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Kamikaze Palm Tree – Good Boy

Etichetta: MUDDGUTS
Paese: USA
Pubblicazione: 2019

Dylan Hadley fa parte di quel giro magico che ha ridestato interesse nel rock underground, ovvero White Fence, Mikal Cronin, Ty Segall e tutta la banda. In un’intervista per KEXP John Dwyer ha raccontato della fantastica impressione che gli fece la Hadley come cantante e batterista per la sua band, i Kamikaze Palm Tree, probabilmente una delle realtà più divertenti del panorama rock mondiale – eppure ancora semi-sconosciute.

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Podcast – Le Grandi Delusioni

Sicuramente sarà successo anche a voi, no? Vai dal tuo spacciatore di dischi, ti fai consigliare qualcosa in base ai tuoi gusti, spendi un bel ventone o anche più, torni a casa per sparatelo dritto dritto nel condotto uditivo e… BANG! È una merda.

A me è successo parecchie volte, in questa puntata di Ubu Dance Party ve ne elenco 8 particolarmente scottanti.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Pink Street Boys – Trash from the Boys

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Loudest band in Iceland
(dal profilo Facebook della band)

We are garage rock. We are not trying to be garage rock, but we come to this scene because we are loud and obscene and we are not hardcore.
(Axel Björnsson, membro dei Pink Street Boys)

Ho sempre pensato che un’isola che venne scoperta da un tale Naddoddr non potesse che produrre metal a fiotti (lo stesso “Naddoddr” è un nome praticamente perfetto per qualunque band metal), ed invece nella sperduta Islanda, precisamente nella fredda Reykjavik, è nata la Lady Boy Records, una delle etichette più interessanti e intraprendenti di tutto il panorama europeo.

Con un catalogo ancora limitatissimo, dove si trova tanta avanguardia e curiose creature, c’è pure spazio per una stranissima band garage, forse la più atipica che abbiate mai sentito girare sul vostro piatto, i Pink Street Boys.

Ho smesso da tempo di fare le recensioni pezzo per pezzo, anche perché perlopiù inutili, ma in questo caso vale la pena di spenderci del tempo.

Già dalla prima traccia questo “Trash from the Boys” colpisce per la sua incompatibilità con tutta la scena garage psych contemporanea. Che cacchio sarebbe Up in Air? Sembra un sogno ad occhi aperti di White Fence, finalmente non apatico ma felice di questa vita tra Syd Barrett e album (i suoi) mediocri. Si percepisce dalla spigolosità degli interventi chitarristici la derivazione psichedelica, mentre la melodia sembra rubata ad un film Disney mai uscito perché troppo lisergico per dei bambini.

Il garage vero e proprio arriva subito con il secondo pezzo: Sleazus, con un pizzico di hardcore e la costante sensazione che qualcosa non quadri. È come se una band scesa da Marte si fosse appassionata di Shadows, Thee Oh Sees e Soft Boys, decidendo di tradurli nel loro linguaggio musicale.

La stessa cosa vale per Drullusama, Body Language e Warrior, la band riscrive a suo modo i canoni estetici del 90% delle band garage a giro in questo momento, ribaltando l’esigenza pop della Burger Records attraverso una commistione di sperimentazione e… boh, “spirito islandese”? In fondo Body Language potrebbe essere un pezzo di Ty Segall e Mikal Cronin, ma la volgarità del suono e dell’esecuzione manca effettivamente ai due californiani, più legati alla tradizione e quindi più prevedibili.

Persino Warrior sembra uscita fuori da “Floating Coffin”, l’ultimo album della madonna dei Thee Oh Sees, ma è come lo avrebbero suonato una cover band dei Residents!

Get Away è un altro tributo ai Thee Oh Sees, stavolta più fedele e legato all’acustico “Castlemania”.

In Psilocybe Semilanceata si percepisce il vento freddo fuori dalla sala di registrazione, mentre l’alcol scorre lento nelle vene, e una musica calda e acida inebria i nostri sensi, in una lenta spirale certamente disorientante ma dolcemente piacevole.

