avrete mandato a cagare sù per giù alla seconda riga di questa sconclusionata recensione, ma se non li conoscete sappiate che vi siete persi (finora) una delle band più assurde e geniali dell’intera storia del rock & roll.

Intanto contestualizziamo (quindi mi stappo una birra), siamo nella prima metà degli anni ’60, i Monks credo comincino a suonare assieme intorno al ’64, e se i giovani virgulti dell’epoca ascoltavano i Beach Boys con i loro coretti che anticipavano i Village People e i cori ecclesiastici nella zona di Rignano sull’Arno, altri un po’ più furbi (come i Monks) ascoltavano le folli distorsioni del vero surf rock di Dick Dale (mentore di Hendrix), avevano in casa “The Standells In Person At Pjs” e si masturbavano al ritmo dei Vagrants e dei mitici Sonics (punk ante-litteram). Bei tempi in effetti.

Comunque questi cinque militari (!) americani di stanza a Francoforte avevano un’avversione per una band in particolare: i Beatles. Il che, molto stranamente, non gli è avvalsa la prima posizione in tutte le classifiche di Scaruffi.

I loro ritmi scanzonati [parlo dei Beatles], le loro canzoncine d’amore alternate a qualche sporadica considerazione sulla realtà al di fuori della loro gabbia dorata (che arriverà dopo “Rubber Soul”) facevano incazzare i Monks come Richard Benson davanti ad un pollaio. Così decisero, per motivi che non intendo sondare, di vestirsi da monaci (con tanto di chierica) e di provocare le masse con riff che facevano tremare le palle a tutti i vari Kings, Yardbirds e cazzi e mazzi.

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Il sound che i Monks concepiranno è oggi oggetto di discussione tra i critici di DeBaser o di Onda Rock, i quali adorano come nessuno i discorsi intorno al nulla o sull’effimero.

Sicuramente troverete persone che vi diranno che i Monks anticipano il punk, il che è giusto parzialmente ma se consideriamo band come Sonics o i Troggs, i quali sono molto più proto-punk dei quattro frati americani, allora forse è meglio semplificare le cose e inserirli nel miglior garage rock di sempre (hanno qualche affinità per esempio con i Music Machine, se non fosse per il banjo elettrico!).

Qualche pazzo addirittura li inserisce tra i fondatori dei kraut rock, e io proprio non capisco. Se in I’m Waiting For The Man dei Velvet è più che mai doveroso parlare davvero di punk sia come sound che come testi e concetto, nei Monks il sound, per quanto ritmato e deciso, è comunque legato al garage ed è ben distante dai ritmi serrati del kraut che erano funzionali a negare concettualmente un certo tipo di rock (consapevolezza che manca ai monaci del garage). Quindi ci sta di ascoltarli e sentire quasi una predizione dei Neu! o dei Faust, ma se nel caso dei Velvet, come nei Sonics e nei Troggs, la volontà di essere punk esiste ben prima che il concetto possa essere espresso, nei Monks c’è solo una voglia di avversione ai Beatles e company che si vuole esprimere con il vero rock, il garage per l’appunto.

I Monks non solo ti aggrediscono con un rock davvero pesante e irriverente per il 1966 (data di pubblicazione del loro unico album, “Black Monk Time”) ma oltretutto non si risparmiano neanche nelle liriche. E qui siamo lontani dal sesso frenato dei Sonics o dei Troggs, siamo lontani dai riferimenti alla droga di inni come Here Come the Nice degli Small Faces (che è dell’anno successivo, ma ricordiamoci che sono in vacanza e sto cazzeggiando allegramente, ok?), in “Black Monk Time” si parla di politica, e in particolare di guerra.

Solo un’altra band, ancor più leggendaria dei Monks, aveva usato toni così diretti (e anche indiretti, siamo comunque nel ’66) nel parlare di guerra negli USA: i Fugs.

Se tutto ciò non vi basta ascoltatevi i riff veloci e sporchi di Higgle-Dy-Piggle-Dy (con un organo allucinato alla Brian Auger), innamoratevi di uno dei capolavori del rock: Complication, lasciatevi stupire dal banjo elettrico di Shut Up.

Volete zittire il vicino al mare che mette a tutto volume i suoi balli di gruppo latino americani (che poi ballerà la sera stessa con i parenti over 50) con un po’ di sano rock? Beh, dato che con “Metal Machine Music” vi becchereste una bella denuncia per inquinamento acustico, allora potete tranquillamente virare verso i Monks.

  • Pro: semplice e incazzato rock. Vi pare davvero poco???
  • Contro: boh.
  • Pezzo consigliato: Complication.
  • Voto: 7,5/10