Kick the Trash Out è un minuto e mezzo di garage abrasivo, dove l’estetica dei Thee Oh Sees viene piegata a piacere della band.

L’attacco di Kassastarfsmaður probabilmente farebbe piangere d’invidia il buon Dwyer, cazzo è proprio quello che ci aspettavamo da “Drop” dei Thee Oh Sees, un passo avanti verso la psichedelia e un suono più disorientante, meno attenzione al pubblico e più al rumore, al fastidio.

Ecco, i cinque minuti di Korg Madness (il titolo è pienamente rispettato, fidatevi) valgono l’acquisto di questo “Trash from the Boys”. Non c’è un tentativo né di autocompiacimento né di compiacere il pubblico ormai frastornato, i Pink Street Boys si lasciano trascinare dalla marea travolgente del suono, ripetitivo, artificiale, come dei Kraftwerk sotto anfetamine. È circolare come Blow Daddy-o dei Pere Ubu, ma invece che inquietare aliena, ma è un’alienazione dolce, che sa di bourbon e neve.

La chiusura dell’album con Fautar non aggiunge molto al resto e suona come un riempitivo non ben nascosto.

Il quadro che ne esce fuori è piuttosto omogeneo, se non consideriamo l’apertura e la chiusura dell’album. Un garage sicuramente potente e ignorante, come vuole la tradizione, ma con una tocco particolare, unico, a tratti tremendamente glaciale, in altri quasi sperimentale.

Un album veramente curioso, ci ho trovato cose tremendamente banali e alcune stupefacenti, alla fine della giostra ascoltarlo mi diverte, è come un giocattolino rotto a cui ti sei affezionato senza un preciso motivo.

Per lasciarvi anche a voi col sorriso vi consiglio di leggere questa intervista ad uno dei membri della band, per il resto vi lascio con il lettore bandcamp qua sotto con tutto l’album e una stupefacente live con tanti pezzi ancora inediti.

Thee Oh Sees – Drop

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Sono ormai settimane che ascolto “Drop” volenteroso di scriverci sù una recensione decente, ma non è facile.

Sicuramente, come i miei lettori affezionati sanno bene, molto è dovuto dalla mia palese incapacità di scrivere recensioni comprensibili. Ma ci amiamo lo stesso. Credo. Comunque non è questo il punto, il punto è che questo “Drop” è davvero un album controverso per la band californiana per eccellenza.

Probabilmente si parla dell’ultimo lavoro in assoluto per i Thee Oh Sees, ed io mi aspettavo i fuochi d’artificio per l’occasione ed invece…

Beh, partiamo da una constatazione troppo poco ribadita, se non proprio volutamente censurata, in molte recensioni: questi non sono i Thee Oh Sees. L’unico nome che accomuna il penultimo album “Floating Coffin” a questo è quello di John Dwyer, il deus ex machina della band, ok, ma dove sono finiti gli altri?

Non è un caso se quindi “Drop” è un miscuglio indefinibile di Thee Oh Sees, Coachwhips e gli esperimenti solisti di Dwyer, con un pizzico di White Fence, ma invece di essere un mix delizioso come vodka e frutti di bosco questo è più come uno di quei frullati di Maurizio Merluzzo.

Senza Lars Finberg alla batteria i ritmi restano blandi, manca la voce acida di Brigid Dawson e ovviamente la furia al basso di Petey Dammit a dare corposità ad un suono etereo e francamente soporifero. In compenso c’è un sassofono baritono (Casafis) e un sassofono contralto (Mikal Cronin? Sul serio? Ora può pure rubarmi il nome del blog!) che non sfigurano.

Piuttosto apprezzabile The Penetrating Eye, un pezzo vecchio scuola, mentre già con Encrypted Bounce i nodi vengono al pettine. Non c’è potenza né coinvolgimento, la canzone in sé non è una merda, ma non c’è il mordente di una Sweets Helicopters o di una Maria Stacks.

Savage Victory per esempio rientra nei canoni estetici, ritmici e melodici che contraddistinguono il sound dei Thee Oh Sees, ma è davvero lontano dagli standard con cui la band ci aveva abituato.

Forse l’acuto dell’album arriva alla fine del primo lato con Put Some Reverb On My Brother, un pezzo ispirato dall’enfant prodige TimWhite FencePresley, che mescola bene la psichedelia soft del primo con il sound di Dwyer. Mi piacciono i cambi di velocità e quel ritmo da disco rotto, quantomeno la posso ascoltare senza distrarmi un secondo sì a l’altro no.

Divertente il surf garage di Drop, inutile Camera (Queer Sound), mentre è davvero strana The King’s Nose. Sì, lo so, “strano” è un termine esageratamente tecnico. Intendo dire che è una roba a metà tra l’indie dei Raconteurs (vi prego, prendete questa affermazione con le pinze, non fracassatemi i coglioni) e i Thee Oh Sees ma in generale si può dire che non sa di un cazzo.

Il primo minuto e mezzo di Transparent World conia un nuovo genere, la porn-drone. Lascio a voi le dovute conclusioni.

Si finisce con The Lens, una prova di assoluto spessore per Dwyer per quanto riguarda la costruzione di un pezzo più appetibile per un mercato diverso dai festival psych garage. Si parla del pezzo più “pop” dei Thee Oh Sees, ma è quantomeno un lavoro quadrato, beatlesiano al punto giusto lasciando Syd Barrett come padrino spirituale degli album precedenti, qui dimenticato. 

Il problema principale di questo album dei Thee Oh Sees è, come dicevo, che non è dei dannati Thee Oh Sees. Dwyer poteva benissimo farsi un progetto parallelo, come ne ha già fra l’altro, e pubblicare questo album senza infangare l’ottima discografia della sua band più famosa.

Una delusione su tutti i fronti, un album poco più che mediocre. 

  • Lo Consiglio: se proprio adori John Dwyer ci sono comunque due o tre spunti interessanti.
  • Lo Sconsiglio: a tutti, sopratutto a chi vorrebbe approcciarsi per la prima volta a questa ottima band. Ascoltatevi “Carrion Crawler/The Dream” (2011), “Floating Coffin” (2013) e “Castlemania” (2011) piuttosto.

E ora qualche video:

Due singoli dall’ultimo album.

Qualche live per ricordarne i recenti fasti.

Jeffrey Novak – Baron In The Trees

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Senza infamia e senza lode, lo collocherei in questo momento della sua carriera tra un Syd Barrett smorto e il più ispirato John Lennon, molto dei contemporanei The Mallard e White Fence e difatti anche lui come questi ultimi fa parte della rinascita (se mai c’è stata una “morte”) della psichedelia americana che ha sede fissa in California.

Jeffrey Novak è praticamente sconosciuto in Italia se non per la sua parentesi Cheap Time, mediocre tentativo di unire glam a garage come un tempo. Questo tizio rinasce in tempi recenti lasciando perdere definitivamente la vena glam (davvero, faceva schifo) e lasciando il garage ai vai Ty Segall e Crystal Stilts (che è in buone mani, fidatevi), protendendo per una psichedelia spicciola.

Lontano dalla magnificenza spesso dichiaratamente masturbatoria dei The Black Angels, lontanissimo dalla potenza e dalla genialità di Thee Oh Sees e Zig Zags, è certamente più affine alla forma-canzone alla White Fence, ma se il caro Fence è comunque ancorato ad un concetto (forse) un po’ posticcio della psichedelia, Novak dal canto suo è molto vicino all’ultimo Barrett del ’70, il che perlomeno ci fa capire che il ragazzo assume dosi di rock ben tagliate.

In soldoni il tizio ci sa fare e nel 2012 pubblica questo “Baron In The Trees” (credo ispirato in parte al celebre romanzo Il Barone Rampante di Italo Calvino, che se non avete letto siete brutte persone) che finalmente sono riuscito ad acquistare ieri, e che intende essere un po’ la summa del percorso di Novak e forse la prova della sua definitiva maturazione.

Quest’anno è uscito “Lemon Kid”, ma, ehi, appena avrò il grano vedrò di procurarmelo, intanto mi cucco/vi cuccate questo.
Novak non è un genio della musica, e di certo non è tra gli artisti di punta di questa nuova ondata garage-psichedelica che mi sta appassionando a livello discografico come niente nella mia vita, la sua psichedelia chiede poco e dà pochissimo.

In Baron la fa da padrone l’acidità di Barrett (presente sopratutto nella performance vocale), ma la musica è molto pop prima ancora che rock. Eppure nella sua confezione abbellita di archi (Parlor Tricks) di rimandi floydiani esagerati, di pezzi impacchettati ad arte (Watch Yourself Go) di hit accattivanti (Here Comes Snakeman) di tutti quelli che invece di prediligere la via più “estrema” della psichedelia, fondendola con drone e garage, si sono buttati su un’idea più melodica e modesta, Jeffrey Novak ne risulta senza alcun dubbio il più gradevole.

Si merita una pacca su una spalla, il tizio.

“Baron In The Trees” per quanto mi riguarda è involontariamente un classico. È un metro, un modulo, come cristosanto posso dire… ecco: un esempio di cosa si è preso dal passato e di come lo si riutilizza oggi negli anni ’10 del 2000.

Al contrario di tutte le band psichedeliche principali di questo momento Novak viene dal Tennessee, più precisamente dalla rigogliosa capitale Nashville, patria del country. E già da qui si può capire come proprio il buon Novak riesca a dare il suo meglio entro i 4 minuti (meglio se 3 o due e mezzo), con poche note ben posizionate, una melodia sempre orecchiabile e il tutto registrato decentemente.

Sebbene sia un po’ più acida la title track che chiude questo brevissimo album (anche troppo, solo 9 pezzi per un totale che sfiora la mezz’ora!) il resto si libra nell’aria con leggerezza e una buona dose di maturità.

Un ottimo passatempo e un simpatico acquisto natalizio. Lo consiglio a chi tra un feedback e l’altro vuole un attimo riposarsi e tenere qualcosa di decente di sottofondo. Non c’è bisogno di ascoltarlo con attenzione, va giù liscio come il vino che comprate al Penny Market, senza infamia e senza lode.

  • Pro: scrollatosi di dosso il glam e buttandosi in Barrett, Novak ha trovato se stesso e della buona musica.
  • Contro: nessuna pretesa di alcun genere, un disco che non ha niente da dire.
  • Pezzo consigliato: Baron In The Trees.
  • Voto: 6/10

Mikal Cronin – MCII

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Cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?

Probabilmente non tutti conoscono ancora Mikal Cronin, un bravo ragazzo californiano dal sound grezzo e violento che con dischi come il precedente (omonimo del 2011) e il bellissimo “Reverse Shark Attack” con Ty Segall si è imposto, almeno per la critica musicale, come tra i giovani più interessanti di una California rivitalizzata nella psichedelia e nel garage.

Quindi riponiamoci la domanda: cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?

Semplice: due palle come mongolfiere, casino, garage e divertimento a sfinire.

Ma nella vita non tutto è come vorremo che fosse.
Comprato all’uscita nella speranza che il buon Cronin mi rompesse definitivamente le casse, sembra che il mio più recente acquisto invece mi stia rompendo assai i coglioni.

La virata di Cronin è quella per un rock più “arioso” nei riff, che ammicca in modo svergognato ad un garage imbonito da spiaggia californiana più che da festival della birra con i Thee Oh Sees in scaletta.

Le prime tre tracce scorrono, non c’è che dire, in confronto a qualsiasi altro lavoro di Cronin c’è una certa armonia, il suono varia dal pulito allo sporco senza intoppi, mix e produzione con i fiocchi. Dei tre pezzi che ci introducono al secondo album di Cronin segnalo solamente Am I Wrong, leggermente più animata o quantomeno personale, un buon livello di composizione (ma sempre elementare, il che va bene finché cazzeggi, ma non quando fai finta di fare roba “seria”).

Si rialza Cronin con See It My Way, che sembra uscita pari pari da “Hair” di Segall e White Fence, con un pizzico meno di psichedelia. La forma “singolo” però mi disturba. Cronin ha confezionato un perfetto biglietto da visita per radio e TV, non è un caso se quindi la critica lo accoglie come il suo miglior lavoro.

See It My Way non è un brutto pezzo (il testo ha anche un che di garage), ma un po’ come You Make The Sun Fry, singolo da “Goodbye Bread” di Segall, appare studiato a tavolino e manca di autenticità, se capite cosa intendo.

Peace Of Mind nella sua “confezione da spiaggia” non perde una certa piacevolezza, inficiata comunque da un continuo rimando a sonorità troppo commerciali per non essere notate.

Quando le mie speranze ormai sembravano perse in un abisso di chitarre acustiche e giovani californiani palestrati in camicia hawaiana arriva Change, che sulle prime mi rinsavisce, e in effetti il riff funziona bene, peccato che il resto subisca un po’ ancora questo forzato imbonimento.

Provo una certa rabbia per questo cambiamento di rotta.
Non sono di certo uno che si affeziona ad un sound, se un artista che mi fa cagare cambia rotta e mi piace è ok, e anche se un rocker incazzoso diventa una checca rifatta a me va bene se la musica comunica comunque qualcosa. La rivoluzione nel sound dei Meat Puppets da “Meat Puppets II” a “Up On The Sun”, sebbene mi abbia scombussolato sulle prime, mi ha regalato uno dei miei dischi preferiti, tutt’ora il mio preferito della band.

Quindi porcamiseriamaledetta non me ne frega nulla se Cronin adesso si sente a contatto con Madre Natura e deve farcelo percepire pure a noi a suon di litanie acustiche, perché se ci metti l’anima, se ci metti il rock, va più che bene. Ma non è proprio il caso di questo album.

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La chitarra è diventata light senza un motivo preciso, perché non c’è nulla nella musica e nella composizione che lo giustifichi, è tutto decisamente piatto, ripetitivo, impersonale e tragicamente scontato. Un bel cambiamento in confronto al primo album: “Mikal Cronin”.

Don’t Let Me Go è un altro pezzo che sembra proprio pensato per essere un bel tormentone per i giovani californiani che viaggiano a tutta birra per strade deserte con la radio a palla, una cosetta che non dispiace a nessuno, che non ferisce ma nemmeno colpisce, superficiale.

Non più cosa aspettarmi mentre il disco volge a Turn Away. Almeno si finge di cambiare ritmo, ma le sonorità restano quelle. Encomiabile lo sforzo di donare all’album un sound ben definito, e vorrei tanto che voi capiste che VA BENE e oltretutto è PIACEVOLE, ma che essenzialmente manca di passione.

Con Piano Mantra entra in gioco pure un piano che spizzica qua e là qualche accordo degno di Allievi, mentre si aggiungono degli archi e il tutto prende il colore di un Leonard Cohen poco ispirato, spezzando inspiegabilmente la trama sonora fin qui portata avanti. I testi che seguono non sono certo di un T.S.Eliot o di un Bukowski, ma questo nel rock va bene, tranne quando la musica e il tono fanno pensare che il musicista abbia qualcosa di profondo e importante da dirci (ed invece ci becchiamo una riflessione alla Baci Perugina). Su queste sonorità (in realtà no, ma vabbè) e con un’idea più genuina di climax consiglio vivamente Panic Attack #3 degli italiani a Toys Orchestra: così si scrive un cazzo di pezzo.

No, vabbè, sono troppo scazzato per questo disco, davvero troppo.

  • Pro: beh, mica fa cagare.
  • Contro: santo cielo se fa cagare…
  • Pezzo consigliato: Apathy. È del disco precedente dite? E secondo voi non lo so?
  • Voto: 4,5/10

Ty Segall – Goodbye Bread

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[Dopo un paio d’anni mi pento di parecchie cose in questa recensione, ma il bello di fare recensioni perché mi va sono anche queste uscite così entusiastiche, esagerate, prorompenti. Da qui ho cominciato ad aprirmi alla scena garage californiana, e adesso nel 2015 posso dire che è stata la protagonista di questo blog per un paio d’anni buoni. Quindi grazie Ty, non so bene di cosa, ma grazie.]

Ty Segall è californiano gente, cresciuto come solo in California crescono i veri uomini, pane, acqua e garage rock.

Quando ascolti Segall non sai bene da dove partire. Delle volte sembra appena uscito da una jam session con Iggy, delle altre invece con i Sonics, non è raro che mi rimembri a tratti anche i Seeds, i Troggs e i Crime.

La musica di Segall non vuole colpirvi il cervello, punta dritto dritto alle budella. I suoni distorti, il feedback, errori palesi e le sbavature, tutto fa parte della potenza espressiva di questo cazzone.

Per me è difficile fare un recensione di “Goodbye Bread“. In realtà la cosa è andata così: mi giravano le palle perché volevo recensire il Richard Hell dei tempi d’oro, però poi ho pensato che faccio troppe recensioni di vecchiardi, in seguito mi è venuto in mente che potrei fare una recensione sui Foxygen (che, per inciso, odio) e mentre mi lambiccavo con questi dilemmi iTunes, che se ne stava lì a buttare in sequenza casuale miliardi di ore di musica, mi spara a tutto volume California Commercial, proprio da “Goodbye Bread” di Ty Segall. È stata come un’illuminazione, una sorta di luce in fondo al tunnel. Non è il mio disco preferito del giovane californiano, però da qualche parte dovevo pur cominciare.

L’ambiente di Segall è quello underground pesante, uno dei tanti sconosciuti che infestano le radio streaming e i locali più infami con i loro brufoli e la loro scocciante gioventù. Paffuto e biondo, Segall a prima vista potrebbe anche apparire come un bravo ragazzino arrivato tardi al concerto dei Nirvana, ed invece è proprio un pazzo, anzi: è incazzato.

Molti amanti dell’indie sono rimasti sconvolti dall’implume Segall, riconoscendo sulle prime qualche accordo depresso-introspettivo si sono avvicinati, per poi ritrovarsi sommersi da pura rabbia rock. Ehi, niente contro l’indie, mi piacciono pure gli Underground Youth, però il garage è unico, anche per i personaggi tipo Segall.

Va bene, si ispira a gente come Iggy, come ai Black Sabbath e ai Black Flag, come pure alla psichedelia di Syd Barrett e dei White Witch e via dicendo, ma chi con un po’ di cervello non lo fa? Probabilmente lo fa anche Jeffrey Novak, non tanto bene però, ma Segall sembra attingere proprio dalla forza originaria che smuoveva tutti quei maledetti geni.

Sì, ok, forse, e dico forse, “Goodbye Bread” è il suo disco più moscio a tratti, però è quello che mi è capitato sotto mano adesso. È uscito nel 2011 sotto la grandissima Drag City, un’etichetta con le palle. Il sound appare più canzonato e “limitato” almeno in confronto ai lavori precedenti, un po’ come se durante le registrazioni qualcuno tenesse per le palle in prode Ty, ma in realtà non ci trovo niente di sconvolgente, anzi, anzi

Ty arriva a questo album dopo una serie infinita e incatalogabile di collaborazioni, di tutti i tipi e con con tutti i tipi più strani della scena californiana. La sua prima esperienza di rilievo è certamente con i The Traditional Fools (2008), un paio di 45 giri ed un album con i coglioni, ma un po’ dispersivo. Poi sembrava dovesse fare quasi il serio con Mikal Cronin, ed invece “Reverse Shark Attack” risulta essere uno degli album più fancazzisti e divertenti del 2009.

Inizia a collaborare con i Sic Alps nei ’10, si fa una bella cultura anche psichedelica, e si prepara mentalmente alla collaborazione con White Fence. Chi vi dice che “Hair” (2012) il disco di Segall con Fence sia roba da checche ci capisce sinceramente poco o pochissimo. Segall, come ben dimostra la sua discografia, non è solo Stooges, non è solo garage (e già sarebbe comunque tanto), ma principalmente è divertimento. Tira fuori due o tre dischi all’anno, che cazzo credete gliene freghi di come viene incasellato, o se delude i fan del “feedback a tutti i costi”? “Hair” vede collaborare due grandi e giovanissimi rocker, ma se Segall è il lato oscuro del rock, quello viscerale, quello puro, invece White Fence fa parte di quel rock psichedelico angosciante, ironico e disturbante. La loro passione per i sixties e i seventies si fa sentire tutta in “Hair“, con colpi di genio assoluti come in Time e Easy Rider, oppure in totali momenti di noia, eppure anche la merda di Fence e Segall è preferibile a una qualunque band della Jagjaguwar (a parte i primissimi Black Mountain).

Praticamente sto spendendo più parole per i dischi peggiori che per i migliori. Ma in realtà va bene, è quello che volevo sotto sotto.

Il crescente successo che investe Segall lo porta nel 2011 a fare una bella raccolta di singoli dal 2007 al 2011 ovviamente, un modo per farsi conoscere anche da noi europei, che in California a cercare i suoi dischi proprio questo weekend non possiamo andarci. E nemmeno nel prossimo.

Quello che ne viene fuori da quella stranissima valanga di singoli sono perle di saggezza che rischiavano di essere perse per strada. Roba garage-punk come Bullet Proof Nothing, rigurgiti barrettiani come in Fuzz Cat, rumorosissime hit come Ms. White. Sembra che Segall, un fottuto ragazzino (ma non lo erano forse anche i Sonics, i Count Five e gli Stooges?) per giunta californiano, abbia riscoperto il garage, e ce lo stia insegnando di nuovo.

Goodbye Bread

Dopo “Lemons” (2009) e “Melted” (2010), due dischi a tratti notevoli ma anche presuntuosi, esce il nostro “Goodbye Bread“. Obbligatoriamente, come ogni buon disco garage, va ascoltato ad un volume ESAGERATO, meglio senza cuffie.

L’album si apre con la title track e se vi sembra un pezzo “serio” provate ad ascoltarlo così.

Si passa alla sopracitata California Commercial, garage puro e semplice.

Seguono a fuoco Comfrontable Home, You Make The Sun Fry e I Can’t Feel It. C’è rumore, ma ci sono già tante idee che verranno sviluppate con Fence in “Hair“. Ascoltandole non si capisce proprio come Segall abbia tirato fuori due dischi al sangue come “Slaughterhouse” e “Twins” (entrambi dell’anno scorso), ed è infatti impossibile se non si conosce la discografia del ragazzo.

My Head Explodes mi fa bene al cervello, sento confluire più ossigeno quando la ascolto. Si comincia con un misto di indie e grunge, per poi scoppiarti in faccia a piena potenza: rumori assordanti e distorti, e c’è pure la chitarra spaziale alla Hawkwind!

Si spazia un po’ con The Floor, eclettica e modesta, moscia invece Where Your Head Goes, c’è un po’ di Barrett anche in I Am With You, per il finale c’è Fine, che non sa di un cazzo, probabilmente a Segall stava alquanto fatica scrivere ancora qualcosa di decente (tra ottomila collaborazioni e al ritmo di due dischi all’anno mi stupisco che non ci sia molta più merda).

In conclusione si può può benissimo dire che “Goodbye Bread non è un disco particolarmente rilevante nella discografia di Segall, ma da qualche parte bisogna pur cominciare no? Inoltre sono dell’avviso che anche quando caga Segall fa della musica molto più sincera e vera della maggior parte delle band che dicono di fare rock.

Segall non fa arte, non fa roba intelligente, non sta riscrivendo i capisaldi della musica, fa rock, fa garage. E lo fa bene, dannazione.

  • Pro: alcune idee sono stupefacenti nella loro semplicità, come in California Commercial, o come nel gustosissimo climax di My Head Explodes.
  • Contro: questo dipende voi: Segall cazzeggia per tutto il tempo, sbavature e ingenuità costellano tutto il disco dalla prima all’ultima traccia, se la cosa vi piace non è un difetto, se invece vi dà fastidio state lontani mille miglia da questo disco e in generale da Ty Segall.
  • Pezzo Consigliato: ho un fottuto debole per Goodbye Bread. Che ci posso fare?
  • Voto: 7/10